18 Luglio 2012
Giffoni Valle Piana, Neapolis Festival
L’afa di luglio, si sa, è nemica delle città, quel caldo che ti avvolge fino a scioglierti e stancarti, ti mette voglia di fuggire molto presto dai centri storici, sempre traboccanti di calore estivo, eppure se abiti a Napoli e se lo hai fatto negli ultimi quindici anni, sai che luglio non può andar via se non fai almeno un salto al Neapolis, quel festival tanto amato, quanto odiato e chiacchierato, di cui per affetto e, forse anche un po’ per abitudine, non riesci a fare a meno. Inizi mesi prima a farti domande sulla line up, sul fatto che troppo spesso sembra indietro di dieci anni, ma poi qualcosa che ami sempre lo trovi e alla fine, nonostante tutto, ci vai. Quest’anno per andare al festival della tua città, però, ti tocca andare fuori città, in un’altra provincia, regali che le amministrazioni comunali così attente alle piste ciclabili, alle zone a traffico limitato e alle piazze da riempire di stucchevoli ragazzini urlanti contro il cielo, prima o poi ti fanno e tu non puoi far altro che prendere quel festival al cui sei tanto affezionato e seguirlo, inserendolo tra gli ottimi pretesti per scappare dall’afa cittadino, in cerca di qualcosa di diverso e, nonostante il giorno feriale e gli orari presti ci vai, perchè ci tieni e perchè difficilmente rivedrai i Dinosaur Jr. suonare nella tua fottuta regione.
Alle otto di sera il campo di calcio di Giffoni Valle Piana sembra un po’ una festa per pochi intimi, giusto due o tre file sparute, con gli Azari & iii sul palco che cercano con la loro house propiziatoria di far muovere a ritmo quei pochi culi intorpiditi dal viaggio in auto. Ci riescono abbastanza, lanciandosi tra il pubblico ben disposto, che non si lascia troppo pregare e inizia a ballare. Il set non dura molto ed è strano ascoltare un set elettronico in apertura, con il sole ancora in cielo, ma tant’è, tra coreografie minimaliste e addominali in mostra, il live degli Azari lascia il posto alla sera e finalmente un po’ di gente inizia ad animare il luogo. Mentre sul Red Bull Bus si esibiscono i The Last Fight. Il palco si prepara ad accogliere una band che ha stravolto il noise degli anni 2000, flirtato con il dream pop e assorbito la lezione della musica sintetica: sono i Blonde Redhead. I fratelli Pace, vestiti di immancabile camicia bianca, calcano il palco, insieme alla sempre fantastica Kazu. Pochi fronzoli e cominciano le danze. La scaletta vede un alternarsi di brani degli ultimi tre lavori della band, da Dr Strangeluv a Spring and By Summer Fall, passando per gli episodi del più recente “Penny Sparkle”. Il suono è tondo e armonioso, corale. Manca sempre così poco ai ragazzi per essere perfetti, sarà il loro modo algido di stare sul palco, che si smorza solo quando, come rapita da un mantra, Kazu inizia ad ondeggiare sul palco e non puoi non guardarla estasiato, mentre si contorce e canta. Poi parte Falling Man e puoi mettere da parte qualunque cosa perchè in quel momento sei dove vorresti essere. Scaletta assai asciutta, set un po’ troppo breve, si termina con Silently, con quel pizzico di amaro in bocca di chi avrebbe voluto qualcosa di più. Nel cambio palco, il Red Bull bus ci restituisce i suoni hardcore della Napoli che conosciamo bene e La Via degli Astronauti ruba la scena al main stage per una buona mezz’ora fino a quando Pierpaolo Capovilla e il suo Teatro degli Orrori non si apprestano ad occupare il palco, tra chi si accalca per assistere alla loro ennesima pièce e chi invece decide allegramente di snobbarli. Rivendico introduce nel mondo nuovo, seguita da una tiratissima Non vedo l’ora. Nonostante l’atmosfera festivaliera Favero e soci non sembrano intenzionati a togliere spazio al loro nuovo disco e snocciolano una scaletta, che solo nella parte finale saprà aprirsi a incursioni nel repertorio più classico della band. Doris (presa in prestito dagli Shellac) è probabilmente la migliore in campo, seguono l’incendiaria Compagna Teresa e l’immancabile romanticismo de La canzone di Tom. Poche parole per Pierpaolo, tanto rock’n’roll per la band veneta, lezioso e pretenzioso, eccessivo e drammatico come solo loro sanno essere. Si odiano o si amano, c’è proprio poco da fare.
Le luci sul palco di spengono, The Shak and Spears provano a trattenere il pubblico,mentre il muro si suono che caratterizzerà questa nuova edizione del Neapolis si materializza in una torre di casse Marshall (sei per la precisione) e la storia può finalmente farsi avanti ad appagare e martoriare gli apparati uditivi dei presenti. Lo vedi da come calcano il palco che J Mascis e Lou Barlow se ne sbattono di essere fighi, che gli basta una Jazzmaster e un basso copioso a far mangiare polvere a tutti. Il set della band americana pesca a piene mani dai dischi che hanno cambiato la vita di chi il rock’n’roll è abituato a viverlo sulla sua pelle. Basta il cantato sofferto di Thumb e i suoi accordoni doppi a farti barcollare per la profondità e la furia dei colpi di penna, a ricordarti che J Mascis può suonarti un assolo di cinque minuti e non ti verrà in mente nemmeno per cinque secondi che quell’uomo. con la sua chitarra tra le braccia, si sta facendo una sega, perchè dentro quelle note vibrate e tremolanti ci sono i tuoi sentimenti, la tua inadeguatezza resa suono e restituitati come l’onda da un maremoto. C’è la cupa energia di un album come “Bug” che, quasi per scherzo, sembra illuminare la notte di una nuova alba, tra Freak Show e No Bones, con il suo riff inconfondibile. C’è la voglia di lanciarsi nel pogo quando Little Fury Things ti invade con quel phaser che si impasta col wha. Sui brani malati e dolenti di “You’re living all over me” non ci si può contenere, sarebbe come vivere a metà, lasciarsi da parte per chissà cosa. Le schitarrate sollevano quintali di polvere per l’immancabile cover di Just Like Heaven, così vera e così diversa dall’originale, così pura da essere altra da sè. C’è tempo ancora per altra furia, altri brani biascicati, fino a che le tue povere orecchie non possono non sanguinare per tanta bellezza: Sludgefeast chiude il concerto tra la commozione generale e vorresti goderti quel dolore ancora un po’, lasciarti trafiggere come da una lama di coltello.
Alla fine la nuvola di polvere evapora e restano solo le tue orecchie nude e ovattate. La musica è finita nel migliore dei modi, senza rimpianti, tranne quello di essere stati così pochi da non arrivare all’altezza del mixer. Poco male, l’importante è esserci stati ed aver assistito, ancora una volta, a qualcosa di veramente epico, come solo la storia del rock sa essere.
(Foto a cura di Silvia M. Catalano)