Nel 1998 un ragazzo poco più che ventenne originario del New Hampshire abbandona il proprio sogno di diventare regista e fonda gli Okkervil River insieme al bassista Zach Thomas e al batterista Seth Warren. Dopo diciotto anni, tra i componenti della formazione iniziale, troviamo soltanto Will Sheff, voce, chitarra e anima della band, un giovane che si affacciava alla carriera musicale probabilmente spinto più dal caso e dall’ammirazione nutrita per il nonno T. Holmes Moore, trombettista con la passione per lo swing che ora, però, non c’è più.
La perdita di un punto di riferimento così importante è il motore che ha innescato il leader degli Okkervil River a portare alle stampe Away, il nuovo album uscito il 9 settembre a distanza di tre anni dalla precedente creazione. Se in The Silver Gymnasium sembrava che da un momento all’altro dovesse scoppiare una bomba pronta a ferire la sensibilità degli ascoltatori, qui la catastrofe si è già abbattuta e sta gradualmente per riassorbirsi tra le trame quasi invisibili della realtà quotidiana.
Siamo lontani dalle lacrime dei primi amori adolescenziali che hanno incendiato le nostre guance sulle note di For Real ripetute per intere serate tra le quattro mura di camere troppo strette o in cuffia durante gli incalcolabili giri notturni in bicicletta senza una meta. Away non è una bolgia sempre uguale da cui difficilmente trovare l’uscita, ma un luogo dove esplorare con maggiore consapevolezza la solitudine dei propri sentimenti e il distacco dalla comfort zone che ci accompagna da quando abbiamo memoria.
Questo viaggio ha inizio con Okkervil River R.I.P., una canzone dal titolo talmente incisivo che parrebbe svelare il vero intento della raccolta – il commiato dalle scene della formazione che dai suoi esordi ha preso base ad Austin – ma che in verità rappresenta il percorso a ritroso di un gruppo che si è ritrovato orfano di se stesso per dare voce a un songwriter potente ed espressivo. Will Sheff ha ancora molte domande da porsi e altrettante risposte da darsi: lo mette in chiaro fin da subito all’interno del disco, accettando di allontanarsi da suoni più rock e rabbiosi e aprendosi maggiormente alla contemplativa magia del folk.
Questa svolta può essere testimoniata da tracce come Call Yourself Renee, splendidamente orchestrata e impreziosita dai cori della cantautrice Marissa Nadler, o ancora dalle tiepide ballate per le mezze stagioni She Would Look For Me e Mary On A Wave. Diverse le vibrazioni di The Industry, decisamente meno cupe e spensierate, così come il limpido crescendo di Judey On A Street. Tra tutti i brani brilla poi per intensità Comes Indiana Through the Smoke, una delle prove più difficili per Will Sheff che dedica questa canzone al nonno, immaginando per un attimo di riportarlo alla vita nel fiore degli anni. Impossibile non ascoltare questa traccia delicata e feroce allo stesso tempo senza sentirsi come dopo aver ricevuto un pugno in pieno stomaco.
Un altro momento saliente della narrazione di questo giovane poeta americano è Frontman In Heaven che rappresenta una sorta di lieto fine che sembra non arrivare mai durante il corso dell’album. Eppure la verità è che noi, insieme a Will Sheff, non ci sentiamo assolutamente arrivati da nessuna parte e ancor meno conquistatori del mondo. Abbiamo raggiunto traguardi e siamo usciti dalle nostre camerette, ma ci manca terribilmente l’ingenuità radiosa di Don’t Fall in Love with Everyone You See e i disastri di Black Sheep Boy. Probabilmente siamo stati creati come le onde del mare che si sentono all’inizio di Days Spent Floating e con quasi assoluta certezza non ci accontenteremo mai di nulla, a parte di quest’album, che è tra i ritorni più sorprendenti dell’autunno.