E forse è pure l’ultimo. Perché in queste tredici nuove tracce Contessa fa i conti con se stesso e con la morte. Ce lo aspettavamo? No. Ne avevamo bisogno? Sì. Ne vogliamo ancora? Non lo so.
È tornato, come Trump. Era il 2016. Cattelan spoilerava l’uscita dell’album su Twitter, mentre invece il primo singolo, Baby Soldato, veniva anticipato in anteprima su Radio 2 e Aurora usciva con date già sold out. Tanto per dire l’hype ed il sistema dei media di quel mondo di allora, così tanto diverso dal nostro, e quanto l’indie fosse già pop. L’ultima traccia di quell’album si chiamava Sparire e l’ultimo verso di quest’ultima canzone diceva appunto: «Perché pure a sparire ci si deve abituare».
Stop. E quello sparisce per davvero. Sembra un plot intenzionale scritto da un autore, Niccolò Contessa, con un’evidente tendenza ad overproblematizzare la gestione della propria presenza. Dall’anonimato del primo album, ai sacchetti in testa nelle prime esibizioni live, fino ai nove anni di silenzio, che da meme dell’internet rischiavano di diventare la sua performance più significativa.
E poi, in sordina e a sorpresa, Contessa riappare nel 2025 con Post Mortem, un album dal titolo così ottimista che ti fa venire voglia di aggiornare il curriculum su LinkedIn. I messaggi impazzano nelle chat della nostra bolla. E noi tutti accorriamo a riaggiornarci.
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Confesso che non sapevo cosa aspettarmi e come approcciarmi all’ascolto. Così come confesso che Niccolò è un personaggio che mi ha sempre affascinato. Più lui, come figura catalizzatrice e caprio espiatorio di tante cose, che la sua musica. Appassionato di videogames, all’università fa matematica, un nerd che ama “capire bene come funzionano le cose” che si ritrova, vuoi o non vuoi, a fare musica e a scendere a compromessi con il fatto di esser diventato, ad un certo punto suo malgrado, il fenomeno più dirompente dell’underground italiano, semplicemente postando brani “punk suonati col computer” su YouTube, con i riffetti catchy di synth, composti come chitarre, e foto di cagnolini.
Niccolò aveva attirato la mia attenzione, senz’altro per il tone of voice ed i testi con i quali si proponeva come sarcastico entomologo dell’hipsteria post universitaria, gonfia di velleità, pronta alla macelleria sociale e alla resa alla partita iva. Cantava il mondo che ci circondava con una cifra congeniale e virale, che indusse più di qualcuno a sospettare che dietro ci fosse chissà quale progetto (di Max Pezzali) o chissà quale altra subdola industry plant a coltivazione idroponica.
E invece no, dietro a i Cani c’era solo Niccolò, dentro la sua cameretta. Un tizio con la sindrome dell’impostore, con le sue ansie relazionali e le mani nelle tasche, che forse pensava di averla sparata grossa. Un problema in più da gestire con altri 2 album, Glamour (2013) e Aurora (2016), che restituirono un Contessa più cantautore, più completo, più complesso, anche se mai risolto.
E quindi si attendono nove anni per arrivare a questo Post mortem, che è un disco che non ti piace al primo ascolto, proprio perché non cerca di piacerti. In alcuni momenti può far ricordare i fasti dei precedenti, ma più svuotati, più adulti, più consapevolmente disillusi. È un disco che non cerca di piacerti perché ti guarda, ti analizza, ti giudica in silenzio, poi ti lascia lì, a fissare il soffitto mentre ti chiedi se sei mai stato davvero felice. Non è una bella sensazione, ma è proprio questa attitudine la cosa che più mi piace di questo album, al di là dei suoi output.
Infatti di Post mortem apprezzo l’onestà, l’autenticità, l’attitudine super dry, più che la sua musica. Niente featuring, niente tour annunciati, nessuna foto promozionale con lo sguardo da intellettuale post-romano disadattato. Solo 13 tracce secche, spoglie, sincere, con più domande che risposte.
I suoni si fanno più sporchi, più lo-fi, meno rotondi rispetto ad Aurora. È un processo per sottrazione, che si apre con un brano intitolato semplicemente Io, a metà tra un’autonalisi e un’autopsia emotiva. Un brano che dà forse la chiave interpretativa dell’album, che ci dice che queste nuove tracce nascono con poco, ovvero mettendoci solo se stesso. Forse per questo è l’album più cupo dei Cani, ma anche quello più onesto, dove finalmente l’autore smette di cercare il modo migliore per dire le cose e inizia solo a dirle.
Attinge un po’ da Battiato in Felice, fa il Lindo Ferretti 2025 in Nella parte del mondo in cui sono nato. Altre volte ammicca a sonorità alla Depeche Mode prima maniera e in una traccia totalmente strumentale, che dà il titolo all’album, sembra suggerire la colonna sonora del proprio funerale, optando per atmosfere alla Vangelis che ricordano i panorami della Los Angeles di Blade Runner.
È un album più fosco dei precedenti, un bilancio postumo realizzato con sommessa eleganza e con quella disillusione che non si veste da tragedia, che non cerca commiserazione, che non rivendica nulla, né un ruolo, né un’eredità rispetto a tutto quello che è accaduto dopo di lui e anche grazie a lui.
Un Giovanni Battista DIY dell’indiep pop italiano (che diede spazio a molti altri cosplayer dell’indie che iniziarono a dominare le classifiche con tormentoni estivi, a calcare palchi generalisti, a produrre cose con un livello di produzione, di marketing e di accessibilità che li portarono a Sanremo, a comporre jingle per spot televisivi, a fare sold out passando da Rock.it a X-Factor e a Verissimo senza nemmeno cambiare outfit), un profeta che non si distanzia, che non rinnega, che non sferra proclami, o anatemi, che si fa da parte, ma che continua a cantare dalla sua cameretta quello che non è più un compiaciuto cinismo sulle velleità della sua generazione, ma uno smarrimento più crudo e maturo e che inizia a riflettere sulla morte.
L’album ha un’atmosfera un po’ funerea, sembra volerci ricordare che siamo tutti di passaggio, quasi un epitaffio musicale, un requiem perfetto per sogni infranti e amori che non si possono più monetizzare. Del resto è lontana l’età d’oro dell’indolenza hipster e ora possiamo dire che, dopo due crisi economiche, una pandemia globale, una guerra in Europa e, più in generale, un mondo piombato nel caos, noi mancati orfani di Contessa eravamo felici anche se non lo sapevamo. Ci concedevamo il lusso di un’ironia autoindulgente, così tipica del narcisismo millennial e così disprezzata dai Gen Z, che hanno provato ad affossare con il woke. Peraltro morto pure quello, a testimonianza di quanto il tempo si muova velocemente, senza risparmiare nessuno.
E quindi è impossibile, e forse inutile, tentare una fotografia generazionale. Né sembra essere una buona idea sfornare del comfort food per i nostalgici degli anni ‘10. Proprio perché è la cameretta stessa di Niccolò a non essere più una comfort zone dove nascondersi, ma un luogo intimo e in bianco e nero, dove compiere selfie a cuore aperto, senza anestesia, per “guardarsi dentro” e scoprire che “guardarsi dentro” può essere un horror più spaventoso della fiera delle vanità che nel frattempo si è trasformato il mondo di fuori.
Per questo Contessa si riconferma una voce da ascoltare, per scoprire cosa siamo diventati. Anche se non cerca di stupirci, anche se nel frattempo ci siamo abituati ad altro, ad altri ecosistemi sonori, ad altre abitudini di consumo, lontani da “Pasolini e Jay-Z”.
E così Post Mortem arriva all’improvviso, come la morte. E ci lascia con più domande che risposte. Forse è giusto così. Forse è proprio quello che ci serviva. Ce lo aspettavamo? No. Ne avevamo bisogno? Sì. Ne vogliamo ancora? Non lo so, o almeno non ne siamo veramente sicuri. Perché fare i conti con la fine delle cose, non sempre ci rende felici.