Poesia

Ricordando Amelia Rosselli, l’undici febbraio

Fotografia di copertina di Dino Ignani

Ventisette anni fa, l’11 febbraio 1996, Amelia Rosselli decise di lasciarci buttandosi dal balcone del suo appartamento in via del Corallo a Roma. Grandissima voce poetica del Novecento, e non solo ha vissuto un’esistenza che vale la pena ripercorrere e raccontare. Non si può cercare di raccontare una vita significativa come quella di Amelia Rosselli, se non attraverso la voce sua e di chi l’ha conosciuta bene. Quella che segue vuole essere una breve biografia in memoriam, attraverso lettere e interviste a stampa e a voce, tra poesia e vita.

Amelia bambina e prima giovinezza (1930-1947)

«Mi avessero dato l’affetto che mi dovevano»

La bimbetta pesa quattro chili, è, relativamente agli altri neonati, una bella bimba, ma relativamente al Mirtillino alla stessa epoca, sembra che valga meno. Marion la trovava addirittura bruttina […] Ha dei grandi occhi azzurri, capelli biondi (molti), un nasino che appartiene alla famiglia delle patatine, e una bocca un po’ grandina.[1]

Così Carlo Rosselli presenta la sua secondogenita, Amelia detta Melina, in una lettera scritta a due giorni dalla nascita e indirizzata alla propria madre, Amelia Pincherle Rosselli. Nella stessa lettera, Carlo manifesta la sua preoccupazione per la reazione di sua moglie Marion che, confrontandola con il primo figlio John alla stessa età, trovava Amelia “addirittura bruttina”, dicendosi delusa dalla bambina. Più avanti, Carlo si mostra persino in dubbio se decidere di chiamare la neonata con lo stesso nome della propria madre fosse un omaggio giusto (“ma con che coraggio hanno dato a questa pupa il nome di una nonna così bellina, fine e perfetta?”[2]), titubanza subito smentita dal fatto che questo perpetuarsi del nome materno lo rendeva felice in quanto figlio. Addirittura, sempre in riferimento al nome, aggiunge una chiusa che sa di premonizione per quello che sarebbe stato poi il futuro della sua Melina: “[…] perché ne sento stavolta tutta la poesia”[3].

Anni dopo, infatti, sarà la stessa Amelia Rosselli ad affidare a pochi lapidari versi il racconto della propria vita e della propria famiglia, argomento a cui ha sempre dimostrato un profondo attaccamento e che ricorre spesso nelle varie interviste raccolte successivamente in un unico volume da due studiose rosselliniane di lungo corso, Monica Venturini e Silvia De March[4].

In Variazioni Belliche (1960-1961), a proposito, Rosselli scrive:

Nata a Parigi travagliata nell’epopea della nostra generazione / fallace. Giaciuta in America fra i ricchi campi dei possidenti / e dello Stato statale. Vissuta in Italia, paese barbaro. / Scappata dall’Inghilterra paese di sofisticati. Speranzosa / nell’Ovest ove niente per ora cresce.[5]

In cinque versi ripercorre la sua giovinezza menzionando, in particolare, la sua nascita parigina, la successiva fuga in America, il breve ritorno in Inghilterra, il paese materno, e la scelta di stabilirsi in Italia (terra che qui definisce “barbara”, per licenza poetica come chiarisce poi in un’intervista del 1995[6]), ma che compie nel ricordo di suo padre, di cui a differenza degli altri due fratelli sceglierà di imparare e mantenere anche la lingua, l’italiano[7], insieme all’inglese e al francese.

Figlia di Carlo Rosselli e Marion Catherine Cave, Amelia Rosselli nasce in esilio a Parigi il 28 marzo 1930. Qualche anno dopo, suo padre Carlo, di estrazione nobile, socialista, antifascista e fondatore di Giustizia e Libertà, sarà assassinato insieme al fratello Nello dai cougards fascisti, sicari agli ordini di Mussolini e Ciano, a Bagnoles de l’Orne il 9 giugno 1937[8]. Il profondo trauma per la prematura perdita del padre accompagnerà Amelia per tutta la vita. Sua madre Marion, inglese, di famiglia laburista, ma non benestante, era laureata in lingue ed è stata mandata in Italia, a Firenze, per curare una febbre reumatica, come riferisce la stessa Rosselli in un’intervista del 1987[9]. Qui conobbe Carlo, che aiutò sempre nelle proprie azioni e che raggiunse nel periodo dell’esilio a Lipari, occasione in cui venne concepita Amelia. Di salute cagionevole (cardiopatica, è stata soggetta più volte a ictus), Marion non si riprese mai totalmente dalla morte del marito, abbandonando l’italiano, lingua che aveva studiato insieme al francese.

Ho delle immagini nella mente. Ricordo mio padre come persona serena, affettuosa, e mia madre, un po’ sfuggente, preoccupata. I nostri rapporti – parlo di me e di Andrea, che era il minore dei miei due fratelli – con i genitori erano un po’ evanescenti. Non bisognava turbare i bambini, parlando dei pericoli che incombevano. Ma a tavola, quando discorrevano tra di loro, qualcosa si intuiva. Di mio padre, a parte l’affetto resta in me un senso di non corporeità. Quando partì per la Spagna nel ’36, io avevo appena sei anni per cui non ricordo molto.[10]

Amelia ha due fratelli: il maggiore, John detto “il Mirtillino”, che è due anni più grande di lei; il minore, Andrea detto “Aghi”, è nato l’anno dopo rispetto a Melina. Dai racconti familiari, John è sempre stato il preferito di casa, mentre Melina e Aghi, più vicini d’età da sembrare quasi gemelli, almeno per gli anni dell’infanzia sono più legati. Proprio insieme, infatti, hanno ricevuto la notizia dell’uccisione del padre e dello zio Nello per bocca di Marion che, purtroppo ancora malata, li convocò nella propria stanza, chiedendo loro se sapessero cosa volesse dire la parola assassinio[11]. I due bambini risposero di sì, per poi tornare nella propria stanza in vestaglietta da notte. L’aneddoto ricorre molto spesso nel racconto che Rosselli stessa fa della propria vita, in più di qualche conversazione con la stampa, e rende bene l’approccio che, da figlia, ha avuto con la morte del padre. D’altronde aveva solo sette anni, sarebbe stato impossibile capire e ricordarsi di più.

Cosa successe negli anni dopo l’assassinio dei fratelli Rosselli e con l’entrata dei nazisti in Francia nel 1940 è presto detto: data la situazione di pericolo, a cui si era aggiunta in precedenza l’approvazione delle leggi razziali in Italia del 1938[12] che rende definitivamente impossibile un ritorno nella terra paterna, se nemmeno la neutrale Svizzera è un luogo sicuro, ma neanche ben due soggiorni in Inghilterra si rivelano tali[13], alla carovana Rosselli – composta dai tre figli di Carlo e Marion più i quattro di Nello e Maria, la nonna Amelia Pincherle Rosselli e le due vedove – non rimane che partire alla volta dell’America via Canada, affrontando una traversata in mare lunga e pericolosa data la presenza in mare dei sommergibili tedeschi, definita addirittura avventurosa[14], come possiamo leggere dalle parole di Amelia che, ogni volta che ne parla, pare avere ancora davanti agli occhi i suoi ricordi di bambina in quell’occasione. Ulteriore conferma del carattere sicuramente avventuroso di questo viaggio, ma anche scomodo e pericoloso, arriva dalla testimonianza di Aldo Rosselli, cugino di Amelia e figlio di Nello, che ricorda di quando, per tenerli tutti uniti a sé ed evitare che la nave li sobbalzasse qua e là, la nonna Amelia li aveva legati con una corda[15].

L’espatrio delle tre donne e dei sette bambini Rosselli negli Stati Uniti dura sei anni, dal 1940 al 1946. Al loro arrivo a New York, possono contare sull’aiuto di Gaetano Salvemini, Max Ascoli e altri[16]. Qui si stabiliscono a Larchmont, sobborgo di New York, Maria e Amelia Pincherle Rosselli vivono insieme, Marion poco distante da loro. Per Amelia questo periodo rappresenterà per sempre un momento di ritrovata felicità nel complicato rapporto che aveva con sua madre Marion[17] (“Mia madre riuscì a darci il senso della casa e della terra. E credo sia stato uno dei periodi più felici della mia vita”[18]).

Totalmente immersa nella sua formazione angloamericana[19], molti anni dopo Amelia ammetterà di non avere, purtroppo, ricordi ben definiti linguisticamente di quel periodo. Sicuramente in casa si continuava a parlare anche in italiano:

Mia nonna, mentre eravamo esuli in America, ci ricordava l’italiano, leggeva Dante e lo commentava, ma immersi com’eravamo nell’ambiente linguistico americano quel tipo di lettura era sempre un po’ difficile per noi. Di quegli anni non ho un preciso ricordo sul piano linguistico.[20]

A proposito dell’esilio e del trilinguismo (inglese-francese-italiano) derivante dal proprio vissuto, è nota la definizione di cosmopolita che Pier Paolo Pasolini avrebbe pensato perfetta per Amelia Rosselli e che lei, invece, ha sempre ripudiato, come si può leggere in questa intervista del 1990:

Non sono apolide […] La definizione di cosmopolita nasce da un saggio di Pasolini che accompagnava le prime pubblicazioni sul «Menabò» (1963), ma io lo rifiuto per noi questo appellativo: siamo figli della Seconda guerra mondiale. Quando sono tornata in Italia mi sono molto legata a Roma. Cosmopolita è chi sceglie di esserlo. Noi non eravamo cosmopoliti; eravamo dei rifugiati.[21]

Il riferimento al fatto di essere una famiglia di rifugiati è importante se si pensa anche solo all’entità del trauma che l’assassinio per mano fascista di padre e zio ha avuto sulla vita di Amelia Rosselli e sulle ripercussioni per quanto concerne le proprie scelte di vita e, da non sottovalutare, sulla propria salute mentale[22]. Se c’è un’ombra che le rimarrà addosso per tutta la vita (oltre a un “atto di persecuzione”, come lo definisce con fermezza[23]), è un costante senso di abbandono, dovuto alla prematura morte del padre e al carattere scostante della madre che ha sempre mostrato di preferire il primo figlio John. È lei stessa, in conversazione con Sandra Petrignani a dire, riferendosi alla scomparsa di entrambi genitori (la madre muore nel 1949): “Mi avessero dato l’affetto che mi dovevano. O no, avrei dovuto morire con loro, forse”[24].

Durante il periodo americano, dal 1942 Amelia frequenta il College a Larchmont insieme a sua cugina Paola. Negli stessi anni, impara ad andare a cavallo e a fare diversi lavori pesanti in un campo quacchero del Vermont[25]. Tuttavia è un anno dopo, nel 1943, che avviene un incontro decisivo per Amelia, prima di quello con la poesia: si tratta dell’amore per la musica[26], scoppiato grazie a una sua insegnante, disciplina in cui Amelia si impegna tanto da subito, ma non manca di mettere in luce le prime preoccupazioni per la salute della bambina.

Nell’estate del 1946, insieme alla famiglia, Amelia Rosselli ritorna per breve tempo in Italia, a Firenze. Questo ritorno è così salutato, alla partenza, da Marion Cave:

Andiamo anche in Italia per aggiungere le nostre deboli forze a quelle di tanti altri per tirare l’Italia dal passo dove l’hanno ridotta 23 anni di fascismo […] Siamo invece gratissime verso l’America per averci permesso di allevare qui, lontani dai teatri di guerra, i nostri 7 figli. Qui non hanno mancato di niente, mentre lì avrebbero mancato di tutto; lì avrebbero ricevuto le impressioni più penose; mentre qui queste sono state loro risparmiate.[27]

Poco dopo, a settembre, Amelia si trasferisce a Londra per studiare alla Saint Paul’s School, la stessa scuola frequentata a suo tempo da sua madre e le permette di approfondire lo studio della letteratura e della musica, in particolare violino, pianoforte e composizione. Questo suo sconfinato amore per la musica causa delle incomprensioni con Marion, che intanto l’ha raggiunta a Londra insieme al figlio minore Andrea. La madre vorrebbe convincere Amelia a lasciar perdere una carriera come quella nella musica per assicurarsi una maggior stabilità economica. Da qui cominciano per Amelia quasi due anni di irrequietezza e traslochi, prima dagli zii inglesi, poi in convitto[28].

Di quegli anni e dei suoi studi musicali racconta:

La mia scelta musicale sembrava una follia, perché la mia famiglia era rimasta senza soldi e mio padre, che in origine ne aveva, aveva deciso di spendere tutto per finanziare Giustizia e Libertà e l’attività clandestina. Cominciai a suonare il violino a Londra, a sedici anni, poi continuai a Firenze, dove studiavo anche il pianoforte. Ma lo strumento al quale avrei potuto dedicarmi in modo professionale era l’organo; adoravo la musica del Cinque-Seicento, prendevo lezioni private a Roma.[29]

Foto Gabriella Mercadini

Il trasferimento in Italia, i primi lavori, i primi ricoveri (1948-1969)

«Ebbi un lavoro, credo trovatomi da mia nonna, presso le edizioni di Comunità e queste mi portarono a Roma»[30]

A inizio 1948, mentre Amelia è impegnata a concludere i suoi studi a Londra, in Italia la famiglia Rosselli subisce un altro duro colpo legato all’assassinio di Carlo e Nello: la Corte di Cassazione annulla tutte le precedenti condanne, risalenti al 1945, nei confronti dei responsabili italiani dell’uccisione, Filippo Anfuso e alcuni uomini dei Servizi Segreti, e ne affida il procedimento alla Corte d’Assise di Perugia[31].

A giugno dello stesso anno, Melina torna in Italia, in vacanza dalla nonna Amelia Pincherle Rosselli a Firenze, dove stringe nuove amicizie spesso ospite degli amici di famiglia Zabban, come racconta il cugino Aldo:

Melina allora non ci pensava ancora alla poesia, ma se esiste un incontro… Certo non si può dire che sia diventata una poetessa carducciana! In cima alla collina, sopra la villa degli Zabban, c’era una chiesetta e Amelia, che in quegli anni avrà avuto diciassette, diciott’anni, si allontanava da quella parte e fuggiva fino alla collina […] Nello stesso periodo ci fu il primo ricovero. Amelia aveva conosciuto un ragazzo, e proprio nella villa degli Zabban. In uno spiazzo in mezzo a questo giardino amazzonico, fantastico, con tavolini, poltrone, dove ci facevano portare il tè, due innamorati stavano spesso seduti uno accanto all’altra e qualche volta si toccavano le manine. Per la signora Zabban anche questo gesto delicato era un po’ troppo![32]

Nel suo ricordo, Aldo continua facendo riferimento a questo primo amore di Amelia e al fatto che, presi da “un’esaltazione amorosa”, lei credeva di essere Beethoven e lui Goethe. Furono ricoverati entrambi, fu il primo ricovero per Amelia. Era il 1948 e aveva diciotto anni, da questo momento in poi il fratello John sarà il suo tutore.[33]

L’anno seguente, il 1949, continua la sua permanenza in Italia, e lo studio della musica, ha un fidanzato, Mauro Misul, con il quale manifesta di volersi sposare entro l’anno[34]. Primi amori a parte, questo è un anno tragico per Amelia: il 13 ottobre, a Londra, muore sua madre Marion, il giorno prima dell’assoluzione definitiva dei responsabili dell’assassinio Rosselli[35].

La perdita della madre fu il suo primo “vero dolore adulto”[36], così profondo che le impedì per due o tre anni di parlare[37]. Amelia si sente in qualche modo responsabile della morte della madre e questo la portò, da quel momento in poi, ad assumere il nome Marion e a scegliere di restare a vivere in Italia.

I miei primi anni di vita a Roma sono stati estremamente tristi e faticosi. Sono arrivata qui da Firenze, dove vivevo nella casa paterna con mia nonna, madre di Carlo e Nello. Mia madre era appena morta. Era a Londra mentre io ero a Firenze. Arrivai in questa città e per un lungo periodo non aprii bocca, caddi in un mutismo apparentemente inspiegabile. Quella morte fu dolorosissima, persi addirittura la memoria.[38]

Insieme alla figura del padre Carlo e a quella della madre Marion, anche la nonna Amelia Pincherle Rosselli è stata una figura importante nella vita di Amelia. Di famiglia ebraico-veneziana, zia di Alberto Moravia, donna colta, scrittrice e autrice di testi teatrali, nonna Amelia si preoccupò sempre per quella sua nipote così fragile ed esposta al mondo, aiutandola molto nel momento in cui, negli anni Cinquanta, decide di lasciare la casa paterna per trasferirsi a Roma. Dai ricordi del cugino Aldo Rosselli:

Per mia cugina, sin da piccola di indole molto sensibile, anche aggressiva, nonna era molto preoccupata. L’ha seguita e accudita anche da ragazza con grandi premure, non per farle cambiare strada, anzi per aiutarla, pragmaticamente e in ogni altro modo. Quando Amelia decise di andare a vivere a Roma, le assicurò i mezzi per vivere, procurandole un lavoretto come traduttrice presso Olivetti.[39]

È infatti il 1950 quando Amelia si trasferisce a Roma per lavorare alle Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti, con un impegno di cinque ore al giorno, lavoro che manterrà fino al 1954[40]. Olivetti è una vecchia conoscenza della famiglia Rosselli, in quanto compagno di Carlo nell’organizzazione della fuga di Turati nel 1929, insieme a Pertini[41]. Sul suo lavoro in casa editrice, Amelia dice:

Traducevo in inglese gli opuscoli di Comunità (all’inizio mi parevano insensati, oggi, invece ripensandoci…) credo che anche l’ambiente formi lo scrittore. Conobbi Rocco Scotellaro, Bobi Bazlen, Pasolini…[42]

Proprio quell’anno, a Venezia, durante la partecipazione al primo congresso partigiano “La Resistenza e la cultura italiana” (22-24 aprile) Amelia conobbe Rocco Scotellaro:

Ero seduta nelle ultime file della sala, ad un certo momento si avvicinò un giovane simpaticissimo. Quando seppe che ero la figlia di Carlo Rosselli, sorpreso e interessato, si mostrò sempre più attento a me. Diventammo amici, ma proprio amici come fratello e sorella.[43]

L’incontro con Scotellaro si dimostra decisivo per la sua vita, personale e poetica: “Attraverso di lui ho scoperto i poeti italiani e ho imparato a scrivere versi in italiano. Non è che non sapessi l’italiano, non avevo l’ambizione di diventare poeta”[44]. Amelia non è più sola a Roma ed entra a contatto con l’ambiente intellettuale (in particolare musicale, pittorico, ma anche certamente letterario) che negli anni Cinquanta era vivissimo nella capitale.

Era un ambiente molto caloroso di pittori e scrittori. C’erano le tavolate, molto simpatiche. Io mi sentivo assai ignorante. Dovevo adattarmi per via della mia formazione non italiana, anglo-francese-americana. Ma fu l’ambiente giusto che mi portò a scrivere.[45]

In questi due anni, rompe il fidanzamento con Mauro Misul e si avvicina a Carlo Levi, di trent’anni più grande e già sposato[46]. Intanto prende lezioni di composizione da Guido Turchi, stringe amicizia con Roberto “Bobi” Bazlen e, per cui tramite, inizia un percorso dallo psicanalista junghiano Ernst Bernhard[47].

Continua a lavorare per Olivetti che, venendo a conoscenza della sua propensione per lo studio della composizione musicale, fa in modo di trasformare l’impiego a mezza giornata di Amelia in una “borsa di studio” che potesse aiutarla nei suoi studi:

E per fortuna Adriano Olivetti mi conobbe – era stato amico di mio padre – e fece una domanda diretta: « Lei cosa intendeva… a cosa intendeva dedicarsi, se non avesse dovuto fare questo lavoro di traduzione», dall’inglese all’italiano o viceversa, mi pare; e io con imbarazzo, ho voltato la testa molto distinta, come fanno i tardivamente adolescenti, e ho detto «avrei studiato musica», e lui diradò gli impegni di lavoro e pian pianino si tramutò questo pagamento di lavoro per mezza giornata in borsa di studio, sotto sotto, che mi permise di… fino intorno… insomma, cominciò questo proprio intorno agli anni ’54, questa nuova libertà di non dover lavorare o esaurirsi nel tradurre.[48]

Sempre sul versante sentimentale-affettivo, chiusa la storia con Carlo Levi, Amelia conosce Mario Tobino, con cui mantiene i contatti fino al 1955, un altro legame sentimentale che manca di stabilità: anche questa volta trova un uomo di una ventina di anni più grande, già impegnato. Questo legame trova anche l’opposizione della nonna Amelia senior. Nonostante ciò, la storia tra i due va avanti per un po’, per Tobino Amelia sarà sempre “la Marion Rosselli”, come ormai si firmava nelle lettere dopo la morte della madre” e lo scrittore sarà anche al corrente di problemi di salute di Amelia[49].

Il 15 dicembre 1953 la vita di Amelia Rosselli viene segnata da un altro evento tragico: un infarto stronca prematuramente Rocco Scotellaro, a trent’anni. Inizia per Amelia, che a quel tempo aveva ventitré anni, un periodo di grande crisi. Il 14 gennaio 1954 scrive infatti al fratello John:

Ho sofferto del solito esaurimento nervoso di ritorno dalla Lucania […] Ho scritto ancora poesia in italiano […] prose piuttosto deliranti: strane, e scritte sempre in uno stato di trance […] ad occhi chiusi.[50]

La perdita di Scotellaro è la molla che la spinge a scrivere solo in italiano come, anni dopo, nel 1987, Amelia dichiara nuovamente in un’intervista:

Quando è morto, qualcosa è successo e dopo i funerali mi sono chiusa in casa per quindici giorni e ho cominciato a scrivere in italiano: non ho mai capito perché, ma forse lo so anche: era morto. Nel mito del migliore amico c’è qualcosa di vero; se ti muore il migliore amico – non l’amante o fratello vero –, qualcosa viene sconvolto. [51]

Il 1954 rappresenta l’annus horribilis nella vita di Amelia: la sua situazione psichica peggiora con sbalzi d’umore, scenate e momenti di esaurimento nervoso e, durante l’estate, viene ricoverata in una clinica a Roma. Qui, contro il volere dei familiari, subisce il primo elettroshock. Su raccomandazione di Bernhard viene trasferita in una clinica svizzera, il Sanatorium Bellevue, dove rimarrà per un anno e mezzo. La diagnosi è quella di schizofrenia paranoide[52].

Durante il ricovero nella clinica svizzera, scrive molto: comincia la stesura di Sanatorio 1954 (poi pubblicato nei Primi Scritti) e inizia a lavorare sulla teoria alla base di quello che si rivelerà essere il saggio Spazi Metrici. Ne parla via lettera al fratello John come “un’invenzione che fonda musica e scrittura e che renda possibile farlo sulla macchina da scrivere”[53]. A breve subentra un altro trauma per Amelia: mentre è ancora ricoverata in Svizzera, in Italia il 26 dicembre 1955 muore sua nonna Amelia Pincherle Rosselli.

Amelia rientra a Roma nel 1956 ed è tenuta sotto osservazione da Bernhard. In tutto questo continua a lavorare come “un’ape operosa”[54]: continua i suoi studi di etnomusicologia, legge molta poesia, inizia a lavorare ai Primi Scritti, mette insieme quello che poi diventerà Diario in Tre Lingue, e ancora October Elizabethans in inglese e Le Chinois à Rome in francese.

Il 25 aprile 1957 sopraggiunge un nuovo attacco di ansia e di “visioni”, come le chiama Amelia stessa. Entra così una seconda volta nella clinica del primo ricovero a Roma, ma Bernhard suggerisce di mandarla in Inghilterra, dove poteva essere curata da Rudolf Karl Freudenberg, specializzato nella cura della schizofrenia. La degenza dura qualche mese e a fine agosto Amelia firma per le dimissioni volontarie, soggiorna per poco ospite di John, ma a settembre rientra in Italia.

Il 1958 continua a essere un anno pieno per quanto riguarda la presenza della musica nella vita di Amelia Rosselli, ma è anche il momento in cui fanno capolino le prime pubblicazioni letterarie. Si racconta così a John nel maggio di quell’anno:

Quanto al lavoro: ho spedito un libro di poesia in Italiano all’Editore Vallecchi, circa un mese fa. Sembrano interessati, e mi hanno chiesto l’appendice che ho compilato insieme con il libro: per il momento non ho nessuna risposta per la pubblicazione: non credo che lo vorranno, però: ma ho due o tre mezze offerte per la pubblicazione con editori non meno importanti. Le cose procedono molto lentamente tuttavia. Intanto continuo a scrivere, e a studiare.[55]

In questo periodo (1958) compone in poco tempo anche il poemetto La Libellula, su cui ritorna a lavorare per anni per poi essere pubblicata nel 1966 sulla rivista «Nuovi Argomenti»[56].

La produzione letteraria procede e, a questa, Amelia affianca l’impegno politico con l’iscrizione al Partito Comunista Italiano, nonostante Bernhard glielo avesse sconsigliato per tutelare la sua salute mentale (“[…] era ostile alla mia iscrizione al PCI, aveva degli scatti di paura per me, affettuoso com’era per carattere”[57]). Frequentando attivamente la sezione del PCI di Trastevere, quartiere in cui ha vissuto e comprato casa, Amelia svolge lavoro di base[58] più che impegnarsi politicamente in prima linea.

La musica continua a essere il faro nella vita di Amelia anche per l’anno seguente, in cui arriva a collaborare persino con John Cage (e non dimentica un aneddoto che la vede coinvolta nell’intonare un canto gregoriano a cui il pubblico rispose gridando “Amen” e la cosa sembrò non fare per niente piacere a Cage[59]). Nel mentre si propone ancora come poeta alle case editrici: in una lettera del 27 novembre 1959 consegna a Einaudi una breve presentazione in cui si dice “compositrice e teorica nel campo della musica contemporanea”[60].

Foto Dino Ignani

Anche il 1960 è un anno convulso nella vita di Amelia, caratterizzato da amicizie (tramite Bazlen, ad esempio, conosce la coppia di pittori Giacinta Del Gallo e Maurizio De Rosa, con loro passerà estati di villeggiatura tra la Versilia, Palinuro e Sperlonga durante gli anni Sessanta), ma anche periodi di grandi crisi e depressione, come testimonia una lettera al fratello John datata 20 aprile dello stesso anno in cui si lamenta di non avere fortuna sul piano amoroso, né ambizione[61]. La musica resta il suo rifugio, ma un altro ricovero in clinica la ostacola.

In un’altra lettera al fratello John, scritta a fine agosto dello stesso anno, Amelia tira le fila della propria vita con lucidità:

[…] Non pensavo che avrei raggiunto i trent’anni; avevo pensato di dover salvare la mia esistenza a diciott’anni, sperando per il meglio anno per anno; la musica in un certo senso l’ha salvata, e anche la poesia: eppure mi sono fermata.[62]

A cavallo tra il 1961 e il 1962 Amelia non trova ancora un editore che la pubblichi. Riceve una proposta da Mondadori per Variazioni Belliche, ma le viene chiesto di contribuire alle spese, cosa che rifiuta: “rifiutai per principio”, dice, “non potevo permettermi di fare la dilettante”[63].

Fondamentale per la poesia di Amelia Rosselli, finalmente in via di pubblicazione, l’incontro con Pier Paolo Pasolini, tramite il cugino Alberto Moravia. Pasolini la propone a «Il Menabò» di Vittorini, su cui poi vengono pubblicate ventiquattro poesie con una postfazione curata da quest’ultimo[64].

Ed è stato ancora Pasolini a chiedere a Rosselli di lavorare al saggio Spazi Metrici, di cui Rosselli racconta bene la genesi in una conversazione con Alberto Toni, mettendo in luce le proprie preoccupazioni a riguardo dato che si trattava di una trattazione figlia di anni e anni di studio che, prima di quel momento, non aveva mai pensato di approfondire in quella forma. Così si legge nell’intervista:

Lì c’entra di nuovo Pasolini, perché parlando con lui del libro gli spiegavo la problematica metrica, naturalmente a voce, ma a voi non si è mai chiarissimi, per cui mi chiese di scrivere un breve saggio. Ero un po’ spaventata, perché si trattava di dieci anni di studio e di lavoro, che si erano risolti con la scoperta del mio sistema metrico. Il rapporto con la musica è relativo, perché da Pound e dagli imagisti queste sono le problematiche dei letterati e non dei musicisti. C’è un’esperienza musicale, ma uso una terminologia divulgativa. Faccio classificazioni che possono essere capite soprattutto dai letterati.[65]

Il 1962  è stato anche l’anno delle collaborazioni teatrali per Amelia, come nel caso di due spettacoli, Pinocchio e Majakovski di Carmelo Bene per cui compone e interpreta le musiche[66].

Finalmente i suoi lavori poetici iniziano a essere pubblicati: il primo, Variazioni Belliche, vede la luce nel 1964, mentre il secondo, Serie Ospedaliera, arriva cinque anni più tardi, nel 1969. Davanti alla genesi di due lavori poetici così complessi, Amelia Roselli ammette che

[…] il passaggio dal primo al secondo è stato un po’ tormentoso. Tutti forse arrivano a scrivere un libro, molti poi si fermano. Si deve saper decidere se quella di poeta è la propria giusta professione.[67]

È di questi anni la decisione di mettere da parte le proprie ricerche di musicologia, abbandonando anche i suoi studi da organista professionista per dedicarsi totalmente alla letteratura e al suo essere poeta. È un avvenimento questo che emerge dalla conversazione in compagnia di Marina Camboni, in cui Rosselli continua dicendosi consapevole della difficoltà della sua scelta in quanto sapeva che “di letteratura non si vive bene, salvo se si lavora nelle case editrici”[68]

L’estate del 1965 si rivela molto produttiva e le permette di andare avanti nella stesura di Sleep che terminerà l’anno successivo, ma per il quale Amelia si impegna a cercare in anticipo un editore in Inghilterra, anche attraverso il fratello John. Pur scoraggiata per la mancata risposta di Lawrence Ferlinghetti, continua la sua attività creativa su più fronti e, per farlo, legge molto[69]. È determinata a studiare e a lavorare con costanza e non solo: come confida in una lettera al fratello John, con cui si confida, è motivata, sul piano del suo particolare trilinguismo, a “tagliare quanto prima questo linguistico delirare, e attribuirgli meno importanza”[70].

Serie Ospedaliera è pronto a fine 1965 solo dopo essere sottoposto a un grande lavoro di lima (come accade del resto in tutte le opere di Amelia Rosselli) che la porta a cassare quasi la metà dello scritto originario prima di presentarlo a Pasolini e alla casa editrice Garzanti[71].

Conoscere Dacia Maraini, allora compagna di Moravia dopo Elsa Morante, fa sì che Amelia cominci a essere presente più assiduamente nei salotti letterari romani[72]. In queste occasioni si imbatte in diverse personalità dell’ambito, tra cui Giacomo Debenedetti e Dario Bellezza, a cui affitta persino una stanza per qualche tempo in una convivenza che si rivela non idilliaca[73]. Nonostante queste divergenze è proprio grazie a Bellezza che Rosselli entra in contatto con gli intellettuali che si incontrano alla Libreria Ferro di Cavallo – tra questi Renzo Paris, suo amico per tutta la vita e autore di un memoir di recente pubblicato dedicato proprio ad Amelia e ai suoi fantasmi[74] e Biancamaria Frabotta.

Per il resto continua sempre a fare (scrivere febbrilmente) e a disfare (come già detto non si fa problemi nell’eliminare parti della sua opera che le sembrano “cattiva poesia”[75]).

Per quanto riguarda il rapporto con il Gruppo 63 e la neoavanguardia, Amelia, che aveva partecipato ai loro incontri, nell’intervista rilasciata a Spagnoletti si esprime così, non nascondendo un certo distacco:

Ho ricordi vaghi, non mi sono mai messa in mostra. Stavo a sentire, tutto quel chiacchiericcio critico era un po’ pesante. Scoprivano Pound, Joyce e tanti altri che io avevo letto mille volte, che io avevo scoperto tanti anni prima, per via della mia formazione non italiana.[76]

E ancora:

Mi invitarono a partecipare alle loro riunioni. Credo tramite Falzoni, pittore e poeta surrealista. Ma mi preoccupai di non entrare in polemiche ufficiali o ufficiose. Mi interessavo a loro, ma anche ci pensavo su. Difatti una leggera presa in giro l’ho fatta in certe poesie allusive del mio volume Primi Scritti. L’unico poeta al quale mi sentii vicina, e che mi influenzò, fu Antonio Porta. I suoi primi libri mi piacevano, m’incuriosiva la sua astrazione elegante.[77]

In realtà, in una lettera a John Rosselli successiva al quarto incontro del Gruppo 63 che si è tenuto a La Spezia dal 10 al 12 giugno 1966, si dimostra anche molto più diretta e apertamente delusa, confessando al fratello “avanguardia orribile commerciale che io avevo distrutto con cinque orribili interventi al microfono”[78]. In quell’occasione, però, incontra Renato Guttuso, con cui al tempo Amelia ebbe una relazione sentimentale mai stabile.

Come, purtroppo, per niente stabile è la sua condizione di salute. In più le sembra invalidante avere diritto a una pensione di guerra, così come essere sotto la tutela del fratello maggiore. Uno sfogo molto violento contro quest’ultimo la porta a un nuovo ricovero[79].

Nonostante tutte le difficoltà, il 1967 è l’anno dei numerosi contatti con gli editori (Feltrinelli, Einaudi, Alfieri, questi sono i nuovi, dopo la precedente rottura con Garzanti), della collaborazione con Paese Sera (attiva fino al 1978) e di un memorabile incontro a Roma al teatro del Porcospino[80]:

Ma le sensazioni più forti le riportate al teatro Porcospino. Un pubblico molto attento. Leggevamo Porta, Pasolini, la Maraini, ed io. E si riusciva a toccare il pubblico. A Castelporziano era molto faticoso, con un pubblico divertito, critico, strano…[81]

In questa stessa intervista rilasciata ad Andreoli nel 1980, Rosselli fa una considerazione importante. Da sempre, nell’opinione pubblica, si è stati spinti a idealizzare la cultura, la letteratura e, nel caso specifico, la poesia, perdendo di vista il fatto che per l’intellettuale, letterato, poeta la propria attività potesse essere fonte di guadagno. Rosselli ora dice senza mezzi termini: ho partecipato a delle letture perché mi pagavano per questo, ne avevo bisogno per vivere. Sappiamo bene, ormai, dalle proprie vicende biografiche quanto avesse necessità di lavorare e le difficoltà incontrate durante il suo percorso, la dichiarazione che si può leggere più avanti nell’intervista è esempio di grande onestà intellettuale.

Così anche quest’anno a piazza di Siena ho aderito perché mi pagavano. Anche un poeta ha diritto a vivere. Ma non è aumentato il pubblico che acquista libri di poesia. C’è un aumento di giovani che scrivono, questo sì. Gli ultimi arrivati si sono buttati sulla poesia con un’aggressività (o avidità) che la mia generazione non conosceva[82].

Arriva poi il Sessantotto, ma Amelia decide di non prendervi parte, non in prima linea. Preferisce quindi rifugiarsi nei dintorni di Roma, in località Campagnano, ospite di Ferruccio Nuzzo – conosciuto come il Matteo del Vangelo secondo Matteo di Pasolini, ma anche studioso di musica e matematica[83].

Pur manifestando qualche criticità, che la porta ad avvicinarsi alla frangia dissidente del partito, Rosselli continua a collaborare col PCI, partecipa all’apertura del Centro Culturale e Ricreativo della sezione di Trastevere, occasione in cui tiene con successo un incontro pubblico dedicato al tema della poesia[84].

Sul versante dei nuovi scritti poetici, continua a lavorare a Documento, da lei inizialmente definito “un mucchio di quasi 600 pagine (alcune di esse solo esercizi di scrittura) scritte in questi ultimi 2 anni” di cui è motivata a tenerne, a salvarne un decimo, senza fare mistero a suo fratello John di essere comunque spaventata da quella parte pubblicabile, “i miei gusti stanno diventando terribilmente severi”, dice e ipotizza altri due anni di lavoro prima di una possibile pubblicazione[85].

Il 1969 è l’anno in cui viene pubblicata Serie Ospedaliera ed è anche il momento in cui le voci sentite nella testa da Amelia si acuiscono: “La sua malattia era, al solito, la CIA, a cui si accompagnavano il SID e la P2 e altri servizi segreti, che non le avevano perdonato la discendenza da suo padre Carlo”[86].

«Il paese ha perso la sua attrattiva e mi sento a casa solo quando sono all’estero» e ritorno (1970-1988)

Negli anni Settanta si continua a vedere accentuate le crisi causate dagli atti persecutori di cui si sente vittima Rosselli, che anche sul versante economico ha delle difficoltà, pur continuando a rifiutare la pensione di guerra e altri sussidi perché non sopportava di essere considerata inabile al lavoro[87]. Anni dopo, nel 1990, nel rispondere alle domande di Vilma Costantini, Amelia dimostra di aver cambiato idea a riguardo:

Dopo molti anni di attesa sono riuscita a ottenere la pensione di guerra come profuga: quattrocentonovanta mila lire al mese. Non potendo vivere con questa somma, sono costretta ad accettare tutti gli inviti di letture poetiche e i piccoli lavori retribuiti. Ma ciò mi stanca molto.[88]

Nell’aprile del 1976 esce Documento, dodici poesie, il suo terzo libro. In concomitanza con l’uscita delle bozze, confessa in una lettera al fratello John[89] di sentirsi sempre meno legata all’Italia, motivo per cui va a vivere per qualche tempo a Londra. Le crisi e le visioni non cessano.

Un anno dopo, nel 1977, dopo un primo periodo di ricovero in una clinica inglese in cui Amelia si sottopone di nuovo e volontariamente a sedute di elettroshock[90], un breve viaggio in Italia per ritirare un premio[91] le fa maturare il desiderio di stabilirsi ancora a Roma. Qui, sul numero di ottobre-novembre della rivista «Nuovi Argomenti» esce Storia di una malattia, un resoconto molto lucido in cui descrive, lasciando la parola esclusivamente ai fatti, la sua esperienza di schizofrenia paranoide, piena di voci e visioni.

La poesia non l’abbandona mai e, in un periodo pieno di sue presenze e letture pubbliche, la mattina dell’8 dicembre 1979 compone di getto, nell’arco di una sola mattina, il poemetto Impromptu, poi pubblicato nel 1981 dall’editore San Marco dei Giustiniani con un’anteprima su «Nuovi Argomenti». Per Impromptu le viene assegnato il Premio Pier Paolo Pasolini, alla sua prima edizione.

Io vorrei farlo leggere da qualcuno, non tutto, è molto più breve, è molto più denso, molto più tecnico. È quello che si direbbe post-moderno e so che poi ha un richiamo, specie nell’ortografia, a Leopardi, nella sua malinconia forse, nella sua asprezza; nel suo sperimentalismo è riassuntivo del lavoro che ho fatto precedentemente.[92]

L’attività poetica continua prolifica: dopo ben quattro per lei estenuanti giri di bozze[93], a settembre 1980 esce per Guanda Primi scritti, una raccolta di prosa e versi scritti tra il 1952 e il 1963. A questo segue, nel 1983, un’altra raccolta Appunti sparsi e persi che pubblica con una piccola casa editrice, la cooperativa Aelia Laelia, e che contiene scarti e frammenti poetici risalenti al decennio 1966-1977.

Amelia Rosselli ha molto amato Sylvia Plath e il 1985 è l’anno che la vede impegnata nella traduzione e nella curatela, insieme a Gabriella Morisco, della raccolta di versi della poeta americana, Le muse inquietanti e altre poesie. In questa occasione, in un’intervista, Rosselli non manca di fare una critica alla precedente traduzione a cura di Giovanni Giudici, a suo dire ragionevolmente lontano dalla sensibilità di Plath.

[…] Ha imposto il suo stile. Ho notato inoltre che ha scelto tutte le poesie più biografiche e scettiche, al punto da risultare aspre e deluse. Diventa addirittura antipatica. Non sono queste le più belle poesie. In quelle scelte da me, come anche in quelle della Morisco, c’è più pienezza di vita, senso della natura. Sono poesie più sonore, più agréables. Poi credo che sia più facile per una donna amare la Plath.[94]

Del lavoro creativo portato avanti in quegli anni, in un’intervista con Pasqualina Deriu, Rosselli rivela:

Ho pubblicato Impromptu e Antologia poetica: per quest’opera ho dovuto aiutare molto Giacinto Spagnoletti che ne è il curatore. Ho notato che, di media, scrivo un libro ogni sette anni. Non scrivo dall’ ’80, salvo qualche presentazione e siamo nel ’95. In futuro si vedrà… Ho scritto abbastanza.[95]

L’Antologia poetica curata da Spagnoletti ed introdotta da un saggio di Giudici esce nel 1987 per Garzanti e raccoglie gran parte dell’opera poetica di Amelia Rosselli. Per la stessa, a Rosselli viene riconosciuto l’anno seguente il Premio Chianciano, la cui cerimonia di premiazione viene trasmessa dalla RAI. La motivazione del premio è letta da Dario Bellezza, ritira il premio da Giorgio Caproni:

Amelia Rosselli, con questa Antologia poetica edita da Garzanti, sigla una carriera importante di poetessa di valore internazionale. Non è il caso di fare qui graduatorie di merito ma certo Amelia Rosselli occupa un posto importante nella poesia italiana del secondo Novecento, d’importanza anche storica perché la poetessa è stata una delle muse del Gruppo 63, pur non confondendosi completamente con la neoavanguardia. Sicché possiamo dire che partendo da Variazioni Belliche del 1964 per arrivare ai nostri giorni, Amelia Rosselli ha potuto compiere un grande tragitto di poetessa sperimentale che si confronta con gli assoluti del linguaggio e della vita. Suoi maestri restano Campana e Montale ma il suo vero punto di riferimento è Kafka. Non dobbiamo però nascondere il suo versificare dietro le scommesse del linguaggio e della scrittura perché il vero mondo della poesia della Rosselli è l’amore.[96]

Sulla parte finale della motivazione addotta da Bellezza[97], quella che vede la poesia di Rosselli come poesia d’amore, lei stessa in seguito ha modo di ribattere.

Sì. Può darsi che sia una poesia d’amore, non mi son posta il problema, cioè fa parte dell’esperienza dell’amore, in che senso? In senso generico: amare l’esperienza, amare la vita, non molto più di così.[98]

Gli ultimi anni (1989-1996)

«Non pensavo di vivere a lungo, credevo romanticamente di bruciarmi entro i quarant’anni al fuoco di un rischio troppo grosso qual è stato la scelta della mia vita»[99]

Sul finire degli anni Ottanta, Amelia Rosselli continua i suoi tour di letture poetiche, mentre l’inizio degli anni Novanta la vede impegnata di nuovo nella traduzione: la Fondazione Piazzolla le affida una selezione di un poeta ancora inedito in Italia, Paul Evans, raccolta che esce nel 1991 come Dialogo tra un Poeta e una Musa[100].

L’anno successivo esce per Garzanti un’edizione ampliata di Sleep. Poesie in inglese, con traduzione di Emmanuela Tandello, preceduta da un’anteprima in rivista per «Poesia».

I testi di Sleep li ho riuniti nel ’66, per mostrarli agli amici. Li consideravo assolutamente privati. […] Penso sia un libro un po’ campato in aria, della mia gioventù; un po’ sopra la realtà italiana, politica o sociologica che sia. Ne è lontano perché è frutto di letture (dai poeti elisabettiani a Pound, Cummings), di studi e di riflessioni. […] Il contenuto complessivo nasce da quattro o cinque temi non autobiografici. Le poesie più interessanti rifuggono dai modi personalistici e femminili. È ravvisabile in Sleep una componente mistica, decisiva nella mia gioventù e dovuta alla morte dei genitori.

In un’intervista a Maria Pia Ammirati del 1995, Rosselli racconta il lavoro svolto sui versi elisabettiani di Sleep insieme a Tandello:

In ogni caso la traduzione di Sleep è stata faticosa perché si è protratta per molto tempo e tutte le volte che io e la traduttrice abbiamo interrotto per un po’ lo scambio sulle poesie io perdevo il ritmo della sua traduzione e dovevo riabituarmi. Anche per questo alla fine ho deciso di limitare al minimo i miei interventi e le mie correzioni e di limitarmi a suggerimenti più generali, come quello di seguire una traduzione più letterale possibile seguendo il ritmo degli enjambement. Rimangono, per questo, sostanziali differenze fra le mie poesie in lingua inglese e le traduzioni in italiano della Tandello, per esempio io ho delle chiuse un po’ brusche, mentre lei, che è anche poeta in proprio tende ad addolcirle.[101]

Gli ultimi anni di Rosselli sono difficili, poiché il disagio psichico arriva a pietrificarla, al punto da diventare fisicamente tangibile, tuttavia questo non frena i suoi lavori e qualche apparizione pubblica, sebbene Amelia ormai non fa mistero di aver sempre preferito una dimensione più appartata e isolata.

Ci son momenti che veramente ci sentiamo tutti… dobbiamo rintanarci in casa e non accettare inviti mondani e nessuno per un bel pezzo, perché si sta meglio in sé stessi. Io vivevo a Firenze prima di Roma e lì c’era molta pressione da parte non proprio dei familiari, che era mia nonna dell’ambiente di “sistemarmi” come si suoleva dire. Sono sgusciata fuori. […]  Io correvo, correvo per rimetterti al passo dei miei coetanei perché chi ha fatto l’università ha molto da insegnare, così si pensa ascoltandoli. E dunque la solitudine serviva, non era tanto spaventevole la solitudine.[102]

Amelia Rosselli muore a Roma l’11 febbraio 1996, gettandosi dal balcone del suo appartamento in via del Corallo a Trastevere. Davanti alla sua bara, il 16 febbraio alla Casa della cultura,  indimenticabili le parole di Biancamaria Frabotta nel dirle addio:

Con la Storia che le ha marchiato i suoi segni sul corpo, prima ancora che nella mente. Dietro la sua poesia-amore avanzano la persecuzione politica, l’assassinio, la tragedia del conflitto più violento di un secolo ormai alla fine. La sua lingua, dissennatamente poliglotta, ne è stata disarticolata, ma quanto dilatata! Con Amelia se ne va l’ultima vittima di un secolo divoratore dei suoi poeti.[103]

Qualche spunto per conoscere meglio le opere di Amelia Rosselli ci arriva sicuramente dalle interviste e dai contributi a video disponibili su Rai Play e, nel mio piccolo, ho cercato di darle voce grazie a un piccolo progetto su Twitter, amelia rosselli out of context.

Foto da Scrittrici del ‘900. Amelia Rosselli sulla poesia a Babele – RaiPlay


Note bibliografiche

[1] Da una lettera di Carlo Rosselli alla madre Amelia Pincherle Rosselli datata 30 marzo 1930 e riportata nella Cronologia a cura di De March S. e Giovannuzzi S. in Rosselli A. L’opera poetica, «I Meridiani», Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2012 p. XLV.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Raccolta a cura di Venturini M. e De March S., È vostra la vita che ho perso. Conversazioni e interviste 1963-1995, Casa Editrice Le Lettere, Firenze 2010.

[5] Da Variazioni Belliche in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., p. 46.

[6] Intervista a stampa Ho scritto abbastanza (1995) in dialogo con Pasqualina Deriu, riportata in È vostra la vita che ho perso, op. cit., p. 172.

[7] “No, i miei genitori parlavano in italiano. Io son nata a Parigi, mio padre era esule durante il fascismo a Parigi, è scappato dall’isola di Lipari; sua moglie era di origine inglese; e io son nata a Parigi e nell’ambiente la parlata era francese fino ai miei nove anni.”, dall’intervista a voce Paesaggio con figure (1992) in dialogo con Gabriella Caramore (e la partecipazione di Alfonso Berardinelli, Arnaldo Colasanti, Emmanuela Tandello e Andrea Zanzotto), ivi p. 267.

[8] Per ulteriori approfondimenti storico-biografici sull’assassinio dei fratelli Carlo e Nello Rosselli si vedano i volumi di Fiori G., Casa Rosselli. Vita di Carlo e Nello, Amelia, Marion e Maria, Einaudi, Torino 1999 e Rosselli Aldo, La famiglia Rosselli. Una tragedia italiana. Castelvecchi, Roma 2014.

[9] Intervista in voce Non è la mia ambizione essere eccentrica (1987) in dialogo con Guido Galeno e Orazio Converso riportata in È vostra la vita che ho perso, op. cit., p. 202.

[10] Intervista a stampa Fatti estremi (1987) in dialogo con Giacinto Spagnoletti, op. cit., ivi p. 79.

[11] Ibidem. Come detto sopra, è un aneddoto ricorrente, raccolto in diverse interviste, come in questa di Spagnoletti: “Mia madre chiamò Andrea e me. Non so se avesse già parlato con Giovanni Giacomo (John), il fratello maggiore, suppongo di sì. Di circa due anni maggiore di me, egli era già molto maturo. Ci chiamò in camera sua. Lei era a letto, ricordo, con aria abbattuta, di donna provata. Ma fondamentalmente calma. Ci domandò: «Sapete cosa vuol dire la parola assassinio?»”.

[12] Amelia Rosselli ha origini ebraiche per parte di padre. Suo nonno era il compositore livornese Joe Nathan Rosselli, sua nonna Amelia senior era una veneziana, donna colta ed autrice di teatro, nonché appassionata di religioni seppur nel suo ateismo, in particolare per quanto riguarda “una sorta di sincretismo fra ebraismo e cristianesimo”, si veda la Cronologia a cura di De March S. e Giovannuzzi S. in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., pp. XLV-XLVI.

[13] In riferimento agli anni 1938-1940 sono riportati tutti gli spostamenti della famiglia Rosselli tra Svizzera, Inghilterra (Quainton e Cambridge) prima di partire per l’America, ivi pp. LII-LIII.

[14] Intervista a voce Paesaggio con figure (1992) in dialogo con Gabriella Caramore in È vostra la vita che ho perso, op. cit., pp. 267-268.

[15] “Ricordo che durante il viaggio, ad un certo punto, mia nonna ci legò, tutti noi nipoti, intorno a lei con una corda mentre la nave si sbilanciava qua e là tra le onde…” in Fotobiografia. Conversazione con Aldo Rosselli, a cura di Siriana Sgavicchia, già apparsa nel Dossier Amelia Rosselli del «Caffè Illustrato», n. 13-14, luglio-ottobre 2003 e pubblicata in Cortellessa A. (a cura di), La furia dei venti contrari. Variazioni Amelia Rosselli con testi inediti e dispersi dell’autrice, Casa Editrice Le Lettere, Firenze 2007.

[16] Si veda la Cronologia a cura di De March S. e Giovannuzzi S. in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., pp. LII-LIII.

[17] Ibidem.

[18] Intervista a voce Paesaggio con figure (1992) in dialogo con Gabriella Caramore in È vostra la vita che ho perso, op. cit., p. 269.

[19] Amelia Rosselli ha ricevuto una primissima formazione in francese durante l’infanzia parigina (cfr. nota 7), per poi conseguire negli anni ben due diplomi di maturità, uno in America e l’altro in Inghilterra, titoli di studio che non le sono stati mai riconosciuti in Italia.

[20] Intervista a stampa Poesia non necessariamente ascientifica (1988) in dialogo con Ambrogio Dolce, ivi p. 103.

[21] Intervista a stampa Figli della guerra (1990) in dialogo con Paola Zacometti, ivi p. 116-117.

[22] Da tenere a mente in che misura il trauma familiare di Amelia Rosselli abbia influito sulla propria salute mentale. 

[23] “Ancora adesso, a distanza di tanti anni dalla sua morte, io so, perché la vivo in prima persona, che c’è in atto una persecuzione del nome Rosselli”, come si legge nell’intervista a stampa che proprio da questa dichiarazione di Rosselli prende il titolo La persecuzione del nome Rosselli (1999) in dialogo con Cetti Addamo, op. cit., ivi p. 99.

[24] Frammento di una conversazione di Amelia Rosselli e Rocco Scotellaro riportato da Sandra Petrignani nell’articolo In ricordo di Amelia Rosselli uscito su «Il Foglio» il 7 ottobre 2012

[25] Nella Cronologia a cura di De March S. e Giovannuzzi S. in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., pp. XIV.

[26] Ibidem.

[27] Ivi p. LVI.

[28] Ivi p. LVII.

[29] Intervista a stampa Partitura in versi (1992) in dialogo con Francesca Borrelli in È vostra la vita che ho perso, op. cit., p. 145.

[30] Intervista a voce Ho fatto la poeta (1993) in È vostra la vita che ho perso, op. cit., pp. 332.

[31] Nella Cronologia a cura di De March S. e Giovannuzzi S. in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., pp. p. LVIII.

[32] In Fotobiografia. Conversazione con Aldo Rosselli, a cura di Siriana Sgavicchia in Cortellessa A. (a cura di), La furia dei venti contrari, op. cit., p. XVII.

[33] Ibidem. Si veda anche la Cronologia a cura di De March S. e Giovannuzzi S. in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., p. LIX.

[34] In una lettera di John Rosselli alla madre si legge: “studia sempre la musica con assiduità, ma il resto del tempo è tutta presa con Mauro, dal quale non vuole essere separata quasi per un attimo. […] La nonna favorisce piuttosto un matrimonio entro quest’anno, non che lo trovi consigliabile in se stesso, ma perché è dominata (troppo secondo me) dalla paura del baby on the doorstep datale da questo appassionato che sentono quei due e che li fa stare insieme una buona parte del tempo. Questo veramente non mi fa tanto effetto: Mauro mi pare una persona seria. Melina stessa vorrebbe sposarsi entro la fine dell’estate.” – si veda la Cronologia a cura di De March S. e Giovannuzzi S. in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., ibidem.

[35] Ivi pp. LIX-LX.

[36] Ibidem.

[37] Intervista a stampa In nome del padre (1994) in dialogo con Paolo Di Stefano in È vostra la vita che ho perso, op. cit., p. 155.

[38] Ivi, pp. 150 – dall’intervista a stampa In una noce protettiva (1993) in dialogo con Laura Detti.

[39] Si veda Fotobiografia. Conversazione con Aldo Rosselli, a cura di Siriana Sgavicchia in Cortellessa A. (a cura di), La furia dei venti contrari, op. cit., p. XV.

[40] Nella Cronologia a cura di De March S. e Giovannuzzi S. in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., pp. LX.

[41] Intervista a stampa Fatti estremi (1987) in dialogo con Giacinto Spagnoletti, op. cit., p. 79. Anche nell’intervista Poesia non necessariamente ascientifica (1988) in dialogo con Ambrogio Dolce, p. 102.

[42] Intervista a stampa Luci per Amelia (1987) in dialogo con Laura Lilli, op. cit., ivi p. 92.

[43] Nella Cronologia a cura di De March S. e Giovannuzzi S. in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., p. LXII.

[44] Ibidem.

[45] Ivi p. LXIII. Anche in È vostra la vita che ho perso, op. cit., p. 65 – intervista a stampa Il dolore in una stanza (1984) in dialogo con Renato Minore.

[46] Ancora nella Cronologia a cura di De March S. e Giovannuzzi S. in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., p. LXIII-LXIV.

[47] Questa volta si fa riferimento alla Cronologia della vita e delle opere in Baldacci A., Amelia Rosselli. Una disarmonia perfetta, Editori Laterza, Bari-Roma 2007, p. 168.

[48] Intervista a voce Paesaggio con figure (1992) in dialogo con Gabriella Caramore in È vostra la vita che ho perso, op. cit., p. 287.

[49] Sempre dalla Cronologia a cura di De March S. e Giovannuzzi S. in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., p. LXVII-LXVIII.

[50] Lettera di Amelia Rosselli al fratello John è datata 14 gennaio 1954, ivi, p. LXX.

[51] Ivi e leggibile integralmente nell’intervista a stampa Per fuggire gli addii (1987) in dialogo con Silvio Perrella in È vostra la vita che ho perso, op. cit., p. 96.

[52] Ivi p. LXXI.

[53] Lettera indirizzata a John Rosselli e datata 5 luglio 1955, ivi p. LXXII.

[54] Come scrive nella lettera indirizzata sempre al fratello John dell’ottobre 1956, ibidem.

[55] Altra lettera indirizzata sempre a John Rosselli, suo tutore, ivi p. LXXV.

[56]  In Cronologia della vita e delle opere in Baldacci A., Amelia Rosselli. Una disarmonia perfetta, op. cit., p. 168.

[57] Intervista a stampa Fatti estremi (1987) in dialogo con Giacinto Spagnoletti, op. cit., p. 88.

[58] Intervista a stampa Tradurre se stessi (1992) in dialogo con Paolo Di Stefano, op. cit. ivi p. 139.

[59] Intervista a stampa Partitura in versi (1992) in dialogo con Francesca Borrelli, op. cit., ivi p. 145

[60] In Cronologia a cura di De March S. e Giovannuzzi S. in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., p. LXXVII.

[61] Ibidem.

[62] Lettera indirizzata a John e datata 27 agosto 1960, si veda la Cronologia a cura di De March S. e Giovannuzzi S. in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., p. LXXVIII.

[63] Intervista a stampa Fatti estremi (1987) in dialogo con Giacinto Spagnoletti, op. cit., p. 83.

[64] “Pasolini scrisse una bellissima postfazione a ventiquattro poesie di Variazioni Belliche sul Menabò. Per Pasolini “lapsus” voleva dire l’uso di un’espressione del tutto inconscia. Ma secondo me non si poteva parlare di lapsus, perché non c’era nulla di inconscio nell’atteggiamento salvo qua e là” – intervista a stampa Il ritorno al volo (1987) in dialogo con Alberto Toni, op. cit., p. 76-77.

[65] Ibidem.

[66] Nella Cronologia della vita e delle opere in Baldacci A., Amelia Rosselli. Una disarmonia perfetta, p. 168.

[67] Intervista a stampa è molto difficile essere semplici (1981) in dialogo con Marina Camboni, op. cit., p. 49

[68] Ibidem.

[69] In Cronologia a cura di De March S. e Giovannuzzi S. in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., p. XCVI.

[70] Ibidem.

[71] Ivi p. XCVII – da una lettera indirizzata al fratello John del 13 settembre 1965, in cui facendo riferimento alla chiusura di Serie Ospedaliera Amelia Rosselli lo definisce pronto solamente “dopo aver tagliato quasi una metà del materiale originario”.

[72] Ibidem.

[73] “Aldo Braibanti le presenta Dario Bellezza, che è in cerca di alloggio, e la Rosselli gli affitta una stanza. La convivenza si rivela presto difficile: Amelia accusa Bellezza di sottrarle libri e soprattutto è gelosa degli amanti che il poeta le porta in casa. Ne nasce un’amicizia astiosa, testimoniata dalle poesie della terza sezione di Invettive e licenze (1971), che Bellezza dedica interamente alla scrittrice.” – ibidem.

[74] Paris R., Miss Rosselli, Neri Pozza, Vicenza 2020.

[75] “Ho buttato via qualcosa come 150 pagine di cattiva poesia scritta gli ultimi tre mesi” – da una lettera indirizzata al fratello John del 17 giugno 1965, si veda la Cronologia a cura di De March S. e Giovannuzzi S. in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., p. XCVIII.

[76] Intervista a stampa Il dolore in una stanza (1984) in dialogo con Renato Minore, op. cit., p. 65.

[77] Intervista a stampa Fatti estremi (1987) in dialogo con Giacinto Spagnoletti, ivi, p. 87.

[78] Sempre nella Cronologia in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., p. XCLX.

[79] Ibidem.

[80] Ivi, p. CI.

[81] Intervista a stampa L’esperienza del reale collettivo (1980) in dialogo con Aurelio Andreoli, op. cit., p. 39.

[82] Ibidem.

[83] Ivi, p. CII.

[84] Ibidem.

[85] Ibidem – da una lettera indirizzata a John Rosselli datata 24 febbraio 1968.

[86] In Miss Rosselli, op. cit., p. 113, Renzo Paris (amico di lunga data di Amelia Rosselli) riprende la stessa Rosselli mentre confida: “La malattia era la CIA, il suo corrosivo o punto d’attacco il SID o l’Ufficio Politico o ambedue. La cura fu lunga e costosa e vi sono ricadute” come riportato nella Cronologia in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., p. CV.

[87] Ivi, p. CXI.

[88] Intervista a stampa La poesia è al centro della mia vita (1990) in dialogo con Vilma Costantini, op. cit., p. 133.

[89] “Roma non sembra più sopportabile, sebbene gli amici si stiano avvicinando ora che sto pianificando di andarmene” – da una lettera indirizzata al fratello John del 15 marzo 1976, si veda la Cronologia a cura di De March S. e Giovannuzzi S. in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., p. CXV.

[90] Ivi, p. CXVI.

[91] Amelia Rosselli torna in Italia per ritirare il Premio Indizi, ideato da Elio Pecora. Quel premio in denaro e l’attenzione ricevuta in quella circostanza dalla stampa la convincono a rientrare in maniera definitiva in Italia, ivi, p. CXVII.

[92] Intervista a voce Ho fatto la poeta (1995) a cura di Silvia De March, op. cit., p. 345.

[93] In una lettera al fratello John datata 17 settembre 1980 Amelia definisce le bozze di Primi Scritti come un “terribile lavoro di correzione dei refusi” – come riportato nella Cronologia in Rosselli A. L’opera poetica, op. cit., p. CXXIII.

[94] Intervista a stampa Stilisticamente sola (1985) in dialogo con Marco Caporali, op. cit., p. 70.

[95] Intervista a stampa Ho scritto abbastanza (1995) in dialogo con Pasqualina Deriu, op. cit., p. 179.

[96] Intervista a voce Solo il necessario (1988) in dialogo con Luciano Luisi e la partecipazione di Dario Bellezza, op. cit., p. 244

[97] Per non parlare poi dell’uso di “poetessa”, quando e ravvisabile che Rosselli preferisse riferirsi a sé stessa e alla propria attività come “poeta”.

[98] Ivi, p. 245

[99] Intervista a stampa Perduta in un bosco (1978) in dialogo con Sandra Petrignani, op. cit., p. 24.

[100] Intervista a stampa Pensare in tre lingue (1990) in dialogo con Marco Caporali, op. cit., pp. 113-114.

[101] Intervista a stampa Non si può diventare poeti forzati (1995) in dialogo con Maria Pia Ammaniti, op. cit., pp. 159.

[102] Intervista a voce La solitudine (1995) a cura di Silvia De March, op. cit., p. 352.

[103] In Frabotta B., Quartetto per masse e voce sola, Roma, Donzelli, 2009, p. 66.