Lo scopo di una classifica dei migliori album dell’anno non è certo quella di mettere i dischi in ordine e assegnare dei numeri in base a calcoli, preferenze, importanza e astrologia: si tratta semplicemente di offrire una panoramica al lettore di quello che valeva la pena ascoltare durante l’anno, proporre un recupero di ascolti tra la marea di nuove uscite del 2017. E così anche per quest’anno vi diamo la nostra proposta: 50 (e più) dischi da ascoltare, recuperare, amare e odiare – ma tranquilli, non dovete farlo per forza, né vivere il tutto con ansia e fretta. Buon ascolto, è questo lo spirito con cui leggere una classifica dei Best Album.
MENZIONI SPECIALI
Cominciamo la nostra scalata ai migliori album dell’anno con i dischi a menzione speciale del 2017, quelli a cui assegniamo una Palma d’Oro, e che per ragioni diverse non entreranno nella numerologia.
Hey Mr Ferryman di Mark Eitzel
Basta premere play sul disco per comprendere la portata magica del cantautorato di Mark Eitzel. Uscito ormai lo scorso Gennaio, altamente consigliato per chi se lo fosse perduto per strada. E perdersi per strada in compagnia della sua voce è meraviglioso.
Capacity dei Big Thief
Definiti anche poeti del folk rock per la vena della Lenker di sussurrare storie, i Big Thief riescono a registrare un disco fresco e catartico, con colpi di classe come Shark Smile o Mythological Beauty.
Flower Boy di Tyler The Creator
Questo non è il disco di un ragazzo di colore che decide di dichiararsi omosessuale, ma di un uomo complesso che butta via tutte le maschere e comincia a vivere ogni giorno per quello che è, che decide di scendere da quella McLaren.
Infinite Worlds dei Vagabon
È la libertà vocale della Temko, coi continui richiami ritmici fra lei e gli strumenti, a dare a Infinite Worlds quella qualità, tecnica e sentimentale, in più e a consegnarti, prima del coro finale, un’istantanea dei rapporti d’affetto nelle metropoli. (The Subterranean Tapes)
Nothing Feels Natural dei Priests
La voce di Katie Alice Greer è punk e riot come si deve, e arriva diritta al punto, accompagnata dalle distorsioni grezze delle chitarre che ci rendono indietro la sana atmosfera di un vecchio locale davvero devoto al post-punk – quelli che resistono insomma.
E ora diamo i numeri, e partiamo dal 47.
47. PONTIAK – DIALECTIC OF IGNORANCE
Thrill Jockey
C’è ancora bisogno della forza sovrumana con cui i Pontiak fanno musica, c’è ancora bisogno di essere trascinati via dallo psych-rock, e se non ci credete provate a metter su Dialectic of Ignorance. Facile dimenticare dove siamo.
46. CHELSEA WOLFE – HISS SPUN
Sargent House
L’oscurità è la migliore amica di Chelsea Wolfe ormai da parecchio tempo. Il rapporto con la buia compagna si è fatto più intenso e personale e Chelsea ha scoperto come trarne benefici, mescolando tra loro elementi di gothic, elettronica e industrial e modellando vasi di creta scura dalle forme sempre più impressionanti. Questo è il disco che la consacra Regina dell’Oscurità. (Recensione)
45. FEVER RAY – PLUNGE
Rabid Records
Se ci avessero detto che Karin Elisabeth Dreijer Andersson aka Fever Ray (e voce del duo The Knife) sarebbe tornata con un disco in splendida forma probabilmente non ci avremmo creduto. E avremmo sbagliato. Plunge è un ottimo modo per spegnere gli heartbeats e farci battere al ritmo.
44. FLEET FOXES – CRACK-UP
Nonesuch Records
Crack-Up non rivoluziona lo stile dei Fleet Foxes. Siamo sempre di fronte alla stessa band, che non sta cercando di dettare nuove tracce nel panorama musicale contemporaneo, ma anzi ripesca nel passato, riporta in auge la chitarra, e i cori, le doppie voci, qualcosa che ha che fare di più con Crosby, Stills, Nash & Young che con l’indie folk. Eppure ha il merito di lasciarci respirare aria pura in tempi affannati. (Recensione)
43. IBEYI – ASH
XL Recordings
Lisa e Naomi sono cresciute, sono più forti e hanno interiorizzato nel miglior modo possibile il dolore, usandolo come strumento per trasformarsi da bambine che piangono il padre a donne che consolano e cantano la ninna-nanna alla loro nipotina, figlia della sorella scomparsa in Valè. Musicalmente tutto ciò ha significato aprirsi ad un suono più moderno, compatto e prodotto. Con Ash le sorelle Ibeyi riescono a farci accettare le due componenti della vita: tragica e gioiosa. (Recensione)
42. THE FLAMING LIPS – OCZY MLODY
Warner Bros. Records
Con Oczt Mlody i The Flaming Lips sono entrati in quello che può essere visto come il terzo periodo della loro lunga e complessa storia musicale. Bastano le prime note di Oczi Mlody per deludere chi si aspettava un passo indietro dopo le critiche a The Terror. Il tappeto sonoro che, con note liquide, apre su una fanfara elettronica e poi su una tessitura di beat degna di Nicolas Jaar, il pezzo che dà il titolo al disco, è una presa di distanza fortissima che, rispetto a The Terror, spazza via le tracce residue che li collegavano al passato. (Recensione)
41. CLOUD NOTHINGS – LIFE WITHOUT SOUND
Carpark Records
Life Without Sound è un disco fresco, arrabbiato, adolescente, teso tra un riff carnoso e asciutto, una sgommata che sa di grunge, una melodia indie-pop folgorante e un urlo ossessivo di ribellione. Che passa dal punk più britannico agli assoli di J Mascis con una disinvoltura talmente azzeccata che apre spesso un sorriso. Questo è il disco che ogni adolescente frustrato nato nei 2000 deve ascoltare per sentirsi come si sentiva suo papà alla sua età. (Breviario)
40. LONDON GRAMMAR – TRUTH IS A BEAUTIFUL THING
Metal & Dust / Ministry of Sound
Truth Is A Beautiful Thing è un disco dalla forte componente emotiva, in cui è facile perdersi ad occhi aperti tra i paesaggi liquidi che si succedono rapidamente dal finestrino di un treno. C’è, però, un rischio nell’ascoltare tutta questa bellezza, ossia sconfinare nell’asetticità, trasformando quei paesaggi da cartolina in dipinti a olio da guardare al di là di una transenna. D’altronde dietro un’impalcatura così solida ci sono due perfezionisti. (Breviario)
39. BJORK – UTOPIA
One Little Indian Records
In Islanda vivono attualmente circa 334.252 persone, poco meno della popolazione di Bologna e Firenze. Tra questi ci sono i Sigur Rós, la mezza italiana Emilíana Torrini, e – ovviamente – Björk. Con questo non vogliamo certo lasciar intendere che la classifica contenesse una fantomatica “quota islandese”, ma che Björk resta una fuoriclasse internazionale anche se viene da una nazione piccolissima, e la sua Utopia continua a cantarla (nel modo a cui ci ha abituato) al mondo intero.
38. SOULWAX – FROM DEEWEE
PIAS Recordings
From Deewee rappresenta l’ennesima svolta nella carriera dei Soulwax, stavolta verso un’elettronica meno ruvida ma più leggera e delicata rispetto ai i lavori precedenti. Tra atmosfere rock a ritmi elettronici al synth pop, i Soulwax ci regalano un disco che ha un sapore fresco. (Breviario)
37. PROTOMARTYR – RELATIVES IN DESCENT
Domino Records
La formazione di Detroit esaspera lo stato di angoscia latente nel disco precedente disgregandolo in dodici tracce che sembrano scrollarsi di dosso l’etichetta post-punk e ritrovare le radici più pure del genere. La voce di Joe Casey, prolisso e poetico nei testi come mai prima d’ora, suona vagamente Nick Cave-y e si amalgama alla perfezione al ritmo incalzante delle percussioni e agli arpeggi più freschi delle chitarre. Corposo. (Breviario)
36. PHOENIX – TI AMO
Glassnote Records
Già con il primo assaggio J-Boy i Phoenix ci avevano fatto capire di aver intrapreso una nuova strada riguardo l’ispirazione italo-dance del disco. E del resto con un album che porta questo titolo – Ti Amo – cosa potevamo attendere. Good Vibrations. (Breviario)
35. AT THE DRIVE IN – In•ter a•li•a
Rise Records
Diciassette anni. Tanti quelli passati perché gli At The Drive-In, gruppo texano con linee di sangue messicane e portoricane, tornassero a incidere un disco. L’idea di un nuovo disco, così rischiosa, non ha l’agrodolce sapore di un amarcord ma anzi partorisce quello che dimostra di essere uno dei lavori più belli e maturi della band che, a distanza di anni, non riesce in alcun modo a rinunciare a quella cifra così post hardcore caratterizzata da un’urgenza espressiva diretta e violenta. Irriducibili. (Breviario)
34. DIRTY PROJECTORS – DIRTY PROJECTORS
Domino Records
Dirty Projectors è l’album cui David Longstreth fa tutto da solo, dopo la rottura del duo con Amber Coffman, con cui nel 2013 aveva registrato un sorprendente Swing Lo Magellan. Seguirà un silenzio musicale troppo lungo, e poi finalmente l’uscita di questo disco, che sembra entrare in perfetta sintonia con quelle che sono le coordinate tracciate dal panorama musicale contemporaneo di questi anni. L’uomo bianco è solo, e si confronta con i trend più black: ne esce fuori una storia originale. Schizoide, sincero, delizioso. (Recensione)
33. FOREST SWORDS – COMPASSION
Ninja Tune
L’uscita di Compassion risulta paradossalmente tempestiva, una sorta di risposta al “mondo incerto e aggressivo che stiamo sperimentando”, non fosse altro che per il livello di ansia, delicata malinconia e resilienza ad oltranza che è sempre stato marchio di fabbrica della musica del produttore di Liverpool. Con la sua Compassion, Forest Swords ha trovato la formula vincente per interpretare il mondo attuale. (Breviario)
32. THE XX – I SEE YOU
Young Turks
Gli xx sono in bilico tra l’adolescenza e l’età adulta così come lo siamo noi, a novembre sono saliti sul palco del Saturday Night Live e sul loro volto c’era ancora la paura o forse una sorta di timidezza che è il loro marchio di fabbrica, ma ci siamo stupiti scorgendo pure qualcosa di nuovo: i sorrisi, la felicità vera, ciò che non avreste pensato di vedere dipinto su questi tre ragazzi vestiti sempre di nero. I See you rappresenta la scoperta del mondo, il primo contatto con questo strano universo a cui apparteniamo. (Recensione)
31. ALT-J – RELAXER
Infectious Music
Relaxer è un disco fatto più di conferme che di delusioni. Conferme sul modo di suonare del trio di Leeds, della loro dedizione a dare una resa visiva, e sinestetica, delle atmosfere, sfruttando strumenti lontani, cori ed elettronica tutti insieme per comporre qualcosa che possa raccogliere, più che allontanare. Seduti uno accanto all’altro in queste poltrone scomode di un cinema di provincia, stiamo assistendo alla riproduzione di una pellicola che non è mai invecchiata, che ha saputo reggere il cambio del tempo e, ora, si è guadagnata una sorta di mitologia. (Recensione)
30. ULVER – THE ASSASSINATION OF JULIUS CAESAR
House Of Mythology
Undicesimo album per la band norvegese, non si smentiscono i suoni oscuri neanche in The Assassination of Julius Caesar. Non vi fermate all’immaginario metal: sin dalla prima traccia gli Ulver ci regalano un piccolo excursus in termini di musica e di storia dell’umanità. Provare per cedere.
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29. THUNDERCAT – DRUNK
Brainfeeder
I giri di collaborazioni di cui è parte integrante, e soprattutto il suo modo di presentarsi e presentare la sua musica a volte ci fanno scordare la principale caratteristica di Thundercat, al secolo Stephen Bruner: è un assoluto virtuoso del suo strumento. A volte la sua capacità di songwriting prevale sulle sue abilità tecniche, così come il fatto che sappia anche cantare in modo meraviglioso ci distrae dal fatto che il manico del suo fidato basso Ibanez a sei corde sia un parco giochi per le sue manone, che può farci praticamente tutto quello che vuole con una facilità disarmante. (Breviario)
28. FUFANU – SPORTS
One Little Indian Records
Ancora Islanda, terra di geyser e sperimentazioni sonore. I Fufanu ci incantano con il loro indie elettronico, o la loro elettronica infarcita di contaminazioni. Sports è un disco che ci rianima persino nel peggiore degli inverni.
27. FUTURE ISLANDS – THE FAR FIELD
4AD
Prodotto da John Congleton e registrato al Sunset Sound di Los Angeles, il neonato disco ha una cifra stilistica talmente marcata da sembrare quasi il lato B di Singles. La direzione intrapresa è chiara fin dalle tracce d’apertura, Aladdin e Time On Her Side che rievocano le sonorità new wave. I volumi crescono gradualmente seguendo i ritmi sincopati del synthpop a cui ci siamo abituati soprattutto negli ultimi anni e l’attenzione continua a rimanere molto alta fino alle ultime tracce del disco. (Recensione)
26. KELLY LEE OWENS – KELLY LEE OWENS
Smalltown Supersound
Scoperta, letteralmente scovata, da Daniel Avery mentre lavorava come commessa in un negozio di dischi, Kelly Lee Owens esordisce con l’omonimo album di debutto, quel tipo di lavoro che rapisce ed imprigiona fin dal primo ascolto. Dieci tracce sapientemente texturizzate, dall’invitante retrogusto lisergico, in grado di fondere insieme techno minimal, dream pop, qualche elemento krautrock e di drone ambient, in un’alchimia capace di sfuggire piacevolmente a facili categorizzazioni. Radiosa. (Breviario)
25. LIAM GALLAGHER – AS YOU WERE
Warner Bros. Records
La pausa di Liam Gallagher è durata tanto, troppo per una Rock ‘n’ Roll Star come lui. Ma nonostante tre anni di stop in cui si pensava seriamente che Gallagher avesse ormai detto addio alla musica, ecco che nell’agosto 2016 iniziano a trapelare alcune sorprendenti indiscrezioni riguardo un suo ipotetico esordio solista nel 2017. Dopo un anno di attesa, As You Were è finalmente uscito e ha praticamente surclassato ogni aspettativa. Che lo vogliate o no la sua musica vi circonderà. (Recensione)
24. MOGWAI – EVERY COUNTRY’S SUN
Temporary Residence Limited
Everybody’s Sun è un disco solido e di contenuti notevoli, a opinione di molti il più complesso e maturo presentato dalla band negli ultimi anni tra LP, soundtracks e varie fin dalla pubblicazione di Hardcore Will Never Die, But You Will, nel 2011. Vi si riconosce la volontà di costruire un discorso intorno a un centro di gravità, di seguire una traccia precisa nell’esplorazione della pluralità di suoni esplorati nel disco, al contempo individuando un superiore livello di eleganza e raffinatezza nel tradizionale repertorio post-rock. (Recensione)
23. JAY Z – 4:44
Roc Nation
Anche se Kendrick Lamar sbaraglia tutte le classifiche dei migliori album, bisogna riconoscere a Jay Z di aver buttato fuori l’album hip hop più “importante” e politico del 2017. A questo proposito vi consigliamo la lettura della corposa intervista al New York Times, in cui Jay Z racconta un’epoca e tutte le sue contraddizioni. Bianchi o neri non ha importanza, la sentiamo tutta addosso – quest’epoca.
22. MOSES SUMNEY – AROMANTICISM
Jagjaguwar
Decostruire il romanticismo e l’amore romantico a colpi di R&B: parole (e musica) di Moses Sumney. È più o meno questo il concept intorno a cui ruota l’album di esordio del cantautore americano, Aromanticism: fare a pezzi il concetto classico di coppia, perché la contemporaneità è troppo complessa per il romanticismo. Il nuovo disco sembra consacrarlo come uno dei cantanti più interessanti del panorama contemporaneo, la voce di Sumney ne esce fuori esaltata, e noi ci perdiamo in uno degli esordi più spettacolari dell’anno. (Breviario)
21. GOODSPEED YOU! BLACK EMPEROR – LUCIFERIAN TOWERS
Constellation Records
Un disco “politicamente impegnato”, o quantomeno schierato, nonostante per tutti gli 8 brani non venga pronunciata una sola parola. Il messaggio, che passa attraverso i consueti suoni dilatati, profondi, con gli archi che lottano furiosamente con fiati dalle suggestioni “western”, è che la distruzione è il primo passo della ricostruzione. Ottimismo, dulcis in fundo. (Breviario)
20. SAMPHA – PROCESS
Young Turks
Process è un album che regala un nuovo interprete di grande livello delle tendenze più moderne e sofisticate del pop, con una carriera a questo punto da seguire con parecchio interesse nel futuro, sperando che si dimostri più audace ancora in alcune scelte stilistiche. (Breviario)
19. CHARLOTTE GAINSBOURG – REST
Because Music
Un disco in qualche modo terapeutico per rimettere insieme i pezzi come nella bellissima copertina dove l’immagine di Charlotte nasce da un insieme di frammenti attaccati con del nastro adesivo. Rest è sicuramente il riposo che Charlotte invoca per tutto ciò che non c’è più, per coloro che l’hanno lasciata, ma alla fine è anche un’invocazione di speranza, a un riposo molto più terreno dopo tanto affanno. Classe. (Recensione)
18. BONOBO – MIGRATION
Ninja Tune
La sofisticatezza del suono di Green raggiunge qui vette ineguagliate dallo stesso Green, che dopo quindici anni di carriera, a questo giro si limita a raccogliere, rivedere, mettere insieme all’apice della sua maturità e grazia. Il suono di Migration sa abbassarsi di tono senza scendere di livello, contaminarsi senza rinunciare all’immediatezza nè alla qualità, senza appiattirsi quando il jazz si apre al drumbeat o dilaga nell’house, né rinunciare a essere groovy quando passa a momenti puramente ambient o suoni aerei che attingono dalla musica orientale o africana. (Recensione)
17. GRIZZLY BEAR – PAINTED RUINS
RCA Records
Painted Ruins è l’ennesimo disco riuscitissimo di una band matura che conosce il proprio stile e i propri punti di forza, e che, senza bisogno di escamotage o colpi di scena, si presenta ancora una volta in piena forma. Come dire, squadra che vince, non si cambia. I Grizzly Bear suonano semplicemente come i Grizzly Bear. (Recensione)
16. ARCA – ARCA
XL Recordings
Non pare forse esagerato suggerire che Arca possa essere considerato uno degli esponenti cardine più vitali e rappresentativi, nel panorama experimental-elettronico degli ultimi anni. Dopo aver prestato la sua mano per la produzione di album simbolo altrui (LP1 di FKA Twigs, Yeezus di Kanye West e Vulnicura di Björk) il lavoro di Ghersi sembra degno di un proprio corso di studi, a parte: il suo stile è immediatamente riconoscibile, inimitabile e fondamentalmente tanto padrone di sé da non risultare debitore di influenza alcuna. (Recensione)
15. BENJAMIN CLEMENTINE – I TELL A FLY
Digital Distribution Trinidad and Tobago
Sempre in gran forma la voce miracolosa di Benjamin Clementine, e non è sorprendente – o forse un po’ – fare i conti con la sua sensibilità artistica esplosiva anche in quest’occasione. C’è qualcosa nella musica di Clementine che la fa sembrare aliena, venuta fuori da un’ulteriore dimensione – ancora sconosciuta. Mixate il tutto con il buon sapore della tradizione che si contamina (meltin pop è la parola giusta), e il risultato sarà I Tell a Fly.
14. CIGARETTES AFTER SEX – S/T
Partisan Records
Cigarettes After Sex è una storia d’amore raccontata in dieci tracce sviluppate in bianco e nero. L’album di debutto dei Cigarettes After Sex arriva dopo nove anni di carriera, un EP uscito nel 2012 e una manciata di tracce lanciate a sorpresa negli ultimi mesi. I Cigarettes After Sex con questa prima prova che sa già di maturità scavano in profondità e al tempo stesso alleggeriscono i pensieri. La rivoluzione è riuscire a estraniarci da noi stessi. (Recensione)
13. PERFUME GENIUS – NO SHAPE
Matador Records
Mike Hadreas si spinge ai suoi estremi, scava in se stesso, nelle sue private ossessioni, e ci consegna questo scrigno – sta a voi aprirlo. Un canto d’amore in 13 dimensioni, rivolto al suo compagno ma anche a tutti noi che siamo all’ascolto come ricettacoli di altri mondi, e allora è bello cadere per un attimo nell’incantesimo di Hadreas. Anche se non siete appassionati dei giocosi chiaroscuri del mondo glam, date le chiavi a Perfume Genius: lui vi guiderà. (Breviario)
12. SLOWDIVE – S/T
Dead Oceans
Slowdive si colloca esattamente dove il percorso si era interrotto, e se da un lato è difficile pensare che due decadi separino questi lavori, dall’altro arriva in un momento più che propizio per diversi fattori, dalla già citata nuova alba che il genere sta vivendo, creando un’attenzione spasmodica per le reunion, ma soprattutto per lo stato di grazia della band, che riesce a sfornare l’esempio perfetto di come tornare in scena dopo una lunga assenza. (Recensione)
11. LORDE – MELODRAMA
Lava / Republic Records
Nella vita abbiamo imparato che esiste il lordo e il netto. Il netto è quel che resta dopo avere effettuato le opportune detrazioni. Il lordo è la parte scenografica. Lorde è magnificamente scenografica, e il suo Melodrama è uno dei dischi più lordi dell’anno.
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10. MOUNT KIMBIE – LOVE WHAT SURVIVES
Warp Records
Il terzo lavoro di Mount Kimbie è troppo spinto per tirar fuori il termine dream-pop, ma allo stesso tempo troppo delicato e malleabile per l’oscurità di una qualche coldwave. Le drum-machine suonano come un batterista motorik autodidatta ma iperattivo, mentre i synth escono dal vecchio recinto Boards of Canada / Four Tet / Caribou per tornare a mischiarsi in una moderna eco campionata di Can / Faust / Cure, pur senza mai scolorire dal tutto il classico marchio Warp. Questo è il suono di una progressione musicale programmata ed estremamente promettente. (Breviario)
9. MOUNT EERIE – A CROW LOOKED AT ME
P.W. Elverum & Sun
Mount Eerie in quaranta dolorosissimi minuti prova a descrivere la sensazione di essere soli in questo deserto quando il nostro faro si sta spegnendo e non si hanno altro che fotografie e il ricordo di quando fuori era estate ma dentro si presagiva già un gelido inverno. È un album domestico registrato senza artifici, usando per la maggior parte gli strumenti appartenuti alla moglie (il suo amplificatore, il suo basso, il suo plettro) in cui il tempo è scandito soltanto da una leggerissima drum machine. Un lungo doloroso addio alla moglie scomparsa. (Recensione)
8. ALGIERS – THE UNDERSIDE OF POWER
Matador Records
Prendete una visione piuttosto incazzata della storia politica degli ultimi 50 anni, in particolare la condizione dei neri, dal movimento delle Black Panthers al contemporaneo Black Lives Matter, fino ad arrivare al ritrovato razzismo di Trump. Shakerate suoni soul che si rifanno agli anni 60 della Motown, punk, dance, basi elettroniche e influenze gospel. Aggiungete la calda voce di Franklin James Fisher. Il risultato è il marchio di fabbrica degli Algiers. Si può ancora fare musica politicamente impegnata oggi, senza rischiare di diventare retorici? Algiers sono la risposta. (Breviario)
7. THE WAR ON DRUGS – A DEEPER UNDERSTANDING
Atlantic Records
Lost in the Dream è l’album che ha portato al successo Adam Granduciel con i suoi The War on Drugs e che ci ha condotto per mano verso un universo parallelo, ai limiti del fantastico, rappresentando la prova dell’inesauribile originalità del rock, mentre A Deeper Understanding è il disco che segna il passaggio più importante per la band di Philadelphia definendo la loro investitura musicale. Ritmi incalzanti e melodici permettono che il rock classico si scontri con la psichedelia elettronica, addolcendo le atmosfere e rendendo queste dieci canzoni delle storie in cui ritrovare se stessi. (Recensione)
6. ST. VINCENT – MASSEDUCTION
Loma Vista Recordings
MASSEDUCTION è un vero e proprio “revival del futuro” così come si immaginava il futuro nei decenni passati, descritto però con il linguaggio tagliente con cui raccontiamo i nostri giorni. La bella e giovane texana non è ancora pronta per una revisione del suo lavoro, ad oggi lungi dall’aver trovato una forma definitiva e, al contrario, in piena fase di sperimentazione. In compenso, sembra che per questo album si sia concentrata a scrivere le migliori canzoni che potesse scrivere, con l’obiettivo di arrivare dritta al cuore delle cose. Il risultato ha l’aria di una romantica nostalgia del futuro, ricca e variegata. (Recensione)
5. FATHER JOHN MISTY – PURE COMEDY
Sub Pop Records
America di Donald Trump, America di Father John Misty, America di Pure Comedy e total entertainment, America di una rivolta in forma di lattina di Pepsi. Pure Comedy è un disco dolorosamente cinico e ironico. I ritratti in forma di canzone di Father John Misty riescono per un poco a urlarci in faccia il mondo in cui siamo finiti. Lui lo fa in maniera esistenzialista: hey uomo bianco d’America che ti prendi così sul serio, ma lo vedi che qui stiamo giocando tutti quanti una partita piuttosto assurda? Tillman ci prende per mano e accompagna in questa pura commedia rock. (Recensione)
4. KENDRICK LAMAR – DAMN.
Top Dawg Entertainment
DAMN. segna un’ulteriore crescita e consapevolezza di Kendrick Lamar, che ha acquisito una tale libertà creativa, e vive un momento così magico, che può permettersi mosse assolutamente “folli”, come lasciare che un’intera traccia sia prodotta dal diciottenne chitarrista dei The Internet Steve Lacy, oppure prendere una superstar mondiale come Rihanna ed invece di farle cantare un ritornello catchy decidere di usarla per i cori e per farle cantare/rappare una breve strofa. O ancora, inserire gli U2 (!) fra l’elenco dei featuring, facendo impazzire il mondo. Semplicemente rapper più importante ed influente del momento – che è riuscito a unire persone da gusti e storie molto lontane tra loro, appassionati di jazz ed hip-hop heads, studenti universitari e ragazzi lavoratori che trovano nel rap il loro sfogo quotidiano. (Recensione)
3. LCD SOUNDSYSTEM – AMERICAN DREAM
DFA Records/Columbia
American Dream è un disco che già dalla dissonanza visiva che si crea tra il cielo azzurro ed i caratteri neri ed austeri dell’artwork, fa presagire i toni in cui Murphy descriverà la sua idea di sogno americano. Dalla band di Murphy tutto ci si poteva attendere meno che una copia conforme a quello che già era stato fatto fino a dieci anni fa. Il tempo trascorso “in silenzio” ha contribuito a raccogliere le idee e, solo quando c’è stato nuovamente qualcosa da dire, gli LCD sono tornati sulle scene, facendolo con un disco diverso dai precedenti, ma che ancora una volta riesce a rendere bene in musica le nevrosi contemporanee. (Recensione)
2. THE NATIONAL – SLEEP WELL BEAST
4AD
È difficile al settimo album tenere viva la fiamma, la curiosità e l’aspettativa del pubblico. “I’m gonna keep you in love with me for a while”, sussurra Matt Berninger in Dark Side of Gym, soffusa ballata dedicata alla moglie Carrie Bessner, editor del New Yorker e co-autrice dei testi di Sleep Well Beast. Possiamo dire che se il nuovo album dei National è venuto fuori anche da un gioco terapeutico di coppia, lo stesso ardore potrà ritrovarlo il pubblico, perché questo disco suona malinconicamente rock (con incursioni di elettronica). Ancora una volta siamo in viaggio dentro le ossessioni di Berninger, nei suoi shitty thoughts, nei suoni dipinti dai fratelli Dessner e dalla batteria – ormai diventata stilema – di Devendorf. Se il rock è ancora vivo – e al riparo dalle scorciatoie contemporanee del pop – lo dobbiamo anche ai National. Uno dei dischi dell’anno. (Recensione)
1. KING KRULE – THE OOZ
True Panther Sounds
Abbiamo voluto premiare il futuro e non celebrare le certezze, per questo quest’anno ha vinto King Krule con il suo The Ooz.
La prova definitiva del suo talento di 23enne. The OOZ fa della stream of consciousness improvvisata una nuova narrativa musicale: nessuna delle sue associazioni (a)melodiche più bizzarre — ci sono momenti che sembrano esistere solo in una terra di nessuno che sta tra un improbabile jazz-rock e uno stupefatto garage-punk tanto sexy quanto 60s — appare forzata. Anzi, mediamente, più il salto è ardito, più dà l’impressione di avvenire spontaneamente, invece che essere diabolicamente pensato a tavolino. Più che un disco è un prisma con innumerevoli facce da utilizzare come buchi della serrature per sbirciare dentro senza sapere in anticipo se il nostro sguardo verrà riflesso, rifratto o risucchiato una volta per tutte da un buco nero: c’è l’inquietudine del trip-hop, la paranoia del dub, quel che resta del tanfo del punk (pur)troppo “post” da doverne riesumare il cadavere, la dolcezza definitiva della soundtrack di una crime-story, l’umidità appiccicosa di un R&B reumatico. (Recensione completa)