Una cosa possiamo dirla senza paura di poter essere smentiti: Beck è uno che fa una fatica del cristo a ripetersi. O forse uno che fa una fatica del cristo per non ripetersi. Ad averne gli strumenti, bisognerebbe approfondire la questione, perché — non facciamoci ingannare dalla differenza grammaticale, che è minima — i due punti di partenza sono completamente diversi, quasi opposti. Da un lato ci sarebbe qualcosa che ha a che fare con una certa spontaneità, diciamo una propensione naturale, nell’altro invece si tratterebbe di una forzatura (auto)imposta, di un cambiare tanto per cambiare o — peggio ancora — perché si deve: una roba triste, nella migliore delle ipotesi. O magari, banalmente — come spesso accade — scivoleremmo senza graffi in quel limbo cerchiobottista a sussurrare serafici che la verità sta nel mezzo.
Qualcuno — risalendo l’albero genealogico del quale troveremmo sicuramente il ben più noto Niccolò di Bernardo dei Machiavelli — potrebbe dire chissenefrega, quel che conta è il risultato. Posizione, questa, del tutto rispettabile. Quindi ok, bando alla filosofia e andiamo al sodo senza porci troppe domande: a questo giro non è granchè. Il tanto atteso risultato, intendo.
Perché il cambiamento — soprattutto se fine a se stesso — è sopravvalutato e a testimonianza della cosa c’è un bello stuolo di band che han messo su una carriera dignitosissima a forza di album più o meno l’uno uguale all’altro. Ognuno ugualmente bello rispetto al precedente. Quella storia di chi lascia la strada vecchia per la nuova and so on: avete presente?
E nel caso specifico la puzza di cambiamento a prescindere era nell’aria ormai da tempo immemore, visto che il primo pezzo estratto da Colors risale a quasi due anni e mezzo fa. Dove “estratto” fa quasi sorridere, come espressione, considerando che l’assoluta segretezza riguardo alle notizie su quello che già si preannunciava come “il disco con cui Beck ci farà ballare” prima, e l’estenuante tira e molla sulla sua data di uscita poi, hanno fatto sì che oggi possiamo assegnare proprio a Dreams il premio come uno dei pochi singoli della storia a essere temporalmente più vicino al lavoro precedente che a quello in cui poi è effettivamente comparso. All’epoca infatti non c’era traccia (forse nemmeno nella mente di Beck, o forse sì — vedi il dubbio esistenziale da cui siamo partiti) delle altre canzoni che poi sono andate a completare la tracklist, al punto che molti pensarono che quello uscito a nome Beck Hansen fosse in realtà un nuovo pezzo degli MGMT. Buffo, perchè ora — col senno di poi — possiamo dire che invece che Dreams — infiocchettato tra la sua chitarrina liquida molto disco-funk, la batteria più upbeat ever e quel coretto “oh-ohoh-o-oh” di dubbio gusto — è uno dei pezzi che meglio riassumono, in cinque minuti, tutto il nuovo album. Nuovo album che, a sua volta, pare costruito attorno a — o quantomeno a partire da — quel pezzo, che così, da semplice operazione di marketing anticipata, si erge a seme fecondo, principio ispiratore, archè di questo nuovo Beck in versione party harder.
Sì, perché c’è un’altra cosa che possiamo affermare con quasi assoluta certezza: Beck è uno che fa una fatica del cristo anche a nascondere il suo stato d’animo. Nel senso, alzi la mano — e congratulazioni a lui — chi è riuscito ad attraversare le acque della melancholia sconfitta del buon vecchio Sea Change senza sentire il bisogno di impiccarsi con il cavetto delle cuffie, anche solo per immedesimarsi meglio nel mood del cantautore. Gli altri spero se la siano cavata lo stesso. Comunque, qui, la notizia — buona o cattiva decidete voi — è che Beck non fa niente per nascondersi nemmeno quando è felice, sollevato, euforico. Così nasce Colors, forse la release più accessibile, solare, spensierata, colorata — se mi permettete la banalità — e radio-friendly che sia mai uscita dalle mani dell’artista californiano.
E allora dove sta il problema? Cos’è che ci trattiene dal dire: tutto è bene quel che finisce bene e vissero tutti felici e contenti?
Niente, non c’è nessun problema e chiunque deve essere libero di poter gridare ai quattro venti la sua voglia di vivere. Se non che anche la felicità è sopravvalutata. Non tanto quella intima, personale — ci mancherebbe, del male non si augura mai a nessuno — quanto quella esposta, messa in vetrina in maniera più o meno prevenuta. E a testimonianza di questo c’è un bello stuolo di band che ha tirato su una carriera dignitosissima mettendo in fila tutta una serie di canzoni uber-tristi suonate guardandosi le scarpe. Ognuna uguale all’altra. Le canzoni dico, le scarpe non so.
Successore (ma, in termini di atmosfere e sonorità, dovremmo piuttosto dire figlio illegittimo — al punto di sospettare del classico idraulico) di quel Morning Phase che con il suo folk pastorale — non si sa ben come e contro ogni pronostico — riuscì a scippare il Grammy come Best Album del 2014 a Beyoncè (facendo incazzare non poco Kanye West), Colors è un album patinato, iper-prodotto e concepito per far ondeggiare certe masse sconfinate di teste durante i grandi festival estivi. Farà muovere il culo sulle piste delle discoteche indie — anche se di indie ha ben poco — e la fortuna di qualche sedicente DJ alle feste di compleanno. Non è semplicemente un disco allegro, positivo e ottimista: è un disco progettato per esserlo. O almeno questo è il sospetto. Sospetto che va a sfiorare la certezza quando vedi che è stato composto dal nostro biondino praticamente a quattro mani (proprio come una two-men band) con il vecchio partner in crime Greg Krustin, ormai ufficialmente assunto allo status di super-producer (Adele, Sia, Katy Perry, Lana Del Rey, Likke Li, Foster The People — e potremmo andare avanti all’infinito), il cui tocco da Re Mida inevitabilmente manda l’album a orbitare in quella costellazione fascinosa che implode da una periferia in cui si strizza l’occhio a una certa indiependenza danzereccia verso il centro di un buco nero mainstream da cui è difficile fare ritorno. Dai Two Doors Cinema Club ai Bee Gees and (never go) back, per capirsi. Non che la cosa sia necessariamente un male (e ribadiamolo per evitare fraintendimenti), ma qui si fa fatica a parlare di capolavoro.
Colors passa da momenti in cui fa pensare ai Kooks riflessi dentro una mirrorball stroboscopica, a tentativi di evocare il “vecchio Beck” tramite strambi future western parlati (chiamiamoli cowboy be-hop) in cui sia il buono che il brutto che il cattivo si son fatti almeno una canna a testa, passando per svariati beats che ricorderebbero vagamente un Danger Mouse farfallone, se non fossero completamente ricoperti di paillettes, attaccate a una a una dall’assitente di Tiësto. Un disco che cerca per tutta la propria durata la sua personale Get Lucky, contando solo sulle proprie forze, senza l’aiuto di Pharrel Williams, nè di Chilly Gonzalez e soprattutto senza i Daft Punk.
Funziona solo a tratti, la cosa. Ma temo lo stesso sarà un successo.
C’è stato un breve momento — più di vent’anni fa — in cui Beck era come un virus: tutti volevano essere Beck, tutti volevano essere come Beck, tutti volevano sembrare loser abbastanza da diventare fighi e potersi permettere una domanda retorica come “so why don’t you kill me?” solo per sentirsi rispondere “because you’re so cool!”. In quel momento — non durò molto, ma fu evidente come un vestito di Desigual a un ricevimento con dress code black tie — la musica pop iniziò a suonare come Beck, a rimodellarsi attorno a Beck: all’improvviso tutti iniziarono ad attaccare con lo sputo assurde parti rappate a metà su dei breakbeat polverosi, a filtrare un certo folk melodico ma serioso con un’estetica vagamente bohémien, strascicata e cross-genere (musicale), in poche parole a contaminare il mainstream. Beck non stava al gioco più di tanto: osservava sornione e continuava per la sua strada, aggiungendo sempre più ingredienti alla formula, per vedere in quanti riuscivano a stargli dietro o se a un certo punto il giocattolino si sarebbe rotto.
Ecco, spero il flashback sia stato abbastanza chiaro, perché Colors è quello che succede quando Beck inizia a starci, al gioco, quando è lui che inizia a voler suonare come la pop music. Solo che lo fa con più di vent’anni di ritardo, quando il gioco è cambiato, così come è cambiata la musica pop. Colors è Beck che da virus diventa contagiato, che da portatore sano passa a un’infezione acuta i cui sintomi rimandano tutti a un ceppo influenzale che quest’anno sembra fare ben pochi prigionieri. Potremmo chiamarla la “sindrome Arcade Fire”, ovvero una roba fulminante che in men che non si dica ti porta a funkeggiare in maniera molto “seventies” su un dancefloor plasticoso e caleidoscopico, immerso in un’atmosfera ebbra di “su le mani” gridati in falsetto. In molti ne sono usciti con le ossa rotte (vedi gli Shins) qualcuno è sopravvissuto senza particolari ricadute (parlo degli Spoon). Beck partiva già vaccinato, quindi galleggia sulla zattera dell’esperienza e porta a casa almeno un pezzo di pagnotta, grazie soprattutto al suo mestiere nel songwriting (tredici album in studio lasciano il segno — come andare in bicicletta, una volta imparato dicono che non si dimentica più, giusto?) e a un senso per la melodia da cavallo di razza. Eppure convince il giusto e anche nei passaggi più interessanti — penso alla ballabilissima Dear Life che inciampa nei suoi stessi “la-la-lala” o a una I’m So Free che rovina un bel mix di new-wave alla Devo e chitarracce distorte con dei coretti a due voci femminili tipo Tatu che la inchiodano a un futuro, inevitabile, remix di Calvin Harris — sembra non riuscire prendere il coraggio a due mani e, non dico a sperimentare un intruglio fai da te di erbe bollite mai sentite prima, ma nemmeno ad andarsene in farmacia per un automedicazione: rimane confinato nelle quattro mura dalla sala d’aspetto del medico della mutua, a sfogliare Cosmopolitan immaginando un mondo migliore, in attesa che sia il dottore stesso a dirgli che non è niente, che va tutto bene sul serio, che fa fico anche sentirsi euforici, per una volta, ma che sì, due o tre giorni di malattia — almeno fino a venerdì compreso — può segnarglieli lo stesso.