Nel lontano ottobre del 2001 su Rolling Stone compare un racconto/saggio di David Foster Wallace, tradotto in italiano come La vista da casa della Sig.ra Thompson. Venti anni fa DFW era ancora vivo, e con la grazia macro/microscopica della sua scrittura ci portava a ripercorrere le ore immediate all’11 Settembre nella cittadina di Bloomington, Illinois, dove viveva all’epoca. Sono passati venti anni dall’11 Settembre, e intanto di cose ne sono successe: DFW si è suicidato il 12 di settembre di qualche anno dopo, le truppe americane si sono ritirate da un Afghanistan in pieno caos, Osama Bin Laden è stato catturato e ammazzato, e molti dei discorsi che abbiamo sentito fare sull’esportazione della democrazia sono passati in disuso, lasciandoci in bocca la sensazione amara che la posterità conferisca un punto di vista quasi privilegiato sugli eventi. Ai tempi dell’affare Dreyfus andava di moda nei salotti aristocratici e nei circoli borghesi una certa tendenza antisemita di condanna per l’ufficiale ebreo Dreyfus; lo racconta Marcel Proust nei suoi romanzi di ricerca sul tempo, eccetto poi ricordare che: “venticinque anni dopo, quando le idee sarebbero state archiviate e il dreyfusismo avrebbe avuto il tempo di assumere nella storia una certa eleganza, i figli, bolscevizzati e gran ballerini di valzer, di quegli stessi giovani nobili avrebbero dichiarato, rispondendo alle domande degli intellettuali, che se fossero vissuti a quell’epoca avrebbero sicuramente parteggiato per Dreyfus”.
Non possiamo averne la riprova, perché l’evento in diretta si porta dietro un retaggio emozionale, un’immersione nei pregiudizi e le ideologie del proprio tempo, che a distanza di anni evapora e quel che resta è il puro senno di poi. Ma in quel breve passaggio Proust ci fa sorridere amaramente al pensiero di come mutano le opinioni o le sensibilità nel tempo, a seconda di come vanno gli eventi e gli equilibri di potere; e così come nei circoletti francesi d’improvviso ci si sbarazzava dei pregiudizi antisemiti della generazione precedente, così oggi l’opinione pubblica si sveste della retorica della democrazia da esportare, mentre gli States si riaffidano a quei talebani contro cui venti anni fa volevano combattere, gli stessi che avevano appoggiato ai tempi della guerra fredda. Pare allora che non resti altro che vivere immersivamente nel proprio tempo cercando di metterci quanta più umanità possibile – anche quando il tempo è complicato come quello che stiamo vivendo, anche quando il clima è folle all’inverosimile e incita tutti ad armarci per combatterci, eccetto poi tra venticinque anni sentirci rimproverare per aver dato così in escandescenze, per essere stati cinici o ironici fino all’indolenza –, e volendo andare invece a scavare a ritroso nel passato, affidarci il più possibile alle immediate sensazioni, ai dettagli, come riesce a fare il racconto di David Foster Wallace da casa Thompson, ambientato tra l’11 e il 13 di Settembre, e che funziona come uno speciale reportage intimo da una qualsiasi cittadina degli Stati Uniti.
So che a un certo punto per un po’ da fuori si è sentito il rumore di un vicino che tagliava il prato, cosa che pareva bizzarra, ma non ricordo se qualcuno ha commentato.
L’11 Settembre del 2001 era un martedì. “MERCOLEDÌ Tutti hanno esposto le bandiere”, scrive David Foster Wallace, che comincia a domandarsi come facciano tutti ad avere già pronta una bandiera a stelle e strisce da esporre, e che cosa significa invece per lui non averne una. Questo succede a Bloomington, nel Midwest, il giorno dopo l’attentato dell’11 Settembre dove hanno perso la vita quasi 3000 persone. Il racconto di DFW è parzialmente il racconto televisivo dell’attentato alle Torri Gemelle – “sembra grottesco parlare del trauma provato davanti a un video quando la gente dentro quel video stava morendo” – che è in fondo quello di cui ha memoria la maggior parte delle persone, tanto che non sorprendono neanche le infinite testimonianze raccolte negli anni e a casaccio tra chi non era sul posto ma ha visto tutto alla televisione, perché l’11 Settembre è stato il più grosso attentato mai trasmesso alla televisione, e DFW è forse il primo a raccontare l’Orrore visto per mezzo della tv – a casa della sig.ra Thompson – e le immediate sensazioni di disagio connesse a certe immagini e a come potevano somigliare equivocamente a quelle di un film. Wallace ricorda la precisione di certe inquadrature di Die Hard I-III o Air Force One, quel riflesso insito nell’uomo della post-modernità che porta a pensare qualcosa come “già visto”, e anche se davanti hai la realtà, lo schermo che stai fissando – a casa della sig.ra Thompson o sul tuo divano – è lo stesso su cui hai visto ripetersi lanci spaziali e guerre avveniristiche. In un certo senso Wallace consuma su carta quel rituale collettivo che è stata la visione televisiva dell’11 Settembre: scrive dell’Orrore da una cittadina americana, e si ritrova a pregare in compagnia dei vicini come per riflesso, sfidando quel senso di alienazione che si porta dentro, l’alienazione che viene a forza di guardare la gente che scappa dalle macerie direttamente dal salotto della sig.ra Thompson, in compagnia di persone così amabilmente innocenti da non avere nessuna idea topografica della vera New York, così confusa con quella che ci si è costruita mentalmente attraverso la tv, il cinema e i racconti, tanto che sarà lo stesso Wallace a spiegare alle signore com’è fatta New York.
Anche in questo scorcio di realtà e tragedia Wallace resta illuminante nell’affondare nei cuori umani dei suoi contemporanei, nell’afferrare la realtà per piegarla alle parole, nel descrivere quel misto di ossessione catodica e innocenza emotiva, di dipendenza televisiva (ne soffriva pure lui) e sconvolgimento, di straniamento e rigurgiti di fede – patriottica, divina – di come lui stesso si lasci coinvolgere dall’emotività, dal momento, tanto da riuscire per un attimo a intravedere persino nella figura del presidente qualcosa di più di un “golem senz’anima”; e ancora di come ci si possa mettere a pregare pur non pregando, di come la vista da casa della signora Thompson coincida con un lontanissimo skyline che si intravede da un salotto del Midwest, e di come lo scrittore americano ritenga sé stesso più responsabile di tutte le signore che lo circordano dentro casa Thompson, perché “qualsiasi fosse l’America che gli uomini su quegli aerei odiavano tanto, era molto di più la mia America (..) che non quella di queste signore”. È confortante leggere un racconto con la sensazione che il tempo non lo abbia fatto invecchiare e che abbia ancora qualcosa da dirci.