Alla ricerca di nuove parole per parlare le lingue che ci rendono muti
Una premessa mi sembra necessaria: il nuovo, intensissimo libro di Nadeesha Uyngoda, Acqua sporca , è uscito a inizio settembre, durante queste ultime settimane concitate, in cui è difficile trovare le motivazioni per scrivere e portare avanti i propri interessi regolarmente, ignorando il flusso delle notizie. Leggere un romanzo, un’operazione che richiede un grande investimento di tempo e concentrazione, sembra quasi farci sentire in colpa, come affetti da un egoismo fuori luogo. In particolare a noi, che siamo il pubblico privilegiato di Uyangoda: i lettori sensibili alle cause umanitarie e ai discorsi di inclusione. Proprio per questo motivo, tuttavia, sarebbe ingiusto penalizzare le letture più interessanti che arrivano in libreria in questo periodo: da una parte, è un dovere morale dedicarci a libri che riescono a sottrarci per qualche ora alla costante esposizione ai massacri, ai genocidi, alla narrazione bellica che ci è sottoposta quotidianamente per immaginare nuovi scenari possibili; dall’altra, è giusto dare spazio a libri come Acqua sporca, che ci sottopongono testimonianze che ci aiutano a ritrovare la nostra umanità anche in tempi di pace, che ci incoraggiano a interrogare questioni più complesse di quanto appaiano sulla superficie dei luoghi comuni, che ci sottopongono narrazioni che ci portano fuori dalle nostre case per approfondire la cultura del nostro vicino, che nell’apparenza sembra diverso da noi, ma spesso, appunto, solo nell’apparenza.
Perciò, settembre è stato un mese segnato da eventi importanti. Su tutti, la missione della Global Sumud Flotilla, che ha ricompattato intorno al suo eroico equipaggio il coinvolgimento globale per la causa palestinese e ha risvegliato un più diffuso senso di giustizia, ideata da persone di incredibile coraggio che si sono fatte carico di diffondere un messaggio importantissimo. Ma anche l’uscita di Acqua sporca, negli stessi giorni in cui la missione umanitaria si preparava a salpare e faceva parlare di sé, merita un posto di rilievo nel contesto delle rivoluzioni editoriali. Si tratta del primo romanzo di Uyangoda, un’autrice che ho introdotto sull’Indiependente qualche anno fa all’uscita del suo esordio nella saggistica con L’unica persona nera nella stanza per 66thand2nd, un volume decisamente groundbreaking, come si direbbe nei contesti anglofoni frequentati a fondo dall’autrice. Il lavoro di Uyangoda si è subito segnalato infatti per le modalità con cui ha ribaltato il linguaggio con cui si affronta in Italia il discorso sulla razza e sul colore, ponendosi l’obiettivo di far convergere quanto è stato scritto nel nostro paese dai primi studiosi della questione multiculturale in Italia con teorie e scritti cruciali presi direttamente dal discorso internazionale, come si è sviluppato soprattutto nel Regno Unito e negli Stati Uniti, dove il discorso sulla migrazione è di numerosi decenni più avanti rispetto a quanto accade nel nostro Paese, per ovvi motivi storici, oltre che culturali. Il primo volume si è inserito in un percorso più ampio descritto dagli articoli dell’autrice per la stampa italiana e internazionale e dall’interessantissimo podcast Sulla razza. Di strada, intanto, Uyangoda ne ha fatta: a questo prima opera di saggistica ne è seguita una seconda, Corpi che contano, nel 2024, in cui l’autrice ha spostato il discorso sul colore in un più ampio contesto di analisi dei modi in cui nella nostra società si concettualizza il corpo e si discriminano i corpi che non sono conformi al modello egemone; al primo podcast, ne sono seguiti altri due, entrambi dedicati al modo specifico al linguaggio: Parole nuove e La cura delle parole.

Acqua sporca introduce Uyangoda alla dimensione del romanzo, sua prima opera narrativa corposa. Si tratta di una scelta che personalmente non mi ha sorpreso, poiché già alcuni anni fa avevo intercettato il suo bel racconto Cittadinanza, uscito anche quello nel 2021, in un opuscolo per Book City Milano, che le ho chiesto di pubblicare sulla mia antologia digitale Voices of a Multiple Italy | Voci di una Molteplice Italia (mi si scuserà se approfitto per un po’ di pubblicità, ma è un racconto molto interessante e mi dispiacerebbe andasse perso nel web). I lettori più attenti vi riconosceranno alcuni nuclei poi confluiti nel romanzo: di questa riuscitissima prima prova narrativa, la cosa che colpisce subito è l’originalità e la delicatezza con cui Uyangoda si rivela capace di introdurre nel contesto narrativo i temi affrontati nella saggistica, evitando di appesantire la fruizione della narrazione. Ritroviamo nei discorsi delle due protagoniste, la madre Neela e la figlia Ayesha, e nelle figure che vi ruotano intorno non solo la riflessione sul colore, che ripropone modalità che sono state a lungo considerate tabù nel nostro paese, essendo in Italia il discorso sulla razza profondamente intrecciato alla promulgazione delle leggi razziali in epoca nazi-fascista, ma anche la riflessione sulla lingua e sulle parole che usiamo, sui modi in cui abitiamo la lingua, nonché sulla questione della lingua egemonica, mettendo al centro una protagonista a lungo “resa muta da una lingua che non conosceva” (15). Uyangoda importa modelli teorici nonché espressioni linguistiche che sono rimasti troppo spesso fuori dai discorsi che riguardano l’Italia e la storia delle sue migrazioni, legati ad altre diaspore e altre esperienze coloniali. Un’altra grande conquista dell’autrice è quella di aver introdotto queste tematiche spostando il discorso della letteratura italiana transnazionale verso l’Asia, un continente rimasto in secondo piano rispetto alle narrazioni principali dell’immigrazione in Italia, e in particolare fuori dalle questioni che riguardano la linea del colore, che sono riprese nei termini in cui sono discusse già nel subcontinente indiano. Al tempo stesso, il discorso di Uyangoda si avvolge intorno a elementi specifici della cultura srilankese e della lingua singalese, presentati dalla viva voce dei diversi personaggi che appaiono nel libro, introducendoci alle modalità con cui sono riproposti, spesso a fatica, in Italia, in Europa e in Asia. Così facendo, ci illustra nella quotidianità della dimensione familiare abitudini e credenze di una comunità presente nelle nostre città ormai da decenni eppure ancora considerata straniera, seguendo una serie di eventi messi in modo dalla diffusione della notizia del ritorno della protagonista, emigrata ormai da trent’anni, nella sua città d’origine.
In questo volume sofisticato ma anche appassionante, Uyangoda descrive dalle origini il progetto di una famiglia di ricollocarsi dallo Sri Lanka in Italia, che definisce il destino delle due protagoniste, portandoci in un’isola da noi purtroppo poco conosciuta, e in un’epoca in cui in cui il nostro paese sembrava offrire garanzie a paesi che attraversavano uno stato precedente di sviluppo: la fase in cui l’Italia è diventata contemporaneamente un contesto di emigrazione e immigrazione di massa, un caso piuttosto unico nell’atlante globale delle diaspore. Dipanando la storia della famiglia di Neera e Ayesha attraverso un gioco prospettico complesso, l’autrice ci mostra una popolazione che fa parte della nostra quotidianità, perché vive nei nostri quartieri, eppure resta ai margini di entrambi, che appare a tratti vicina, a tratti lontana culturalmente, sottoponendoci sfumature che raramente riusciamo a cogliere nella loro specificità. In primo piano c’è la capacità di trasformare in un discorso universale l’urgenza personale dei personaggi che incontriamo, le domande che accomunano tutte le migrazioni: su tutte, quale casa?
La questione del paese da definire casa, che è centrale nella narrazione di Uyangoda, riconduce all’insistenza sul discorso della casa come spazio abitativo di cui appropriarsi, che caratterizza in modo specifico l’esperienza dell’emigrazione italiana tra le narrazioni delle diaspore globali: si pensi a Wild Swimming di Giorgia Tolfo, per fare un esempio recente, che dedica alla ricerca di una stabilità domestica l’intera seconda metà del memoir in cui racconta la sua esperienza a Londra. Andando più indietro, l’esempio più celebre è forse quello delle prime prove narrative di John Fante negli Stati Uniti, per esempio il suo primo romanzo, Wait Until Spring, Bandini, in cui nelle prime pagine incontriamo il padre di Arturo che impreca e bestemmia contro la casa che non riesce a comprare. A questo proposito, il critico Fred Gardaphé ha parlato di “segni di italianità”, esplorando le narrazioni degli italoamericani e in particolare la loro relazione con le case. Proprio il rapporto con lo spazio abitativo sembra collegare le rappresentazioni dell’emigrazione italiana e quelle dell’immigrazione in Italia: si pensi al racconto Dismatria di Igiaba Scego, in cui la questione della proprietà immobiliare è descritta nei termini di una ribellione della protagonista all’eredità nomade legata alla figura materna. Anche da questo punto di vista, il libro di Uyangoda si rivela un importante spartiacque: continuando ad approfondire i discorsi della generazione più recente di autori italiani di origine etnica, l’autrice esplora nuovi modi di descrivere la distanza tra la prima generazione di immigrati e quella che nata nel nostro paese, o che vi si è stabilita in età molto giovane. Le modalità di Uyangoda di fare da collante tra l’esperienza dell’emigrazione italiana e quella dell’immigrazione in Italia è confermata dall’attenzione riscossa dal suo lavoro in autori della diaspora italiana che ho nominato spesso sull’Indiependente, quali quelle di Claudia Durastanti e Vincenzo Latronico, che hanno firmato i blurb sulla copertina del volume.
Il discorso sulla casa si dipana, in Acqua sporca, intorno a una narrazione di ritorno: quella di una donna che decide di rientrare nel proprio paese dopo trent’anni di duro lavoro in Italia. Nello specifico, Uyangoda lo descrive da un punto di vista critico che è il rovescio della condizione di partenza dell’emigrante, che lascia il posto in cui è cresciuto per cercare una situazione migliore: in questo caso, invece, ci si chiede “perché Neela volesse tornare in un Paese ridotto al suo peggio” (42), dopo aver investito tempo ed energie per adattarsi a un paese molto diverso da quello da cui era partita. Da giovane, Neela ha dovuto allontanarsi dalla figlia Ayesha, rimasta in patria, per lavorare come domestica e badante in una casa di agiati abitanti della Brianza; nel presente narrativo, medita di separarsi lasciandola in Italia, dove ormai si è stabilita, per riallacciare i contatti con la sua famiglia d’origine. In questo caso, non saprei dire se il fenomeno del ritorno, che è molto comune tra gli emigranti italiani, sia altrettanto diffuso nel contesto dell’esperienza dello Sri Lanka o delle rappresentazioni letterarie dell’emigrazione sudasiatica: mi viene più facilmente da immaginare che sia, come la riflessione sulla casa che attraversa il volume, anche questo un topos che Uyangoda ha ereditato dalle narrazioni diasporiche che potremmo definire, con una parola che non amo, occidentali, e nello specifico da quelle che hanno base in Italia, a conferma che la vicinanza tra Uyangoda e gli autori dell’emigrazione italiana contemporanea sia ormai sottilissima. In aggiunta, in esergo alle prime pagine Uyangoda sceglie di citare Cesare Pavese, un classico della letteratura italiana che si è segnalato per la capacità di trasmettere ai suoi personaggi un senso di sradicatezza e irrequietezza che è proprio dell’autore, riferendosi in particolare a La luna e i falò, che non a caso descrive la narrazione di ritorno di un piemontese emigrato in California. Si tratta della citazione forse più nota dell’autore, che dice: “Un paese ci vuole, non fosse che per andarsene via”. Uyangoda la reinterpreta nella sua espressione più ampia e la completa così: “Si torna per accertarsi che nelle piante, nelle creature, nella gente sia rimasto qualcosa di tuo, una traccia che dimostri che si è esistiti anche quando, altrove, si è stati indaffarati a non esserlo” (22).

Se poi ci addentriamo in acque più profonde, possiamo cogliere ulteriori elementi seguendo l’attività giornalistica di Uyangoda e le modalità in cui confluiscono nella scrittura creativa. La sua narrazione acquisisce ulteriori sfumature, per esempio, se la confrontiamo con quella di un libro che l’autrice ha recensito di recente per la rivista Internazionale, The Emperor of Gladness di Ocean Vuong, in occasione dell’uscita dell’edizione italiana (il misero adattamento del titolo, L’imperatore della gioia, suggerisce una lettura in inglese dell’originale). Riprendendone l’interpretazione del critico Andrea Long Chu, Uyangoda descrive questo romanzo come un’evoluzione rispetto al lirismo di Brevemente risplendiamo sulla terra (On Earth We’re Briefly Gorgeous, in questo caso la traduzione è di Durastanti, e ci fidiamo), sottolineando che la rappresentazione della migrazione definisce spesso caratteri globali. Leggendo il nuovo libro di Vuong, che descrive il legame tra un giovane americano di origine vietnamita e un’anziana immigrata di origine lituana, ho pensato soprattutto agli elementi comuni che emergono dalla prossimità di esperienze di immigrazione diverse: su tutte, la profonda solidarietà che avvicina protagonisti all’apparenza lontani. Si tratta di persone che vivono la discriminazione razziale nei termini in cui si lega alla loro origine sociale, alla comune affiliazione alle classi sociali più basse. Al contempo, ho notato come anche altri romanzi americani recenti, per esempio Real Americans di Rachel Khong (anche in questo caso se ne consiglia l’edizione in originale, seppure sia disponibile col titolo Una vera americana), si siano progressivamente allontanati dalle narrazioni del multiculturalismo degli anni Settanta descrivendo una ricerca dei paesi di origine e cercando il dialogo con la propria provenienza, al di là della riflessione orizzontale dedicata alla loro vita nel paese di destinazione. Sebbene le letterature etniche americane restino il mio principale riferimento per lo studio delle rappresentazioni culturali delle diaspore, questi racconti si avvicinano molto alle letterature che raccontano l’immigrazione europea, e il lavoro di Uyangoda coglie entrambi gli aspetti: la terra d’origine resta importante quanto quella di arrivo, e le alleanze tra gruppi etnici diversi si affiancano a un maggior dialogo transnazionale tra membri della comunità originaria e quella emigrata. Così accade a Neela, che ancora prima di decidere di rientrare, si tiene in contatto con la famiglia d’origine grazie alle possibilità offerte dalla tecnologia evolutasi nel corso dei suoi trent’anni di emigrazione, quando non cerca la prossimità del gruppo multiculturale più ampio, o di un più esteso gruppo asiatico o sudasiatico, a Milano o in Brianza.
L’altro punto che avvicina Uyangoda e Vuong è quello che porta entrambi in prossimità di Gaza: la narrazione bellica che alimenta le storie dei loro personaggi, poiché anche Acqua Sporca, come The Emperor of Gladness, è abitato dalla presenza bellica e dai suoi fantasmi. In un’intervista, riferendosi alla sua origine vietnamita e al conflitto tra Stati Uniti e Vietnam, Vuong ha descritto l’abitudine degli americani a scandire la storia attraverso la successione dei conflitti: una prassi non estranea anche agli storiografi europei, soprattutto in relazione alla grande cesura costituita dalle due guerre mondiali nel Novecento. Perciò Gladness, la cittadina protagonista del libro di Vuong, nella descrizione che l’autore ne fa nel primo, liricissimo capitolo, presenta evidenti segni della sedimentazione di questa cultura del conflitto: le abitazioni dei veterani, i bar dove si riuniscono per ubriacarsi, le scritte sui muri fatiscenti, il fatto che l’intera città sia stata rinominata in onore di un veterano della Grande Guerra, oltre a un diffuso senso di disagio. Un disagio non dissimile al senso di sradicamento prodotto della migrazione, sottolinea Uyangoda quando racconta la vicenda di Romesh, marito di una delle quattro sorelle di Neera e finito per emigrare anche lui in Italia lavorando come bracciante, rielaborando parallelamente lo stato di guerra continua che ha scandito per trent’anni la storia dello Sri Lanka: “A volte l’emigrazione e la guerra sono la stessa cosa, entrambi ti strappavano la terra da sotto i piedi, allora la cercavi sul fondo delle bottiglie” (97).
Ci sarebbero da approfondire le modalità con cui Uyangoda pennella l’affresco familiare, in cui ogni personaggio descrive un momento specifico del disagio che nasce dallo scontro tra le tradizioni familiari ereditate dal contesto sudasiatico e le aspirazioni provenienti dagli scambi con i paesi europei, su tutti, quelle importate negli anni del colonialismo inglese. Uyangoda descrive in modo molto capace le tensioni familiari che emergono in ogni narrazione diasporica, che si alimenta delle divergenze tra generazioni migranti parallelamente ai disagi provocati dall’interazione con un nuovo contesto culturale, per esempio in passaggi come questo, che descrivono la protagonista: “Sempre vestita bene, ordinata e a modo, mai chiassosa, niente parolacce, ripulire la propria immagina per sopportare meglio la vergogna di essere figli dei propri genitori” (36). Approfondiremo questo discorso in un’altra occasione; per ora, torniamo a soffermarci sul filo che lega i discorsi portati dalle acque, che spesso descrivono la stessa vocazione umana che ci avvicina allo Sri Lanka, al Vietnam, ma anche a Gaza, l’empatia per la sofferenza, la curiosità per chi appare diverso da noi, l’apertura verso chi ha esperito la discriminazione nel modo più violento e disumano. Questa è la nostra principale ispirazione a leggere e a scrivere, bisogna custodirla per i momenti in cui la motivazione ci sempre offuscarsi: la necessità di raccogliere e diffondere queste voci.