Lo scenario
«La letteratura della Resistenza non arriva a nessuna scoperta letterariamente ed ideologicamente sorprendente». Eppure, tempo dopo: «Ci sono altri testi, invece, in cui il recupero della memoria [della guerra civile] è tutto in funzione dell’innovazione romanzesca. I risultati a mio parere sono sconvolgenti: gli assetti romanzeschi, anche quelli più aggiornati e vicini, ne risultano totalmente scardinati e ciò che ne risulta non assomiglia a nessun altro romanzo italiano del tempo. Mi riferisco ai Piccoli maestri (1964) di Luigi Meneghello e al Partigiano Johnny (1968, postumo) di Beppe Fenoglio». A parlare è Asor Rosa, a proposito della letteratura di Resistenza italiana. Tra la prima e la seconda frase passano quarant’anni. Cosa è accaduto nel frattempo? Il critico ha avuto modo di connotare, ma non di raggruppare, due outsider della letteratura civile: Meneghello e Fenoglio. Scrittori accomunati sotto il segno “dell’estraneità”, del rifiuto di ciò che il critico definiva “populista”, quell’attitudine dello scrittore che «va verso il popolo, ma il più delle volte, prima ancora di raggiungerlo concretamente e seriamente lo trasforma in mito, in immagine rovesciata di sé».
C’è da dire che già nel 1964 l’uscita del secondo libro di Meneghello, Piccoli maestri, non era comunque passata inosservata. Tra apprezzamenti e critiche, il punto era quasi sempre lo stesso: Meneghello proponeva una rappresentazione ribassata, non eroica, dell’esperienza partigiana. Secondo Baldacci lo scrittore, comico in senso pieno, non riuscì a non scadere nella spiritosaggine; per Squarotti «il distacco diviene divertimento, battuta, e la Resistenza, che vi è rievocata, diviene non più che goliardica avventura»; il “tono moqueur” e «il lusso di prendersi in giro» entrerebbero infine, secondo Anna Banti, «in urto evidente – e irritante – con la materia trattata». Ma si trattò di semplice goliardia, o di un progetto letterario preciso, diverso, percepito (seppur indirettamente) dallo stesso Calvino?
Negli anni Cinquanta […] il romanzo italiano prendeva il suo corso elegiaco- moderato-sociologico in cui tutti finimmo per scavarci una nicchia più o meno comoda (o per trovare le nostre scappatoie). Ma ci fu chi continuò sulla via di quella prima frammentaria epopea: in genere furono i più isolati, i meno “inseriti” a conservare questa forza.
Una letteratura di Resistenza nuova, pensata, distante, antieroica. Le intenzioni di Meneghello sono proprio quelle:
I piccoli maestri è stato scritto con un esplicito proposito civile e culturale: volevo esprimere un modo di vedere la Resistenza assai diverso da quello divulgato, e cioè in chiave anti-retorica e anti-eroica. Sono convinto che solo così si può rendere piena giustizia agli aspetti più originali e più interessanti di ciò che è accaduto in quegli anni.
Ma cos’è retorico secondo Meneghello? «È retorica tutto ciò che pare bello e non è vero». Ogni classificazione tra bene e male, tra giustizia e ingiustizia, coraggio e viltà, onore e disonore. In breve, è retorica ogni catalogo rassicurante. L’unico binario percorribile è quello del vero-falso; lo scrittore può solo essere leale verso la memoria, e lo è quanto più si distacca dalle dicotomie precedenti. Così Meneghello ci riporta al tempo in cui vero e falso esistevano ancora, sedimentati in fondo alle cose, noccioli semplici ma non facili attorno a cui far roteare il linguaggio. Ma con una fiducia tutta novecentesca, Meneghello attraversa anche i fantasmi del postmodernismo, discerne, lotta contro il manicheismo, ironizza, smaschera, sguinzaglia i suoi cavalieri a piedi, imbrattati col fango di Malo, confusi, col fucile in spalla, la camminata spavalda e la fronte bassa e pensosa.
La scrittura
La scrittura di Meneghello agisce in questo scenario. La sua è una prosa dalla spiccata capacità definitoria, rifinita ma non vanitosa. Lo sforzo è immenso, ogni frase è uno zoppicare verso l’osso delle cose. Le frasi sono ancora toccate da una ruvidezza paesana resa cordiale da un lirismo pieno, e l’accostamento di forme classiche e dialettali sorregge un intento epistemologico: la scrittura appare proprio come un «esercizio conoscitivo». Da questa rianimazione dell’esperienza, da questa ricorsività del vissuto non scaturisce un’appiccitaticcia nostalgia impastata, ma un analitico e clinico sguardo sulla realtà, sezionata anche tramite rivolgimenti linguistici:
Il mio interesse si basa invece sulla convinzione che qualunque frammento di esperienza, della nostra esperienza personale, per ordinaria che sia, contiene gli elementi costitutivi della realtà di cui fa parte: quasi lo schema essenziale, i semi del proprio significato, una specie di DNA del reale. Il lavoro che cerco di fare è di estrarlo e svolgerlo.
In una sola frase: «Scrivere è una funzione del capire». Scrivere è fare un passo indietro e uno in avanti, è un tentativo di scardinamento della realtà e allo stesso tempo il sintomo del bisogno di afferrarne il Tutto. Eppure, eppure si ripresenta il limite, la parola è strumento di cristallizzazione della Storia, della memoria, ed è allo stesso tempo un suo tradimento. Torna l’eterno ineffabile. Ciò che la scrittura permette di trattenere, soprattutto dal dialetto, è una fossilizzazione duratura ma morente di un nucleo vitale inafferrabile fino in fondo. In Maredè, maredè…, Meneghello scrive:
«I bambini storpiano le parole». Mah! Non sarà che lì traspaiono invece le accordature segrete?
Rete (sommersa) delle lingue possibili, che ogni creatura potrebbe parlare con suprema facilità se si parlassero attorno a lei.
Ce lo ricorda anche l’incipit di Libera Nos a Malo che conteneva, in potenza, questa poetica: «La forma dei rumori e di questi pensieri (ma erano poi la stessa cosa) mi è parsa per un momento più vera del vero, però non si può più rifare con le parole». Cosa resta da fare, strattonati da un lato dalla capacità conoscitiva dello scrivere, dall’altro dai suoi limiti di lingua morta esclusa dalla natura? Non resta che manipolare le lingue, utilizzare l’asetticità della pagina come un vetrino da laboratorio in cui torcere le parole per spremerne uno schizzo di realtà, un detrito rimasto incastrato nell’incontro tra la parola e il mondo. «Non sono cose da raccontare, si può solo comporre frasi».
Il dialetto, in questo senso, diventa la cavia perfetta da stritolare e innestare nell’italiano per giungere all’origine delle cose. Diventa il riflesso sonoro di uno scenario sociale aggrappato alla materia, al tatto: «Si sentiva che qui le cose erano venute prima delle idee, e la faccenda sembrava riposante». Il dialetto è la «schinca linguistica» che nasce da questo rapporto non mediato con la realtà:
Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto. C’è un nòcciolo indistruttibile di materia apprehended, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare, e non più sfumata in seguito dato che ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua. Questo vale soprattutto per i nomi delle cose.
Ma questo nòcciolo di materia primordiale (sia nei nomi che in ogni altra parola) contiene forze incontrollabili proprio perché esiste in una sfera pre-logica dove le associazioni sono libere e fondamentalmente folli. Il dialetto è dunque per certi versi realtà e per altri versi follia. […]. Da tutto sprizza come un lampo-sgantìzo, si sente il nodo ultimo di quella che chiamiamo la nostra vita, il groppo di materia che non si può schiacciare, il fondo impietrito.
In questo senso a volte la manipolazione del dialetto diventa un ritorno all’Origine insondabile, un modo per scrostare l’inflazionato italiano e tornare allo scheletro dei significati. In queste «variazioni linguistiche», in queste azioni di forza sul dialetto e sull’italiano per tornare al significato primordiale del linguaggio, sembra di ravvisare un’operazione simile a quella che Emilio Villa portò alle estreme conseguenze. In Linguistica Villa scrive:
[…] E non per questo celebro coscientemente il germe
sepolto, al di là,
e celebro l’etimo corroso delle iridi foniche,
l’etimo immaturo,
l’etimo colto,
l’etimo negli spazi avariati,
nei minimi intervalli,
nelle congiunzioni,
l’etimo della solitudine posseduta,
l’etimo nella sete […]
È un clamoroso manifesto di ciò che Villa fece: scompose una ricca molteplicità di lingue (non arrestandosi al dialetto), le miscelò, le fece reagire per raggiungere «l’etimo immaturo» e «l’etimo negli spazi avariati», ovvero ciò che resta dalla consunzione del linguaggio.
Anche in Poesia è leggiamo:
[…]
Poesia è terrorismo nel dominio della lingua,
è scoppio nella clausura del linguaggio
è terrore sul fondo delle retoriche
poesia è liberazione dalla conoscenza
fuga dal conosciuto
[…]
Poesia è scontro e incontro (spontaneo e
destinato) tra nevrosi e inconscio,
tra archetipo e Sé
anello monotono e perpetuato tra impulso
e ossessione
[…]
poesia è lotta contro la notte
poesia è notte contro la notte
Vale la pena citare Villa senza il terrore di uscire fuori tema. I due scrittori si parlano. Le parole di Villa, questa concezione della poesia da un lato come mezzo per raggiungere l’etimo, l’archetipo, e quindi la Realtà, e dall’altro come perdita di conoscenza, una «notte contro la notte», questa doppia faccia del linguaggio è la stessa che si ritrova nelle parole di Meneghello.
Ma se «scrivere è una funzione del capire» e allo stesso tempo «non si può raccontare, si può solo comporre frasi», come si esce da questa impasse? Come coniugare questi due aspetti contraddittori? E soprattutto, la loro convivenza è legittima? Pare di sì. Anzi, questa lingua biforcuta sembra la diretta espressione di una personalissima poetica, da cui scaturiscono anche l’ironia, il distanziamento necessario e la scrittura come cauterizzazione della memoria:
Questa piega è dentro di me, significa credere e non credere alle cose, significa volere e non volere. È un atteggiamento spontaneo, che ho sempre sentito vicino al processo di interpretazione, un atteggiamento che poi fornisce la chiave di ciò che nell’esperienza è autentico.
Sia l’ironia che la scrittura, in quanto processi di recupero e distanziamento, rappresentano quella che Meneghello percepisce come la «chiave di ciò che nell’esperienza è autentico». Ma come si coniugano questi due processi? La spinta conoscitiva e il rispetto per l’ineffabile? Attraverso una scrittura di tipo cumulativo.
L’indicibile come frammento
Per impugnare questi aspetti contraddittori, lo scrittore è costretto a spezzettare la Realtà, a dominarla un po’ alla volta. In questo senso, le frasi, gli aggettivi, i verbi e gli avverbi si stringono sulla pagina, convivono senza mescolarsi, separati da quei tipici punti e virgola che sembrano séparé linguistici, tentativi disperati di mettere ordine «perché tutto palpita in natura; sia pure su scala infinitesimale, e le cose sono fatte di piccole onde».
La sua scrittura è un continuo scontro di simmetrie, di parole pesanti come mattoni messe sul piatto della bilancia della prosa; vanno a fondo ma altri contrappesi, distribuiti nel resto della frase, si impongono per ripristinare l’equilibrio. A guardia di queste rispondenze interne, troviamo tutti gli elementi della frase, compresa la punteggiatura: «Gli approcci furono confusi e quasi insulsi: ma l’atto stesso fu pungente e netto». I due punti creano, anche a livello grafico, l’illusione di una proporzione. Da un lato troviamo i due aggettivi «confusi e quasi insulsi», dall’altro gli altri due «pungente e netto». I due piatti della bilancia. Al centro, a reggerli, i due punti.
A volte la punteggiatura serve a mettere in relazione, in altre occasioni i segni di interpunzione servono invece a isolare, a volte a imporre addirittura una cesura («Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle»). Questa cesura può trasformarsi addirittura in reticenza, può diventare la mannaia con cui Meneghello tiene a bada alcuni ricordi ancora teneri, ancora non elaborati, la retorica dell’eroismo, e una sanguinosa emotività che renderebbe molle e falso un episodio che, se intraducibile in parole rispettabili, merita almeno il rigore del silenzio. I destini tragici dei suoi compagni vengono annunciati con una breve e distratta anticipazione sul futuro degli amici, compressa tra due proposizioni:
È strano, di lui non ricordo quasi niente di preciso, solo che era scuro di pelle e di capelli, ben fatto, vivace. Quando fu trovato era già su uno spuntone e aveva l’arma vicino; all’ultimo momento, per non farsi prendere, era saltato dalle rocce e gli ucraini, perché erano ucraini in quel settore, non vollero o non riuscirono a scendere dov’era caduto, per cavargli almeno le scarpe e prelevare l’arma.
In tutti questi casi, troviamo una proposizione che funge da premessa, da “avrebbe potuto essere, sarebbe stato”, un segno di interpunzione (un séparé linguistico), e la realtà effettiva delle cose, detta in maniera frettolosa, quasi distratta, eppure col fiato mozzato dall’esigenza che la confessione finisca il prima possibile.
Si torna, ora, al punto di partenza, a questa lingua biforcuta che vuole dire tutto, accumula, mette in fila, ma schiocca quando trema dall’emozione. Torniamo a questo esercizio di dominio sulla lingua, che è anche esercizio di dominio sul mondo e sulla memoria (che son poi la stessa cosa); ma torniamo anche alla distanza programmatica, all’ironia, alla cesura, alla reticenza, al «realismo e l’impossibile», alla letteratura che è «terrorismo nel dominio della lingua, / è scoppio nella clausura del linguaggio / è terrore sul fondo delle retoriche».