Best Album of 2016

E così arriviamo alla resa dei conti con questo 2016. Anche quest’anno abbiamo provato a mettere in ordine dal numero 30 al numero 1 gli album che abbiamo preferito ascoltare. Non sarete tutti d’accordo con quello che ne è venuto fuori (a volte non lo siamo neanche noi), ma troverete sicuramente modo di recuperare qualcosa di bello che avete perduto per strada: un ascolto, un indizio, una traccia, una canzone. Tra straordinari addii e fulminanti scoperte, questa è la nostra top 30 dell’anno. Buon ascolto, è questo lo spirito con cui leggere una classifica di album. 

30. MICHAEL KIWANUKA – LOVE & HATE

Interscope Records

A distanza di quattro anni da Home Again, Michael Kiwanuka torna con questo secondo album a raccontarci come si scende all’inferno attraverso una certa idea di soul music. Riesce egregiamente nell’obiettivo, con una spietata Cold Little Heart d’apertura che evoca vecchi mostri sacri, tra chitarre psichedeliche (di memoria addirittura pink-floydiana) e una voce che fa il verso a Marvin Gaye. Inglese, figlio di rifugiati ugandesi, Kiwanuka esplora con Love & Hate le radici nigger del soul e ce le sbatte prepotentemente in faccia. Un piccolo viaggio al centro dell’anima in cui è contenuta una storia antica e – insieme – un’invocazione: aprirsi alla sfida della musica come esperienza di connessione di mondi e storie. Dal cuore dell’Africa fino alla vecchia Europa inglese, si può fare del soul pop di qualità mescolando radici e immaginari: Love & Hate gioca con questo esperimento.

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29. MODERAT – III

Monkeytown Records

Definire Moderat solo come un supergruppo tra produttori quotatissimi della scena berlinese è quantomai riduttivo. I tre assieme incarnano l’essenza stessa di quello che avviene a Berlino dalla fine degli anni ’90. Il crogiuolo culturale che si è venuto a creare ha permesso agli artisti di crescere, differenziarsi e poi interagire tra loro creando un ponte tra le nicchie ed il resto del mondo. Con III l’atmosfera in casa Moderat si fa più crepuscolare, il cantato di Apparat assume toni quasi elegiaci, i suoni sono meno compressi e più minimal, eppure anche in questa occasione emerge la sfida e l’idea di techno ed elettronica che il gruppo vuole portare avanti, fino alle nostre orecchie. Pur senza sfornare singoloni catchy o da dancefloor, il terzo episodio targato Moderat merita ancora una volta un ascolto attento. Del resto ai Moderat piace sempre essere rivoluzionari.

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28. RADIO DEPT. – RUNNING OUT OF LOVE 

Labrador Records

Il ritorno dei Radio Dept. era atteso, da sei anni non uscivano con un nuovo album e ci si chiedeva che fine avessero fatto. Eccoli qui tornare fulminanti ad accontentare i nostalgici del suono sognante della band svedese, con questo Running Out Of Love che si presenta come un album manifesto del gruppo – sia per il sound che per il tema scelto. Un disco dai toni politici che appare anche una critica al capitalismo moderno, con il ricordo di vecchi canti di resistenza jugoslava (Sloboda Narodu) a fare il contro-verso alla contemporaneità. La storia che vogliono raccontarci i Radio Dept. è la storia di una protesta, perfettamente aggiornata con i suoni di un’elettronica calda da 2016. C’è spazio per una riflessione sull’industria delle armi svedese, ma è musicata a modo loro. Provare per credere.

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27. BLOOD ORANGE – FREETOWN SOUND

Domino Records

In questa classifica non troverete alcuni nomi della scena black come quelli di Kendrick Lamar, Kanye West e Chance the Rapper, ma il Freetown Sound di Devonté Hynes aka Blood Orange non è passato inosservato alle nostre orecchie riuscendo a entrare in classifica. La Freetown evocata dal disco è la città della Sierra Leone dove è nato il padre di Hynes, e per tutto il disco sentirete respirare un’atmosfera da continente africano. Tuttavia, nelle intenzioni di Hynes, la dedica è soprattutto a chi è “not black enough, too black, too queer, not queer the right way“. Una sensazione di dispersione nel mondo contemporaneo, che è anche la testimonianza biografica più viva di chi dall’Africa arriva a Londra e poi si sposta a New York, con tutte le ossessioni addosso del ventunesimo secolo. Un disco ispirato.

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26. MONEY – SUICIDE SONGS

Bella Union

Ho questa crisi di personalità, perché mi vedo più come scrittore che musicista, e la maggior parte dei miei sforzi vanno in questa direzione“, così si è raccontato Jamie Lee in un’intervista. L’argomento quest’anno è all’ordine del giorno, con il recente Nobel a Bob Dylan: i poeti si stanno rifugiando nella musica? Jamie ama Bob Dylan, voleva essere Bob Dylan, voleva dire qualcosa con la musica, e anche con Suicide Songs rincorre questo tentativo di incontro tra poesia e musica. Chitarre, mostri, sogni, visioni, inquietudini e un sound che viene fuori direttamente dalla storica città di Manchester: Suicide Songs dei MONEY scava profondamente nella voglia di lasciare il segno di Jamie Lee, e il talento c’è tutto.

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25. SUUNS – HOLD/STILL

Secretly Canadian

Inutile nascondere che i SUUNS ci piacciono. Dal vivo sono coinvolgenti, sovversivi, forti, ma non perdono queste qualità su disco: dopo la consacrazione arrivata con Images Du Futur, la band canadese continua a sperimentare il proprio suono con questo nuovo album Hold/Still, dirottando ancora una volta le sonorità verso la direzione di una commistione tra rock acido ed elettronica. Ne esce fuori un miscuglio coordinato di kraut, post-punk e oscura elettronica di resistenza per tempi cupi. Non è una sorpresa che la band di Montreal sappia suonare e risvegliare dal letargo il nostro corpo, non è una sorpresa che sappia trascinarci con la forza degli strumenti. A questo appuntamento i SUUNS non ci sorprendono, ma il loro suono sperimenta alcune tra le tracce più moderne che conosciamo.

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24. MOGWAI – ATOMIC 

Rock Action Records

I Mogwai rielaborano la musica registrata per la colonna sonora di Atomic: Living In Dread and Promise, il documentario del regista Mark Cousins sugli albori dell’era atomica, portando alla luce un disco di dieci tracce che racchiudono in sè allo stesso tempo l’incubo del nucleare e la fascinazione onirica che questo ha rappresentato e rappresenta ancora.  La forma è quella di una catabasi, una discesa negli inferi: si apre con i toni epici di Ether, maestoso portale d’ingresso, ma fin da subito appare evidente come fermarsi sulla soglia – moderni Odisseo – non sia una possibilità. Ancora una volta gli scozzesi sono capaci di metterci in viaggio, stavolta lo fanno con Atomic, e con il tipico talento di chi riesce a scrivere sempre e comunque la storia del post-rock.

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23. OKKERVIL RIVER – AWAY

ATO Records 

Il ritorno degli Okkervil River alle stampe ha acceso gli animi di chi voleva ancora sentire cosa avesse da raccontare Will Sheff (voce, chitarra e anima della band) ai disordinati spiriti di questo disgraziato anno. Will Sheff ha ancora molte domande da porsi e altrettante risposte da darsi: lo mette in chiaro fin da subito all’interno del disco, accettando di allontanarsi da suoni più rock e rabbiosi e aprendosi maggiormente alla contemplativa magia del folk. E così, Away non è una bolgia sempre uguale da cui difficilmente trovare l’uscita, ma un luogo dove esplorare con maggiore consapevolezza la solitudine dei propri sentimenti e il distacco dalla comfort zone che ci accompagna da quando abbiamo memoria. È bello come gli Okkervil River ci abbiano presi per mano in quest’autunno.

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22. ANDERSON .PAAK – MALIBU 

Steel Wool Records

Se vi andasse di ripercorrere l’anno in chiave R’n’B questo disco di Anderson .Paak non potrebbe mancare alla collezione: se lo avete mancato, recuperatelo. Uscito lo scorso gennaio, Malibu somiglia a una riflessione ad alta voce di Brandon Anderson Park sulla sua storia personale, le sue radici e la sua biografia, con quel tocco di black che prende a manforte da influenze soul e hip hop, riordinando le tracce di una lunga traversata perfettamente contemporanea. Nato dall’incontro di una famiglia black e coreana, Anderson .Paak non manca l’occasione di disseminare il disco di riferimenti a questa evocativa comunità di cuori spezzati in cui siamo immersi nel duemilaesedici. La magnifica traccia di apertura, The Bird, ne è la testimonianza.

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21. MINOR VICTORIES – MINOR VICTORIES 

PIAS

Con i Minor Victories siamo alle prese con un altro supergruppo, che unisce Rachel Goswell, voce di Slowdive e Mojave 3, Justin Lockey, chitarra e synth negli Editors, Stuart Braithwaite dei Mogwai e il regista James Lockey, fratello di Justin, che cura i teaser e i videoclip. Il punto di incontro diventa quindi quello tra le suggestioni shoegaze e la potenza sonora del post rock, condita da una ritmica squisitamente pop. Un lavoro che piacerà ai nostalgici del dream pop e dello shoegaze come agli amanti delle atmosfere cupe di un certo post-rock, stemperate e addolcite da un cantato impalpabile e celestiale. Un disco che non solo non delude le inevitabili altissime aspettative, ma addirittura le supera.

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20. TYCHO – EPOCH

Ghostly International

Scott Hansen da tempo vive una duplice identità: quella del fotografo e visual artist ISO50 e quella del musicista Tycho. Così le copertine di Hansen lasciano già presagire il gusto minimal electro della sua musica, uno stilema che ormai è piuttosto riconoscibile. Anche in questa occasione, con Epoch, Tycho richiede silenzio, concentrazione e cuffie. I suoni cremosi come il miele delle precedenti raccolte sono stati spazzati via da un tappetto di sintetizzatori analogici che scavano come ruspe tra i resti di un locale notturno raso al suolo. Non ci sono vuoti che non siano riempiti dalla potente accoppiata batteria + basso. Tycho in fondo è riuscito a trovare l’effetto dipendenza esatto in cui colpire.

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19. EXPLOSIONS IN THE SKY – THE WILDERNESS

Temporary Residence Limited

Il post-rock sta vivendo negli ultimi anni una fiorente rinascita, tanto che non dovrà sorprendere se nel 2016 entra prepotentemente in classifica, prima con i Mogwai e ora con gli Explosions in The Sky.  Se la peculiarità del genere è quella di creare suggestivi soundscapes, paesaggi sonori, qui l’obiettivo è ancora una volta centrato in pieno. Gli Explosions in the Sky sono riusciti senz’altro a costruire negli anni un suono ed uno stile altamente riconoscibili, caratterizzati dalle lunghe ed epiche cavalcate sonore, assimilabili più ai cugini irlandesi God is an Astronaut. La novità di questo ultimo lavoro, The Wilderness, sono gli accattivanti tappeti sonori elettronici. Provate a vedere cosa succede.

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18. WILCO – SCHMILCO

Dbpm Records

I Wilco tornano con una copertina d’autore realizzata dall’illustratore spagnolo Joan Cornellà. La vocazione folk è salva, anzi la band di Jeff Tweedy pare quasi eccentuare la propria devozione all’acoustic music nel nuovo lavoro Schmilco. Potrebbe quasi essere definito un primo album della maturità di Tweedy, che, come la voce narrante del film su se stesso, ha sempre una gran voglia di raccontare. Questa volta, però, lo fa con una malinconia più sottile, più celata e quasi rassegnata all’evidente incomprensibilità di cose che fanno parte della vita e che lui ha sempre indagato, ma per cui non serve più arrabbiarsi. Anzi: viva l’ironia, che da buon tratto distintivo della poetica del cantautore compare fra le righe di tutti i brani.

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17. FRANK OCEAN – BLONDE

Boys Don’t Cry

Che ci piaccia o no ci troviamo di fronte ad un mondo intero il cui centro è l’artista, l’ego. Kanye ha fatto scuola. La mia storia, la mia vita, la mia arte, i miei gusti, le mie passioni e ossessioni, la mia sessualità, i fan e gli haters che parlano di me. Questo è il mondo di Frank Ocean. Non ho bisogno di relazioni, Bitch I’m on my own dick, ricompare su Blonde e non solo. È il progresso naturale della parabola di autoaffermazione dell’artista Hip-Hop del 2016. L’album è curato, limato per ottenere il massimo con il minimo. Non è l’arte che viene da dentro e cambia l’esteriorità , è l’esteriorità artistica che dice: “c’è un cuore qua dentro”. La voce di Ocean è al suo apice provvisorio di valore e di varietà. C’è del genio qui dentro.

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16. DIIV – IS THE IS ARE 

Captured Tracks

Dopo l’ottimo lavoro svolto nel 2012 con Oshin, la band newyorkese si è fatta attendere per quattro lunghi anni, segnati dalle vicissitudini del frontman Zachary Cole Smith, arrestato, tra l’altro, per possesso di droga insieme alla fidanzata Sky Ferreira. Un’esperienza, insieme a quella necessaria ed inevitabile della rehab, che segna fortemente i temi di questo Is the is are. Un doppio album composto di 17 brani per una durata complessiva di più di un’ora in cui Zachary si mette totalmente a nudo, scavando dentro di sé e portando alla luce i suoi demoni interiori in nome di una avvenuta, o supposta, catarsi. I DIIV virano decisamente verso un più apparentemente spensierato dream-pop di matrice late 80’s.

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15. IGGY POP – POST POP DEPRESSION

Loma Vista Recordings

La miglior descrizione di Post Pop Depression l’ha data lo stesso Iggy Pop quando ha detto che è “come un anello col teschio, ti ricorda la mortalità” e sin dall’inizio dichiara che ha intenzione di strisciarti sotto la pelle. Iggy non è più quel diamante grezzo che era in gioventù; nelle increspature della voce, oramai profondissima, si sentono tutti i lavori di intaglio che negli anni ha subito (Bowie in primis). La chitarra, riconoscibilissima, di Homme riesce ad evidenziarne tutte le sfaccettature, volta per volta aiutato dal basso pulsante di Dean Fertita e dalla batteria di Matt Helders. L’alchimia dei tre musicisti sposta il suono del disco ora verso lo stoner, ora verso l’indie rock degli anni ’00, senza mai dimenticare un certo suono da Desert sessions post litteram.

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14. SAVAGES – ADORE LIFE

Matador Records

Che carica queste donne votate al rock! Dopo un esordio che aveva subito colpito, le Savages con questo Adore Life tornarno con la solita grinta. Non passano inosservate. Con una front-woman eccezionalmente carica, che nella forma live esce fuori esaltata, la rabbia che esplode fuori da questo disco viene consegnata con forza alle nostre orecchie. Abbiamo nostalgia di certi suoni, carichi, forti, secchi, decisi. Con le Savages li ritroviamo, e questo è un piccolo miracolo che ci toglie ansia nelle giornate grige. A volte quando le guardi sembrano studiate perfettamente per piacere – anche nel look. Ma c’è qualcosa di primordiale e originale che è complice della nostra fascinazione: le ragazze sono anche bravissime.

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13. PARQUET COURTS – HUMAN PERFORMANCE 

Rough Trade

Tornano le chitarre. Tornano i suoni acidi e sporchi. Torna la polvere. Negli ultimi anni a certi suoni ci stiamo lentamente riabituando per via di alcune band di ritorno: a cominciare dai Metz, e virando verso gli Ought o gli ex-Viet Cong, sembra esser tornata furente l’esigenza di suonare sporchi. I Parquet Courts hanno la vocazione più intellettuale del gruppo di band: hanno fatto loro una certa lezione sonica, accompagnata dai meravigliosi testi di Andrew Savage, e provano la strada di una vera contestazione al sistema (non hanno profili sui social network per esempio). Human Performance continua il discorso di questa contestazione sporca, e ci regala una piccola perla sonica per questa stagione.

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12. CAR SEAT HEADREST – TEENS OF DENIAL 

Matador Records

Car Seat Headrest è un progetto del singer-songwriter Will Toledo. Teens of Denial è una delle rivelazioni degli ultimi anni nell’indie rock e lancia un artista che può diventare un riferimento nel genere. Pezzi che Vincent, che evolvono tra chitarre distorte e racconti dei disagi della sua vita e della depressione, sono un vero portento. Gli 11 minuti e mezzo di The Ballad of the Costa Concordia sono imperdibili. Will Toledo si fa aiutare da un pianoforte nei primi 3 minuti prima che il brano si trasformi gradualmente in un vero e proprio viaggio di musica e di testi decisamente riflessivi tra rabbia, depressione e fine di un rapporto. Decisamente una delle più belle sorprese dell’anno.

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11. ANGEL OLSEN – MY WOMAN

Jagjaguwar Records

La strada compiuta a oggi da questa ragazza del Missouri si è allungata in misura inversamente proporzionale alla sua frangetta, specialmente a partire dal momento in cui Born Your Fire for No Witness ha fatto irruzione nei negozi di dischi imponendosi come uno dei più bei dischi di folk-rock cantati in voce femminile del 2014. My Woman è la conferma che ci troviamo a tu per tu con un talento. In un mercato musicale in cui si punta tutto su pochi minuti di ascolto, Angel Olsen mostra classe e carattere dietro la scelta di ridurre il ventaglio di sonorità dei primi brani del nuovo lavoro per costruire un suono omogeneo e compatto che suona rock nella sua percezione più tradizionale e che rievoca il repertorio ormai consolidato a cui ci ha abituati.

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10. DAUGHTER – NOT TO DISAPPEAR 

Glassnote Records

Se dietro ai testi di If You Leave si può leggere ancora l’eredità di un’innocenza adolescenziale non troppo lontana, l’incapacità di trovare uno spazio personale in cui affondare radici e la conseguente paura del futuro, Not To Disappear è un disco consapevole delle difficoltà dell’età adulta, filtrato da una serie di considerazioni di natura filosofica sulla vita e la morte e da dibattiti morali irrisolti o meglio interrotti da nuove immagini acustiche che si aprono traccia dopo traccia. Tra le parole bisbigliate da Elena Tonra ritroviamo ancora un mondo fragile, in cui perdersi, ma anche nuove sperimentazioni post-rock e shoegaze che arricchiscono il repertorio dei Daughter.

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9. JAMES BLAKE – THE COLOUR IN ANYTHING

Polydor Records 

The Colour of Anything ci restituisce sì gli ambienti sonori dei due album precedenti, ma ripuliti, più intimi, capaci, questa volta, di parlare direttamente alla nostra anima pur attraverso gli artifici a cui l’artista ci ha costantemente abituati. Ci restituisce un James Blake capace finalmente di abbandonarsi alla struggente, malinconica bellezza di una canzone solo piano e voce. Un Blake che ha già trovato una dimensione ideale, ed un suono e uno stile fortemente riconoscibili. Un ritorno gradito, attesissimo e inaspettato, che ci rivela un Blake musicalmente maturo e fermamente conscio dei sui mezzi, a cominciare dalle mille sfaccettature della sua incredibile voce.

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8. ANOHNI – HOPELESSNESS

Secretly Canadian

Nuova identità tutta al femminile per Anthony Hegarty aka ANOHNI. Ma soprattutto nuova musica, cambiamento che però non giunge inaspettato. La marcata impronta elettronica del nuovo lavoro da solista è difatti piuttosto netta e ad una prima impressione può apparire come una brusca virata rispetto al chamber-pop targato Anthony and the Johnsons. Tuttavia quella voce ultraterrena, la stessa in grado di incantare in passato la scena newyorkese ed artisti del calibro di Lou Reed, è ancora adesso il filo rosso che non rinnega il passato, ma anzi lo esalta dando fluidità spontanea ad una creazione che si è semplicemente spostata di piano, accedendo ad un livello superiore. Hopelessness è una raccolta di undici inni densi di significati e grondanti denuncia.

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7. RADIOHEAD – A MOON SHAPED POOL

Xl Recordings 

A Moon Shaped Pool è un disco che sembra il racconto di un’apocalisse placida, in cui l’ansia tipica del suono dei Radiohead sembra sciogliersi in un calore molto più umano, basta ascoltare il tenero avanzare della bossa nova di Present Tense così come le liriche di Yorke che attraversano il disco con riferimenti costanti alle relazioni umane, all’amore, al tentativo di trovare una strada dentro questo mondo. Un disco che sembra essere nato non da un’urgenza ma da una contemplazione e cui è necessario lasciarsi andare per gustarlo appieno. Che racconta un intero mondo che passa per l’elettronica, la melodia e il tribalismo, il rock e il minimalismo. Ancora una volta dobbiamo dare merito a Yorke e compagnia.

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6. LEONARD COHEN – YOU WANT IT DARKER

Columbia Records

L’addio malinconico al mondo del grande cantautore è anche un meraviglioso album. Leonard Cohen ci aveva preparato al commiato, aveva disseminato indizi non difficili da decifrare, non solo con l’intervista al New Yorker a cui aveva confidato “I am ready to die. I hope it’s not too uncomfortable“, ma anche con quest’ultimo tragico album dal retrogusto di un testamento artistico e umano. “Hineni, hineni, I’m ready my Lord”, così sussurrava rauco nella traccia di apertura di You Want It Darker. Ancora una volta Leonard Cohen riesce nell’impresa titanica di toccare i nostri corpi con la mente e la musica: lo ha fatto a 80 anni, poco prima di lasciarci, come esuli orfani di un cantautore straordinario. Qui lo riascoltiamo ancora.

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5. BON IVER – 22, A MILLION

Jagjaguwar

Bon Iver è uno dei maggiori compositori viventi in grado di creare la perfetta soundtrack dei nostri tempi. Ci unisce, dall’Europa agli States, dentro i centri commerciali o nello stereo dell’auto, lo troviamo nei bar, mentre sorseggiamo un aperitivo, e poi a casa, in una vecchia ballata folk che ci fa addormentare, miseramente umani. Come nei lavori precedenti, anche in 22, A Million la voce di Bon Iver è uno extra-ordinario strumento a se stante, una capacità strumentale della voce che è il cuore del segreto penetrante della musica di Vernon. Pura magia di incastri di sound, in cui passato e presente si mescolano, acustica ed elettronica si sposano. Bon Iver non somiglia a nessuno nel panorama contemporaneo, per questo è uno dei musicisti più influenti di quest’epoca.

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4. PJ HARVEY – THE HOPE SIX DEMOLITION PROJECT

Vagrant Records 

Ancora una volta Pj Harvey è capace di affascinarci e narrarci una storia in forma di musica. Chi siano questi bambini che alla fine dell’album implorano un dollaro (Dollar, Dollar) lo sappiamo, magari anche grazie a Pj ce ne accorgeremo di più prossimamente. I quartieri urbani, le periferie dimenticate, le storie derelitte e abbandonate, le guerre e le ricostruzioni, i volti sfatti: il mondo è spezzato, ma l’arte può ridarci speranza. Demolition Project non resterà nella memoria solo come una meravigliosa esperienza musicale, ma anche come una testimonianza artistica e poetica di una delle artiste più complesse e visionarie dei nostri tempi. La accompagna un team di musicisti incredibili, capeggiato dall’ormai fidato co-arrangiatore John Parish.

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3. NICOLAS JAAR – SIRENS

Other People

Il viaggio di questo giovane cosmonauta della dancefloor – all’esordio di Space Is Only Noise, in cui ha mescolato dance e psichedelia con drum-beat in controtempo, Jaar aveva solo 21 anni – a ogni nuova uscita aggiunge un passo ulteriore verso la totale decostruzione dell’elettronica, alla ricerca di nuove modalità di riempire il silenzio senza mortificarne la discrezione. Sirens di Nicolas Jaar ha tutte le qualità per entrare nelle top 3 di questo 2016. Omologia e differenza sono le chiavi per decifrare e descrivere un lavoro che sfonda anche i limiti dietro cui la sperimentazione precedente pareva fermarsi, soprattutto quelli relativi a cosa aspettarsi da un disco che ambisce a riscrivere l’elettronica dance. Qui a L’indiependente siamo grandi fan del genio di Jaar.

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2. NICK CAVE & THE BAD SEEDS – SKELETON TREE

Bad Seeds Ltd.

Al sedicesimo disco in carriera con i Bad Seeds, Nick Cave riesce ancora una volta a mantenere altissimo l’equilibrio tra il cambiamento e una cifra stilistica riconoscibile tra mille. Rinunciando del tutto ai toni alti, ai parossismi della prima parte di carriera, Cave con Skeleton Tree si pone nella scia del precedente Push The Sky Away rendendo le atmosfere ancora più rarefatte (e più elettroniche). Evoluzioni in costante mutamento che altri dischi in passato, da The Good Son a Nocturama, hanno mostrato essere mai direzioni definitive quanto piuttosto possibili accenni di percorso, curve nella memoria e nel presente. Un album profondamente pervaso dal dolore per la perdita del figlio, ma liberatorio per un grande e unico artista.

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1. DAVID BOWIE – BLACKSTAR 

Columbia Records

8 gennaio 2016. David Robert Jones compie sessantanove anni. ★(Blackstar) il suo 27emo album in studio esce a distanza esatta di tre anni dal precedente The Next Day. Cos’è questo strano oggetto che abbiamo tra le mani, cos’è questa stella nera su sfondo bianco? Lo capiremo qualche giorno dopo, decifreremo il messaggio nel giro di qualche giornata di ascolto. David Bowie ci saluta così, magnificamente, con un’uscita di scena spettacolare. Non potevamo che onorare questo grande artista, che ha fatto uscir fuori un album maledettamente bello come commiato. Ciao David, ci mancherai. Ricordiamo ancora quella mattina in cui abbiamo avuto tutti i brividi sulla pelle.

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