In queste giornate a Roma si è tenuto il summit contro la pedofilia La Protezione dei Minori nella Chiesa. Tra denunce di dossier distrutti, e testimonianze agghiaccianti, si è parlato dell’evento come di una volontà riformatrice della Chiesa che finalmente aveva deciso di fare i conti con il grande problema dei reiterati abusi sessuali dei preti, in particolare ai danni di minori — iniziativa di cui va dato atto all’attuale Papa Francesco, troppe le esitazioni e le connivenze in passato, finché tutto non è esploso al punto da rendere necessario il j’accuse interno. Eppure nel suo atteso discorso di fine summit Bergoglio ha finito per tirare in ballo Satana, buttandola sull’aspetto favolistico della vicenda, e così ancora una volta abbiamo davanti l’immaginario di una Chiesa che si tiene alla larga dalla realtà. Per quanto potrà ancora funzionare?
È passato un po’ di tempo dall’inchiesta del Boston Globe (la ricorderete immortalata nel film Il Caso Spotlight) sui casi di pedofilia reiterati per decenni all’interno della Chiesa cattolica: viene pubblicata agli inizi del 2002, ai tempi di Giovanni Paolo II (attualmente santo, nonostante qualche trascorso trasgressivo come la benedizione a Pinochet e le coperture degli abusi sui minori). Tante cose verranno allo scoperto successivamente, come la lettera ai vescovi irlandesi datata 1997 in cui il Vaticano chiedeva di non denunciare pubblicamente i casi di pedofilia della Chiesa, ma di risolvere la faccenda all’interno. Difficile immaginare insomma che il Vaticano non sapesse da tempo quello che accadeva. Una seconda ondata di casi arriva all’attenzione pubblica tra il 2009 e il 2010, epoca di Benedetto XVI, a cui tocca ammettere la cultura del silenzio e i fallimenti di una Chiesa travolta dallo scandalo, dopo che a macchia d’olio vengono alla luce casi in Irlanda, Francia, Germania, Italia, e in tutta Europa.
Nelle stesse controverse giornate è uscito in otto lingue Sodoma (in Italia per Feltrinelli), il libro-inchiesta del giornalista e sociologo francese Fréderic Martél. In un interessante articolo su L’Espresso Francesco Lepore – ex sacerdote in servizio al Vaticano – commenta come non sia casuale la scelta del lancio del libro proprio nei giorni del summit sugli abusi sessuali. Lepore è anche il protagonista del capitolo che apre il libro di Martél: la sua storia è quella di un ragazzo che a 15 anni entra in Seminario a Benevento, e – nella consapevolezza di essere gay – viene indirizzato “verso il sacerdozio visto come cammino di redenzione da una condizione considerata peccaminosa e inaccettabile”; arriverà al servizio del Vaticano, vivrà i suoi amori nascosti, ma poi abbandonerà la Chiesa e il sacerdozio per vivere a pieno una vita laica. La storia di Lepore fa solo da introduzione al mondo di Sodoma: Martél racconta il Vaticano come di una delle più grandi comunità gay al mondo – ovvero un gruppo di prelati che continua a portare avanti una doppia vita, tra omofobia di facciata e amore libero. Nella prefazione Martél ci rammenta che la pubblicazione di un libro del genere sarebbe stata impensabile fino al decennio scorso, e ciò nonostante sia tutto più o meno risaputo all’interno delle alte sfere vaticane. Inoltre porta alla luce un dato interessante: le vocazioni hanno subito un calo dopo la liberazione sessuale dei Settanta, con conseguente liberazione dal sentimento di condanna nei confronti dell’omosessualità. Il panorama che ci offre in realtà è piuttosto desolante, e descrive una schiera di ragazzi confusi che pur di eliminare il proprio senso di colpa hanno finito per scegliere il voto e la vita apparentemente monastica. Al di là di tutti i dibattiti che il libro aprirà, è interessante il modo in cui Martél riesce a spazzar via l’eterno pregiudizio a proposito di un presunto stile di vita asessuato in Vaticano.
Negli anni di forzata educazione cattolica italiana siamo stati ammaestrati a immaginare i preti come angeli che rinunciano al sesso per sposare Iddio, persino privi di istinti sessuali, devoti a qualcosa di più alto (- rimandiamo pure ogni genere di disquisizione sulle differenze tra voto di castità e celibato). Dietro un immaginario di purezza, il Vaticano si è concesso messaggi di repressione degli istinti sessuali rivolti ai suoi fedeli – così Papa Wojtyla lanciava furente la sua battaglia contro il preservativo in un’epoca in cui l’AIDS era sempre più diffuso, perché il sesso (già) doveva essere solo quello finalizzato alla riproduzione, nulla di più. Eppure il Vaticano nel frattempo non si è fatto problemi nell’auto-concedersi di tutto di più — tanto che alla fine pare che gli unici capaci di praticare il perdono a oltranza siano stati proprio i fedeli, con un magnifico esercizio del porgi l’altra guancia di cristiana memoria.
La viva attività sessuale dei sacerdoti all’interno del Vaticano non è certo una novità, basterebbe pensare al padre di Cesare e Lucrezia Borgia, tale Papa Alessandro VI, che tra l’altro amava avvelenare i suoi ospiti prima di finire vittima del suo stesso veleno. Volendo mettere da parte ogni genere di sopruso di cui la Chiesa si è macchiata nei secoli (crociate, inquisizioni, condanne al rogo, negazioni di evidenze scientifiche), pare insomma resistere un problema rispetto a quel veto sessuale che il Vaticano ha preteso di assecondare, senza grandi risultati. Mentre le alte sfere condannavano pubblicamente ogni comportamento sessuale non finalizzato alla riproduzione, proprio all’interno si consumava il delitto con tutto lo scandalo dei preti pedofili coperti dalla Santa Sede nel tempo. Anche per questo l’iniziativa riformista di Bergoglio appare tardiva, e finirà per essere anche debole finché non metterà in discussione l’ipocrisia di quel veto – assieme a quel clericalismo contro cui si è già scagliato, la tendenza del clero a pensarsi superiore. Sembra ormai evidente che questa superiorità non c’è mai stata, amaramente inutile fingere che possa nascere in futuro.