Non sono un frequentatore di festival cinematografici, ma da appassionato di cinema asiatico ho sempre desiderato visitare il Far East Film Festival, che si tiene a Udine ormai da ventisette stagioni. Per una serie di circostanze fortunate, sono finalmente riuscito a seguire l’edizione che ha appena chiuso le porte, che si è svolta dal 24 aprile al 2 maggio. Si tratta del festival che ormai da anni si è imposto come la più ricca rassegna di cinema dell’Asia orientale in Europa: per nove giorni, senza interruzioni, il Teatro Nuovo, sede principale delle proiezioni e degli eventi, e il Cinema Visionario hanno proiettato 77 titoli, includendo i film in concorso per il prestigioso Gelso d’Oro, tra cui si contano 8 anteprime mondiali, 16 internazionali, 20 europee e 19 italiane.

Consiglio a ogni appassionato di cinema asiatico di regalarsi questa esperienza almeno una volta ogni tanto, innanzitutto per confrontarsi con il problema dell’abbondanza, dopo anni di inseguimenti di titoli introvabili, che raramente raggiungono le sale, e che nella migliore delle ipotesi bisogna vedere con adattamenti e doppiaggi italiani improponibili, nel brevissimo periodo in cui appaiono prima di sparire e poi magari ricomparire sui canali satellitari a orari assurdi nella notte. Sebbene, bisogna dirlo, la situazione sia molto migliorata con la diffusione delle piattaforme digitali e con l’accesso mediante VPN a quelle straniere, ambiente purtroppo riservato solo a chi ha un po’ di praticità con i sottotitoli in inglese o in altre lingue: a questo proposito, molti avranno apprezzato la bella iniziativa di Mymovies, che ha messo a disposizione di chi non poteva andare fino a Udine a godersi le proiezioni su schermo gigante, in lingua originale e con sottotitoli bilingue, una selezione di 23 titoli accessibili purtroppo solo durante i giorni della rassegna, e che ci avrebbe fatto piacere magari poter avere a disposizione per recuperare i tantissimi titoli sfuggiti anche a chi ha la rassegna l’ha frequentata.
Infatti, ragionare solo in termini di film sarebbe davvero limitato, quando si descrive questa kermesse così unica. Chi pure provasse a restare in sala dalla mattina alla sera, perderebbe i titoli proiettati contemporaneamente nell’altra, e nella migliore delle ipotesi ne vedrebbe la metà: perciò, con in mano il pass per l’intera rassegna, che ha un costo decisamente contenuto rispetto alle cifre di altre rassegne, bisogna pianificare accuratamente le visioni che si vuole attendere. In questo modo, tuttavia, ci si perdonoo i talks e gli incontri con le troupe e i cast dei film presentati, che si svolgono contemporaneamente alle proiezioni: i nomi degli ospiti coinvolti sono decisamente importanti, e certo capiterà di rado ai non addetti ai lavori di poter vedere l’iconica Sylvia Chang sfilarti davanti per raggiungere il suo posto a sedere in sala, scambiare una battuta con Masaya Nakagawa, attore-feticcio di Koreeda Hirokazu, o fermarti per complimentarsi con il cast di un film che hai appena finito di vedere.
L’ambiente è così rilassato che spesso capita di fermarsi a fare una chiacchiera con un attore o un addetto ai lavori, che poi possiamo incontrare di nuovo mentre beve un aperitivo in serata, o spostandosi tra gli eventi a margine delle proiezioni, organizzati dalle associazioni culturali locali, dalle librerie, dai musei, ma anche indugiare nella pausa pranzo per provare i menu speciali che i numerosi ristoranti giapponesi o cinesi hanno preparato per l’occasione. Per nove giorni la bella e rilassata città friulana si trasforma in un microcosmo autonomo: le sue strade e le sue piazze si vestono di colori, lingue, musiche e immagini dei diversi paesi dell’Asia orientale e sudorientale, un contesto multiculturale che sembra annullare ogni distanza geografica tra i continenti.

Tornando alla rassegna, undici sono stati quest’anno i paesi coinvolti: Giappone e Corea del Sud come al solito hanno fatto la parte del leone, conservando la fama delle cinematografie più popolari, rispettivamente con 11 e 8 titoli, ma la sorpresa del festival è stata indubbiamente la Cina, che presentandosi con ben 10 pellicole, si è portata a casa il Gelso d’oro, assegnato al sorprendente Her Story di Shao Yihui che ha sbancato i botteghini della Repubblica Popolare a ridosso delle feste natalizie, un film di cui si sentirà di sicuro parlare, nonché il terzo premio, il Gelso di Cristallo, con Like a Rolling Stone di Yin Lichuan. Forte la presenza anche di Hong Kong, con 7 pellicole, tra cui quello che si guadagna il secondo premio della rassegna, The Last Dance di Chan Anselm, che si affianca alla consegna del Gelso d’Oro alla carriera al celebre regista Tsui Hark, e Taiwan, che si fa rappresentare da 5 film di grande spessore, ma soprattutto dalla presenza di una delle più grandi dive del cinema cinese, Sylvia Chang, insignita del Gelso d’oro alla carriera come migliore attrice. Se in Daughter’s Daughter Chang ci mostra la statura dell’attrice di oggi, il recupero del classico Shangai Blues ci ricorda la sua grandezza nel passato, proprio con Tsui dietro la macchina da presa. Interessanti sorprese anche dalle cinematografie considerate minori, ma solo per numeri e produzione: presenti con due film a testa Filippine e Tailandia, con uno Indonesia, Malaysia, Mongolia e Vietnam. A conferma di ciò, è filippino il film che vince il premio per l’opera prima, Diamonds in the Sand di Janus Victoria, in realtà una coproduzione che include anche Giappone e Malesia, mentre il film d’animazione The Square del coreano Kim Bo-sol, che ha chiuso la rassegna, prende una menzione speciale nella stessa categoria; il Gelso viola invece va in Mongolia, a Silent City Driver di Janchivdorj Sengendorj; il Gelso per la miglior sceneggiatura va al giapponese Welcome to the Village di Jojo Hideo, presente anche con un’altra pellicola, A Bad Summer.

Ma la menzione dei titoli di cui sopra restituisce poco della ricchezza dei temi presentati sullo schermo e della freschezza di una cinematografia che sembra decisamente più in salute rispetto agli asfittici scenari europei e americani, prigionieri di cliché stantii e sceneggiature dettate dall’algoritmo piuttosto che dalla scintilla della creatività: nell’itinerario che ho disegnato per fare ordine nel ricco menu, ho comunque avuto modo di apprezzare storie di coming-of-age e di disuguaglianza sociale, di corruzione e criminalità, di amore e tradimento, di spaesamento e desiderio di fuga. In questa edizione, mi è sembrato prevalessero i temi di alienazione e solitudine, segno anche del fatto che i paesi asiatici hanno vissuto la pandemia in modo più intenso e che tuttora continuano a farci i conti. Mi piacerebbe riportare in questo articolo almeno una brevissima descrizione di dieci titoli scelti tra i film che sono riuscito a vedere e tra quelli che invece avrei voluto, senza riuscire, raccolti per paese di provenienza. Parto dalla MALAYSIA, che ha sorpreso il pubblico dell’edizione 2023 del FEFF portando a casa il Gelso d’Oro con il bellissimo Abang Adik di Jin Ong e Ong Lay-Jin, che vi consiglio di recuperare se non l’avete ancora visto. In questo caso, si tratta di un film molto diverso nei toni e nei temi, Next Stop, Somewhere di James LEE e Jeremiah FOO, che intreccia quattro storie di solitudine e liberazione spostandosi tra Malaysia, Taiwan e Vietnam: per la delicatezza della scrittura e la solidità dello script, oltre che per la sensibilità anche visiva dei registi, direi che a questo film va il mio personale Gelso.
A seguire, seconda fermata GIAPPONE, di cui ho amato tutte e tre le pellicole che ho visto, soprattutto le due semi-commedie adolescenziali See You Tomorrow di MICHIMOTO Saki e She Taught Me Serendipity di OHKU Akiko, due storie di coming-of-age e disadattamento animate da personaggi indimenticabili nella loro aspirazione a presentarsi come persone normali e rimanere in sospeso, la prima definita da improvvise impennate di tragico, la seconda invece che privilegia i toni pacati attraverso lunghissimi piani sequenza puramente descrittivi che a tratti fanno tornare in mente Antonioni. Il terzo, A Bad Summer di JOJO Hideo, è invece una commedia scura che ci racconta la caldissima estate di alcuni assistenti sociali alle prese con i complotti di un giro di loro assistiti. Passiamo quindi a due dei film premiati, spostandoci nelle FILIPPINE ma senza allontanarci troppo dal Giappone, visto che Diamonds in the Sand di Janus VICTORIA descrive la storia di un giapponese, ma dal coming-of-age passiamo alla love story di due personaggi decisamente più maturi, quella del protagonista, interpretato dal mitico Masaya Nakagawa, che angosciato dalla vita a Tokyo, alla morte della madre decide di seguire la sua badante a Manila, confrontandosi con uno stile di vita estremamente diverso ma certo non esente da problematicità e drammi: il film si apre e si chiude con un funerale, anche quello simbolico degli approcci radicalmente diversi dei due paesi alla vita, come alla morte. L’altra bella sorpresa viene dalla MONGOLIA, Silent City Driver di Janchivdorj SENGEDORJ, un densissimo noir metropolitano di notevole perizia visiva. Menzione speciale per TAIWAN, che si distingue con due film che raccontano intensissime storie di legami femminili e in particolare mettono a fuoco il legame madre figlia. Il primo, Daughter’s Daughter di HUANG Xi, ci mostra la discendenza femminile di tre generazioni intrecciando il tema della demenza senile con quello di una morte troppo giovane attraverso una riflessione su omosessualità e genitorialità partendo dalla prospettiva della madre. The Uniform di CHUANG Ching-shen, invece, torna al coming-of-age mettendo in scena le disparità di ambizione riservate alle diverse classi sociali, rappresentata dal minuscolo ricamo che distingue due uniformi pressoché identiche, quella dell’elite che frequenta i corsi diurni del più rinomato liceo femminile di Taipei e quella di chi invece è iscritto ai corsi serali. La struttura intergenerazionale dei due film costruisce tra le pellicole un dialogo a distanza tra l’impeccabile Sylvia Chang che giganteggia come madre nel primo film e l’irrequieta adolescente deliziosamente pennellata dalla giovane Buffy Chang nel secondo, un bellissimo passaggio di consegne che attraverso due donne taiwanesi ci mostra ce il presente e il futuro del cinema asiatico è fatto di bei film che forse non diventeranno classici del cinema ma ci dimostrano lo stato di salute di una cinematografia vitale. Lo stesso film che ci porta all’ultima fermata, quella della CINA, Her Story, quello che ahimè non sono riuscito a vedere, sviluppa una tematica analoga: presentato come una semplice commedia convince pubblico e critica presentandoci una nuova generazione di femminismo cinese capace di portare la riflessione su ruoli e generi nei contesti mainstream senza sminuire la profondità delle tematiche.

Insomma, dopo l’abbuffata di film asiatici a cui mi sono sottoposto l’anno scorso, nel periodo che ho trascorso tra Malaysia e Taiwan, ho apprezzato tantissimo poter vedere alcune delle nuove uscite di una cinematografia che paradossalmente in Italia ha uno spazio limitatissimo: ho visto più film asiatici in sala nei tre giorni in cui ho frequentato il festival. Ben diversa, quest’Italia asiatica, da quella che ha invaso gli schermi italiani appena poche settimane fa con La città proibita (2025) di Gabriele Mainetti, che provando a sperimentare le possibilità di ibridazione del cinema italiano e di quello cinese ha finito per portare al cinema un’accozzaglia di stereotipi tenuti insieme dalla più banale storia d’amore interculturale e dall’esibizione di arti marziali: il trionfo del melting pot vecchia scuola riprodotto dalla contesa tra due ristoranti della Roma multiculturale dell’Esquilino. Possiamo ben capire le parole pronunciate da Sylvia Chang alla consegna del suo premio alla carriera: “Oggi viviamo dentro un tempo folle, folle e caotico, ma per nostra fortuna esistono ancora i film e possiamo ancora decidere di chiuderci in un cinema. A ridere, a piangere, a sognare. Per due ore, almeno per due ore, nessuno può impedirci di pensare che il mondo sia ancora un bel posto.” O forse basta uscire dal cinema e imbattersi per caso in una giovane attrice taiwanese, come è successo a me con Buffy Chang, la protagonista di The Uniform, o un attore di esperienza giapponese, prendere a chiacchierare amabilmente annullando le distanze culturali, geografiche e generazionali, e sentire all’improvviso a Udine un alito del vento che soffia a Taipei o a Tokyo. Allora ci accorgiamo che il presente e il futuro del cinema asiatico brillano a Udine.