Sofia Isella è il nuovo che sta succedendo. È come vedere giocare Maradona a 16 anni nell’Argentinos Juniors o Michael Jordan al College, prima che si rivelino al mondo intero. Il cognome italiano non inganni, è americana della California, nata dalle parti dei Doors e dei Black Flag, giusto per dirne un paio. Suona il pianoforte, si rotola selvaggiamente a terra maneggiando con cura il violino e cavalcando chitarre elettriche. Non ha dato retta alle major e da figlia dell’ultima generazione (Sofia è nata nel 2005…) usa i social per trasmettere un’immagine potente della sua arte, e ci riesce non solo perché i social amplificano e moltiplicano, ma perché la sua musica, unita alla performance, è davvero arte potente. Un sussurrato che a volte sembra figlio del formicolio e del brivido dell’Amsr che poi però esplode insieme a tutto il corpo, per ritornare gentile nel suo intrecciare le mani con il pubblico, sperimentando un nuovo rapporto, inedito, tra chi è sopra e chi è sotto al palco, che a un certo punto dello show può incontrarsi senza trascendere nel catartico ma dispensando germi di autocontrollo per nuovi mondi possibili.
I suoi testi sono molto diretti, con una maturità sfuggita all’anagrafe riesce a essere chiara diretta e femminista senza avere paura delle parole, anzi puntandoci e mettendoci l’accento affinché non ci siano fraintendimenti. I social la portano fino a Taylor Swift che la vuole in apertura a Wembley, su quelle tavole rese eterne in quanto a live show da Freddy Mercury. Il mainstream non è il suo mondo ma Sofia, forse un po’ a sorpresa, accetta la sfida e la vince, in uno stadio sold out compie il suo miracolo perché sembra essere sempre stata su palchi immensi come quello. Non solo, ma mantiene la sua dote di indipendenza nel music business, facendo lanciare le sue basi (è anche producer…) dalla mamma, portandosi la sorella per le foto e il padre per i video. L’altra cosa sconvolgente è che tutta la sua musica è opera sua e basta, si è finanche fatta una sua etichetta. L’immaginario volge a quel gotico che tende al dark, (e al cantautorato post-punk), che su di lei infittisce il mistero di un mondo che tende al cupo, ma che nella musica risorge ogni volta.
Sofia ha all’attivo alcuni singoli e due ep, scrive e suona da quando è ancora una bambina. Probabilmente il prossimo disco, (presumibilmente un album intero), e l’imminente tour in Gran Bretagna e centro Europa la sveleranno meglio anche a queste latitudini, ma come sempre, la musica oltre i suoni ha una sua narrazione, un’epica necessaria a renderla viva oltre il suo tempo. Non ci troverete ritornelli accomodanti, strizzate d’occhio al pop da classifica, o un finto alternative attratto segretamente dal mainstream, ma un suono spesso cupo, evocazioni distopiche, fraseggi vagamente industrial, ma anche un piano potente che sorregge le altalene vocali. Sin dai primi brani i titoli sono molto impegnativi e indicativi ma allo stesso tempo necessari a comprendere il suo essere anche profondamente politico, nel senso alto e combattivo del termine. Un video mostra come durante un concerto nel pieno del brano All of Human Knowledge Made Us Dumb che parla dell’alienazione causata da tutto il virtuale che svilisce i rapporti reali, scende tra il pubblico per recuperare e rinnovare un contatto fisico delicato e non imposto, intrecciando le sue mani con chi lo permette e determinate condizioni di gentilezza. Quello del contatto fisico è un tema molto presente e ricorrente nelle sue canzoni, in modi differenti.
Us and Pigs è una canzone schierata e femminista senza troppi giri di parole, chiaro anche il messaggio in I Looked the Future in the Eyes, It’s Mine. In questi primi singoli si nota una continua maturazione anche nel modo di cantare, addirittura in Hot Gum affiorano influenze rap su ritmi serrati. La sua battaglia femminista continua con Everybody Support Women, che smaschera l’ipocrisia di chi a parole si dice solidale ma poi nei fatti viene meno, versi in cui non risparmia nemmeno donne privilegiate e di successo. Il primo ep, I Can Be Your Mother spiazza ancora aprendosi con lei al violino in The Well. Quello che colpisce è come in poco tempo lei riesca a fare salti enormi in quanto a composizione, produzione e realizzazione della sua musica, (un esempio è il brano The Doll People), sviluppando tutta la parte visual e live di pari passo, tanto che ormai i sold out in Usa (e a breve in Europa) non si contano. Il live è molto vicino a un rituale celebrato sia da sola, sul palco, che con il suo pubblico stranito e rapito. L’ep non ha punti deboli, è un crescendo con Unattractive e I Can Be Your Mother che lo chiude. Con rinnovata maturità Sofia Isella supera brillantemente anche la prova del secondo ep, I’m Camera uscito da pochissimo. Ce lo racconta così:
“Mi sento come se non fossi io a scrivere le mie canzoni. Ho la sensazione che ci sia qualcos’altro nella stanza. È come se mi sorridesse, ma io sono solo la macchina fotografica che cattura la scena.”
Anche in queste canzoni ritornano alcuni temi emersi anche in precedenza. In Josephine il rapporto con il pubblico, in Dog’s Dinner ancora le relazioni affettive, spesso devastanti. Musicalmente è molto difficile capire esattamente a cosa si avvicini, l’attitudine fa pensare alla rottura di certe artiste punk, al loro modo di rinnovare parole, gesti, postura e abbigliamento, ma c’è una delicatezza che emerge anche dai toni più cupi che la rende senz’altro una cantautrice rock e certamente una producer del sound contemporaneo, che guarda avanti. E però è anche una polistrumentista solida e una cantante in continuo miglioramento, oltre che una performer live, insomma difficile trovare punti deboli ricordando anche i suoi soli due decenni di vita. Quando si parla di lei una cosa certa si sa, ha chiesto a tutti quelli che scrivono il suo nome, di farlo tutto in maiuscolo, così, SOFIA ISELLA, sempre. Tuttavia, restano alcune zone grigie da cui dovrà districarsi la musicista americana, nel momento in cui dovrà sciogliere alcuni aspetti che potrebbero minarne la coerenza, come il rapporto tra la sua battaglia femminista e le pretese dei grossi marchi che la braccano come modella o ancora con una sorta di autocelebrazione poco “punk” ma che ha a che vedere però con il dna dei social e dell’autopromozione, il suo nome in maiuscolo tende a essere un marchio per esempio.
Togliendo da questo ragionamento i progetti di pop spinto costruiti dalle major o dai talent, guardando indietro, non dovrebbe stupire più di tanto l’età, in passato c’è stata una generazione intera di rockstar a diventare famosa giovanissima, pensiamo ai muri della metro di Londra si cui c’era scritto Clapton is God quando Eric Clapton aveva solo diciannove anni, o ancora, ai Beatles che quando si sono sciolti, nessuno di loro arrivava a trenta candeline. Ma erano altre epoche. In questa epoca, manifestare questo livello di forza e arte in modo così diretto e fatto in proprio non è per niente semplice. Le sue produzioni migliorano costantemente e in pochissimo tempo. La sua breve discografia, se presa in ordine cronologico lo dimostra senza paura di smentita. Magari poi arriverà il mainstream. il music business anche per lei e le cose cambieranno, chi può saperlo. Per ora non è così e forse il futuro della musica fa un po’ meno paura adesso.