Se esistesse una grande distribuzione di libri, inediti, frammenti di Danilo Kiš, noi ci faremmo trovare pronti ad accoglierli. Con questo spirito un poco ossesso da raccattatori di Enciclopedie disperse, ci avviciniamo all’ultima pubblicazione in italiano di una raccolta di scritti dello scrittore serbo, edita da Wojtek e tradotta da Anita Vuco. “L’ultimo bastione del buon senso” raccoglie saggi, stralci e frammenti quasi del tutto inediti; ciò vuol dire che per la maggior parte non li troverete nemmeno nel grosso volume Adelphi “Homo poeticus: saggi e interviste”. Se là sta l’immersione più pura nel mondo brado e letterario di Danilo Kiš, questo nuovo libro è l’occasione per un ulteriore strabordamento, per scendere ancora più in basso, insozzarsi di Kiš, sviscerare le profondità e gli abissi di una mente raffinata e forse passata ancora troppo inosservata in Europa – probabilmente anche a causa di una rimozione dell’Europa centrale che lo scrittore stesso rievoca nei suoi scritti. Per una letteratura europea, bastarda, futura e incontaminata, Kiš è uno scrittore cardinale (– e ne avevamo scritto diversi perché).
Nato a Subotica nel 1935, morto a Parigi nel 1989, Danilo Kiš ha vissuto una perenne difficoltà a fissarsi in un luogo, con effetti indiretti sulla sua visione di letteratura. Autore di libri di ferro, di quelli che non passano indifferenti tra una volata e l’altra di pagina, Danilo Kiš è sopraffino ed elegante quando scrive e quando pensa, è un sorprendente e ricercato prosatore, uno scrittore appassionato e un controverso pensatore, uno sconfinatore di mondi e patrie, con una concezione totale della letteratura. È anche per questa ragione che Kiš parla di letteratura come un “ultimo bastione del buon senso”: lingua pura, svincolata da ogni genere di stereotipo, lingua miscelata e mai doma, che non si accontenta mai di essere letteratura di minoranza ma – nel suo movimento, nella sua erranza – tenta di cercare l’assoluto. Non provoca stupore che nel tempo Danilo Kiš abbia raccolto tra i suoi più entusiasti estimatori scrittori e poeti di terre diverse come Iosif Brodskij, Susan Sontag, Milan Kundera, o scrittrici epifaniche come la croata Daša Drndić, che del suo modo di raccontare e della sua voce polifonica si innamorò, forse come del fratello perduto di una terra vicina ma separata da frontiere di marzapane (– “il nazionalismo nella variante serbocroata si tratta della lotta per attribuirsi l’origine nazionale del cuore di marzapane che si vende nelle fiere paesane” – DK).
Con la sua andatura da scrittore errabondo, Danilo Kiš è pure uno sregolato dubbio vivente. Come scriveva nel romanzo d’esordio Mansarda, ci sono questioni su cui stavo cercando una risposta: ovvero, l’immortalità dell’anima e del sesso; l’immacolata concezione e la metempsicosi; la vita su altri pianeti; questioni su cui è irresolubile decidersi pure quando le metti in contraddizione: idealismo o materialismo, Don Chisciotte o Sancho Panza, Amleto o Don Juan, morte o suicidio; questioni su cui nemmeno il lancio di una moneta può venire in soccorso; e dunque è giusto arrendersi, sapersi dire solamente uomo, animale poetico, scrittore sedotto tanto dai cambi di gioco dell’amato James Joyce quanto da quelli di Borges. Irlanda e Argentina come terre universali che si iniettano nel cuore dell’Europa – e viceversa. Se a proposito di James Joyce, Kiš scrisse che tutti i moderni fossero venuti fuori dal suo cappotto/incubo, anche sulla figura omerica di Borges torna spesso a riflettere. Tracce e intermittenze borgesiane sono presenti nei racconti di Boris Davidovič, o nell’Enciclopedia dei morti, dove Kiš esplora vite marginali o di scarto sul modello degli “infami” di Borges, mescolando fantasia e documento storico, citazioni rubate e pura invenzione narrativa.
In uno dei frammenti della raccolta appena pubblicata da Wojtek, Kiš azzarda di avere scritto Una tomba per Boris Davidovič per “polemizzare con il modello borgesiano”: se gli infami di Borges erano troppo favolistici, ci volevano allora infami di carne e ossa – e dunque largo ai fantastici antieroi vacillanti della collezione umana kisiana. “Nessuno dei personaggi è iugoslavo: sono polacchi, russi, romeni, irlandesi, ungheresi; in maggioranza di origine ebraica” – scriveva Brodskij, che fu catalizzato da quei personaggi, europei, ebrei, ortodossi, sovietici, morti, dissidenti o meno. La questione stessa della dissidenza torna spesso nelle interrogazioni e riflessioni letterarie di Danilo Kiš; mentre si proclama scrittore non dissidente, una dissidenza più metafisica – moto primordiale dell’anima – influenzerà la sua vocazione così naturale per la contraddizione e l’esercizio continuo del dubbio come attività preminente del pensiero. In questo marasma bianco di contraddizioni ci sono dei momenti illuminanti, incandescenze e nebbie, riflessioni a cuore aperto sulla scrittura. «Ma sarà sufficiente per darci un po’ di senso e un po’ di conforto?». L’uomo poetico è allo sbando, ma si aggrappa a cenni di albe lontane.
Romantico Orfeo joyciano, anti-nazionalista, innamorato di una quasi estinta lingua serbocroata, esiliato e vagabondo tra le strade di Belgrado e Parigi, homo poeticus ante-litteram in aperta battaglia con l’homo politicus, con i suoi scritti Danilo Kiš ha smascherato gli orrori e le cappe della Storia con l’arma bianca della Letteratura. Nei suoi scritti si augura che lo scrittore si tenga alla larga da tentazioni politiche e ideologiche, che debordi, strabordi, mischi, contraddica, scriva; che cammini oltre il deserto di ruggine; dispensa consigli (e il loro contrario) ai giovani scrittori; rivela un’inclinazione all’umorismo; e con queste brevi precauzioni, gli basta la piccola storia di un piccolo uomo a illuminare l’evento. Il tempo kisiano ha una concezione dilatata, tanto nelle sue storie come nell’andatura dei suoi saggi e frammenti: la sua strada è la letteratura bastarda e futura che verrà fuori superato l’impasse del contingente. Per questa ragione i suoi scritti sono assordanti. Che si metta a discorrere dei romanzi di Flaubert, che tiri sassate a Charles Baudelaire, che disserti di simbolismo russo e francese, o della Bellissima Dama di Blok caduta sulle spalle apocalittiche dei Dodici, che lanci dardi contro la letteratura impegnata, leggere Danilo Kiš è un bel leggere pensieri mai banali. È uscire per una volta dal tracciato della lettura come è confezionata in un giornale o depliant. È una felicità deragliare con Danilo Kiš, perdere le coordinate piane per scoprire i punti bui di noi stessi, tornare bambini felici di leggere per leggere, per amore della scrittura che va alla ricerca dell’assoluto – per questa ragione a una nuova pubblicazione di inediti di Danilo Kiš vale sempre la pena non disertare.