C’è un filo comune che collega Napoli, la città dove sono nato e cresciuto, Bristol, dove ho vissuto per la maggior parte degli ultimi quattro anni, e Berlino: i Be Forest. Insospettabilmente, nella mia quasi ventennale carriera di concertaro, il trio di Pesaro è l’unica band che ho potuto ascoltare in tutti e tre questi posti. Il richiamo del loro nome sulla locandina dello Shokoladen, un locale storico della scena musicale indie di Berlino, mi è apparso irresistibile. Vederli nuovamente per evitare che questo filo rosso si spezzasse era assolutamente un dovere morale. Il concerto era annunciato alle 8 di sera, ma pur sapendo che sarebbero stati introdotti da una band locale – i Bikini Jesus, esponenti di una a me sconosciuta scena shoegaze germaninca – e quindi non avrebbero cominciato a suonare prima delle 9, ero già dentro il locale, da solo, alle 7, a far mettere il timbrino nero sul dorso della mia mano sinistra. Ho fatto bene: alle 7.45 il locale aveva già affisso il cartello di sold-out fuori alla porta, e il concerto è valso decisamente gli 8 euro del biglietto. Entrambe le performances sono state molto generose, l’acustica della piccola sala non ha pregiudicato la qualità del suono, e l’abbinamento delle due tradizioni di shoegaze da cui le due band prendono ispirazione – quello più allegrotto e rock dei tedeschi, e quello più scuro e dreampop degli italiani – ha costituito un match perfetto.
Questa esperienza dei Be Forest si presta a numerosi discorsi. Quello più immediato porta alla memoria una gloriosa colonna di questa webzine chiamata Bristol Sound, in cui per un annetto ho seguito l’evoluzione della scena musicale della ex-capitale del trip-hop e riportato testimonianza anche della performance bristolese del gruppo di Pesaro. In qualche modo, Berlin Sound si ispira a questa colonna, ma anche no, e vedrete perché volta per volta. Infatti, il discorso che mi interessa di più mettere a fuoco in questa puntata nasce dall’esperienza dell’ascolto di una realtà quale quella dei Be Forest in questi diversi contesti: quello dell’epico Cellar Theory ai tempi in cui si trovava in un sottoscala del Vomero, a Napoli, quello dello Start The Bus di Bristol, nel 2014, e questa recente loro apparizione allo Shokolade in data 18 gennaio 2016. Su tutte, bisogna dire che quale che sia il contesto, i Be Forest hanno sempre fatto la loro porca e generosa performance. A Napoli, chiaramente, hanno giocato in casa riempiendo il Cellar Theory, che è una seconda casa per il post-punk e la new wave in tutte le sue incarnazioni nazionali. A Bristol, i Be Forest si sono esibiti insieme ad altre due formazioni locali che al momento ho rimosso, gratis, in un locale sostanzialmente vuoto: parlandone con loro fuori, presentandomi a nome dell’Indiependente, i ragazzi non hanno nascosto la loro amarezza nel constatare che un lungo viaggio aveva prodotto così poco interesse, dal punto di vista di chi ormai in Italia riempie sempre i posti in cui viene invitato, e poi Bristol, che cazzo, che è una città di fanatici di musica. Il tour inglese durava una decina di date, e prevedeva due stop a Londra: le date successive del trio sono certamente state più soddisfacenti, per la felicità di tutti. Ma guardandoli su quel palco, con 10 ore di viaggio in bus addosso e davanti a una quindicina di persone, la prospettiva di incasso nullo, e la delusione della data d’esordio del loro tour inglese, a portare avanti la scaletta con grinta e perseveranza, non ho potuto che nutrire la più profonda ammirazione, quella che si riserva agli artisti veri, che sanno che quelle quindici persone sono venute lì apposta e meritano di essere trattate come un pubblico d’onore. A Berlino, come ho detto, i Be Forest hanno fatto sold-out, nonostante il costo del biglietto di 8 euro, e non gratis come a Bristol, neppure per la manciata di euro del Cellar Theory. E allora mi sono chiesto: ma perché?
Il discorso dei Be Forest potrebbe essere esemplificativo di numerose realtà indipendenti italiane nel momento in cui vanno all’estero, una esperienza che, letta sulle pagine web, fa sempre un certo effetto. Wow, è il primo pensiero, i Be Forest fanno il tour in Germania, sono un gruppo internazionale. E allora, perché fanno sold-out a Berlino e flop a Bristol? I motivi possono essere molteplici. Innanzitutto, partiamo da casa: a Napoli, da giovani, incarando un’altra dimensione di suono, i Be Forest riempiono il piccolo locale come capita alle piccole band che transitano in una città in cui l’offerta musicale è sempre stata proporzionalmente inferiore alla domanda, e in cui ci si riunisce sempre tutti – un centinaio patiti hardcore di musica – in qualsiasi contesto. E’ capitato lo stesso a una band che, viceversa, da Bristol è venuta a Napoli, per puro caso un’altra band shoegaze: i Fauns. Questi omologhi britannici dei Be Forest hanno riempito il locale comunque, forse la data che ha funzionato meglio del loro tour in Italia. A Bristol, al contrario, i Be Forest si scontrano con una scena musicale attivissima che prevede un’offerta quotidiana di una decina di eventi a sera: oltre ai grossi concerti delle tre sale più grandi, ci sono almeno quattro-cinque realtà di media capienza, e una decina di club più piccoli dove si riversano i gruppi locali, che sono in ogni caso, realtà di grande qualità musicale. Il locale dove i nostri si sono esibiti rientrava nella fascia media. Difficilissimo fare discorsi di categoria per la musica live a Berlino, una situazione tendenzialmente anarchica e difficile da decifrare, ma in cui i DJ hanno decisamente la meglio sul live act, e quindi, l’offerta è molto minore, soprattutto nel giro dei club di piccola-media fascia, quella che riguarda i concerti sotto i dieci euro. La risposta che viene in mente è che, in una città di oltre quattro milioni di abitanti, paradossalmente ci sono meno eventi e quindi è più facile riempirli. Il che, potrebbe essere corretto. Ma c’è un motivo più importante: il fattore italiano.
Cosa intendo è presto spiegato: nel numero del centinaio di partecipanti al concerto dei Be Forest ho riconosciuto due persone che non parlavano italiano. Erano entrambe venute insieme a me, su mio invito: un’amica tedesca e una americana, tutte e due molto curiose di musica. C’era una piccola porzione di supporto germanofilo per il gruppo tedesco, loro amici, che hanno stretto loro mani alla fine della performance. Il resto del pubblico mescolava vari accenti di tutte le regioni italiane, incluse voci che si lanciavano in grida di supporto a Pesaro, e sbeffeggiamenti a Pisa. Il grosso del pubblico che va a vedere i gruppi italiani in trasferta è, essenzialmente, italiano, a Berlino, come a Parigi e a Londra: è il motivo per cui i Be Forest fanno il pienone a Londra e Berlino, ma non a Bristol, dove gli italiani non sono appassionati di concerti, o se non altro, non lo sono in quantità abbastanza consistente da riempire un locale. Infatti, hanno fatto la stessa fine altri gruppi italiani della stessa caratura, come i Fater Murphy, nonché gloriose realtà italiane di qualche anno fa come i The Mantra ATSMM. Non a caso, realtà musicali italiane d’asporto più grosse non toccano realtà competitive come Bristol: il tour malauguratamente annullato all’ultimo momento di Carmen Consoli, a dimostrazione, ha previsto date a Parigi, Londra, Berlino e mezza Germania, tutte andate rapidamente sold-out, ma nessuna data a Bristol, forse aspettandosi una ricezione complicata. A Londra, con le lacrime agli occhi ho visto Brick Lane intasata di serate di tributo agli Offlaga Disco Pax nel periodo della morte di Enrico Fontanelli, ma a Bristol gli ODP nessuno sa chi siano. La realtà dei tour all’estero dei gruppi italiani rientra in un fenomeno che interessa la migrazione all’estero delle aziende italiane e degli italiani che emigrano all’estero per esserne reclutati: una Italia satellite che si costruisce tutta in trasferta, realizzando profitti che non vengono redistribuiti nella popolazione, ma riguardano un monopolio fluttuante di pochi. Senza addentrarci troppo in valutazioni di economia internazionale e tenendo conto delle generalizzazioni e delle necessarie eccezioni – ci sono certamente anche gruppi italiani che hanno un pubblico maggiore all’estero che in Italia, e non limitato agli italiani – quello che voglio dire è che è bello che italiani all’estero possano ascoltare i loro beniamini senza perdersi in interminabili malinconie, ma al contempo, è un un’immagine molto diversa da quella in cui ci si produce quando sentiamo di band che fanno tour all’estero.
Ci sarebbe anche una seconda osservazione, che riguarda nello specifico Berlino. La mia amica americana – che ha un nome bellissimo e fatto apposta per esordire come song-writer folk, e al momento, funge da mia guida più esperta della Berlino della musica indipendente – mi dice che è una pratica comune pagare 7-8 euri per un concerto di una band minuscola, come accade coi Be Forest, pagati 3 euro a Napoli 3-4 anni fa, e gratis a Bristol qualcosa di più dell’anno scorso. Nessun pagherebbe 8 euro per i Be Forest a Bristol, come accade a Berlino, nonché a Parigi, così come a Denver o San Francisco, nessuno pagherebbe 8 bucks per uno sconosciuto gruppo europeo. Gli italiani a Berlino hanno introiettato il costume berlinese che la cultura si paga, e nessuno si aspetta di non pagare un concerto che vale la pena di essere ascoltato. Sono tutti più che felici di versare i loro euri per una serata, e il calendario di bands si intensifica: infatti, a parte la Consoli, neanche due settimane dopo i Be Forest si è tenuto il concerto di Iosonouncane, e numerose altre bands vengono annunciate costantemente. L’educazione berlinese a supportare la cultura produce un circuito virtuoso e un proficuo terreno per la musica italiana. Riprenderemo questo discorso tra qualche mese, ad Aprile, tornando allo Shokoladen per vedere i Brothers in Law, formazione parallela dell’indie pesarese in cui militano due terzi dei Be Forest, e vi faremo sapere. Per il momento, se non possiamo essere alberi in patria, accontentiamoci di essere foresta all’estero.