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Dall’armadio alla Piazza Rossa: (r)esistenze queer nella Russia di Putin

C’è uno spettro che si aggira nella Russia contemporanea. A seconda dell’interlocutore, può essere l’omosessualità, o l’omofobia. Per gli osservatori più disincantati e promulgatori di valori liberali, non è difficile individuare qual è fra i due ad attanagliare la grande Russia. In ordine: lo scorso 1 luglio, in Russia, si tiene un importante referendum costituzionale. L’attenzione dei media occidentali si focalizza soprattutto sulla modifica che rimuove il divieto per il presidente di essere eletto dopo due mandati consecutivi, ammettendo uno scenario in cui Putin potrebbe essere presidente fino al 2036; se così fosse, la permanenza al potere dell’ex KGB supererebbe quella di Iosif Stalin. Poco è stato detto, invece, su un’altra importante revisione della carta costituzionale. Infatti, l’Articolo 72 della Costituzione presenta una specifica importante: definisce il matrimonio come un’unione fra uomo e donna, ed è sintomo di un quadro più ampio, che vede Vladimir Putin come batiuška, il babbo, alla guida di una Russia che è diventata un coacervo di simboli e rimandi imperiali e sovietici.

A ridosso della data del referendum, esce uno spot finanziato dal gruppo filogovernativo Patriot Media, che esemplifica la missione putiniana per la conservazione dei valori tradizionali nella nuova Russia. Il video, ambientato nel futuro 2035, ha luogo in un orfanotrofio: vediamo un bambino che attende trepidante l’arrivo del padre e della madre adottivi. Al posto loro, si presenta un uomo solo, che lo prende per mano e lo conduce verso l’auto. Il bambino chiede dove sia la sua mamma, e l’uomo gli indica il suo compagno, rispondendogli che è lui. Nel video, il compagno presenta delle caratteristiche omosessuali fortemente stereotipate, dai manierismi al trucco. Il bambino trattiene a fatica le lacrime, e il video termina con il “compagno-mamma” che sorridente gli porge un vestito da bambina. Le due impiegate dell’orfanotrofio si guardano atterrite, una sputa a terra il suo disprezzo. Alla chiusura del video, una voce chiede in russo: “È questa la Russia che volete? Decidete il futuro del Paese, votate gli emendamenti alla Costituzione”. Nonostante le polemiche, il referendum ha esito positivo, con il 77% dei voti a favore delle modifiche costituzionali.

Questa modifica è la più recente di una serie di violazioni nei confronti della popolazione queer russa, che negli ultimi anni si è vista negati diritti e riconoscimenti fondamentali: è del 30 giugno 2013 la “legge sulla propaganda omosessuale” (Legge Misulina), che viene approvata a livello federale (prima di allora c’erano leggi simili, ma circoscritte a livello locale) e che de facto costituisce il chiodo sulla tomba della libertà d’espressione della comunità LGBTQ+ russa. Le Olimpiadi di Sochi 2014 sono il primo grande palcoscenico internazionale a scatenare un forte scontro fra il corpo atletico, di cui molti esponenti sono gay, lesbiche, bisessuali, trans e queer, e il presidente Putin. Dopo i diversi tentativi di boicottaggio (con la critica e il rischio di isolare ulteriormente le persone queer russe) e le feroci accuse della comunità LGBTQ+ internazionale, il Presidente Putin si difende rispondendo che la Russia non persegue formalmente gli omosessuali, né è prevista la pena di morte come in altri Paesi. Putin pone l’accento sulla lotta contro la pedofilia, sminuendo invece le persecuzioni sulla popolazione LGBTQ+.

 

Dai tempi dell’URSS si è ben compreso che “propaganda” sia una delle parole più abusate e più nebulose che tanto piacciono al potere prima sovietico poi russo: se la legge ricorre a una retorica che sembra volere tutelare i minori dalle minacciose teorie gender e dalla pedofilia – dal momento che in Russia spesso “omosessuale” e “pedofilo” vengono usati in maniera interscambiabile con lo stesso significato -, in realtà va a negare qualsiasi forma di attivismo e richiesta di riconoscimenti, facendo scattare anche la violenza dei corpi di polizia, atta a silenziare ogni forma di dissenso. Nella sfera pubblica, tutto ciò che si oppone all’etero-normatività esiste solo nella sfera giuridica (con i suoi capi d’accusa) e in quella medico-psichiatrica (con la connotazione di patologia). La sociologa Laurie Essig, che nel 1999 pubblica la sua inchiesta sociologica “Queer in Russia: a story of sex, self and the other”, racconta che in Russia si è sentita più volte dire che le donne lesbiche “ne sušestvujut”, non esistono; alla domanda sulla presenza di uomini omosessuali, si sente ripetere come una litania la seguente battuta: “In the U.S. you send all your gays to Camp San Francisco; here we send ours to Camp Siberia”. C’è una verità storica dietro questa battuta: negli anni Trenta, Stalin criminalizza le relazioni omosessuali; la pena è anche il campo di lavoro, e per questa ragione sono molti gli uomini deportati in Siberia a lavorare a ritmi e condizioni infernali. Solo recentemente queste testimonianze sono emerse dal silenzio della storiografia ufficiale.

Il riferimento alla realtà statunitense ha uno scopo preciso: la Russia post-sovietica, sotto l’egida di Putin, ha delineato una sua identità nazionale in aperto contrasto con quella dell’“Altro occidentale”, profilandosi come bastione dei valori tradizionali – la famiglia (rigorosamente etero-normata), la Chiesa (Ortodossa russa) e uno Stato solido e forte sullo scacchiere globale, contrapposta all’Americanizzazione dell’Occidente, ormai degenerato dalla fluidità di genere, il capitalismo rampante e l’ateismo diffuso.

È evidente: nella Russia d’oggi, ogni forma di visibilità queer è per definizione considerata propaganda, e dunque punita con multe, violenza fisica o l’arresto. Tuttavia, nonostante l’approvazione di queste leggi e il vasto consenso del pubblico, la comunità LGBTQ+ non si ferma, e riversandosi nelle strade chiede visibilità, spazi sociali e diritti. Nel promulgare queste leggi, è difficile immaginare che il governo russo si sarebbe aspettato tanta resistenza. Al rafforzarsi della repressione omofoba, c’è un’imponente mobilitazione della comunità LGBTQ+, portando in primo piano discussioni sulle problematiche e la richiesta di diritti delle persone queer, con un’eco nazionale e transnazionale senza precedenti.

Alcune associazioni, come la Rainbow Association (RA), organizzano picchetti di solidarietà, manifestazioni femministe e contro l’ingerenza della Chiesa Ortodossa, protestano contro la violenza delle leggi anti-LGBTQ+, cercano di ottenere maggiore visibilità e si rivolgono, in particolare, alle persone ordinarie, soprattutto alle generazioni più giovani. Lo scopo è di dimostrare che l’omofobia e la stigmatizzazione di un’intera categoria di soggetti ledono la maggioranza, e che le autorità utilizzano il pregiudizio per “divide et impera”, avvalendosi di questo capro espiatorio e distraendo l’attenzione dei cittadini dalla corruzione e dalla mala gestione del governo.

Il caso intorno al Pride di Mosca è rappresentativo dello scontro fra comunità LGBTQ+ e classe politica nostalgico-reazionaria: inizialmente deve tenersi nel 2006, tuttavia il Consiglio Cittadino di Mosca ne vieta l’organizzazione fino al 2010. Nel 2012, si impone un divieto di cent’anni sui gay pride. Nikolaj Alekseev, attivista omosessuale piuttosto controverso in patria per alcune posizioni filogovernative e filo-imperialiste, fa ricorso insieme al Progetto Gayrussia.ru presso la Corte Europea dei Diritti Umani, ottenendo a più riprese che l’imposizione di tali divieti viola la libertà di riunione garantita dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; tuttavia Mosca rimane sorda. Ciò nonostante, la comunità russa queer ha dimostrato anche di sapere raggirare il divieto di propaganda omosessuale, come è successo in occasione dei Mondiali del 2018: sei attivisti, indossando le maglie delle nazionali di calcio, si sono fatti fotografare passeggiando fianco a fianco, andando a formare la bandiera del Pride. Sventolare la bandiera del Pride è infatti considerato reato per il medesimo capo d’accusa; in questo caso, però, la polizia ha dovuto assistere inerme alla loro sfilata.

Mosca sarà ancora lontana dai moti di Stonewall, eppure l’esito delle sue repressioni draconiane ha generato un vivace dibattito intorno ai diritti e alle rappresentazioni LGBTQ+ della nazione. Il contributo di questi gruppi attivisti, insieme alla prominenza di figure legate al mondo letterario e giornalistico, come Slava Mogutin e Masha Gessen, fa ben sperare che questo gruppo di voci si faccia via via sempre più numerosa, finché Mosca non potrà più limitarsi a restare sorda davanti alle loro richieste.