Nella notte tra il 27 e il 28 giugno 1969 la polizia newyorchese fece irruzione allo Stonewall Inn, un gay bar nel Greenwich Village, come accadeva di consueto in quegli anni. Quella notte, però, i frequentatori del bar risposero ai soprusi e agli insulti degli agenti dando vita a una ribellione inaspettata ma necessaria, che durò tre giorni. I moti di Stonewall vengono celebrati ogni anno a Giugno e con loro l’orgoglio di tutta la comunità LGBTQ+. Durante il Pride Month del 2020, la piattaforma di streaming Netflix ha lanciato Disclosure, un documentario diretto da Sam Feder sulla rappresentazione delle persone transgender nel cinema e nella televisione.
Disclosure racconta in un’unica carrellata diversi esempi delle modalità in cui le persone transessuali sono state descritte e rappresentate nel corso della storia del cinema, insieme alle testimonianze e alle interviste di professionisti e professioniste del settore appartenenti alla comunità trans. Sebbene il documentario si focalizzi sull’ambiente cinematografico, evidenzia bene il paradosso della visibilità mediatica che travolge tutte le minoranze. La visibilità è concessa sempre a una ristretta cerchia di persone con modalità e tempistiche dettate da altri: nella comunità LGBTQ+ “a few people are elevated and the majority of people are still struggling” dice la produttrice esecutiva di Disclosure Laverne Cox – famosa per aver prestato volto all’intensa Sophia Burset in Orange is the new Black. A rendere il paradosso ancora più grande è la violenza a cui la visibilità espone. Le persone trans continuano a subire violenze e vessazioni senza precedenti. Solo nei primi mesi del 2020 negli Stati Uniti sono state violentemente uccise 14 persone transessuali e/o non-binarie e continuano a verificarsi, soprattutto online, la formazione di gruppi che incitano all’odio verso le persone LGBTQ+.
Le informazioni e le immagini cui disponiamo provengono per la stragrande maggioranza dai media, i quali si rifanno spesso a stereotipi secolarizzati dal privilegio delle categorie dominanti. Pregiudizi e stereotipi si sovrappongono. Ad esempio la rappresentazione delle donne trans sullo schermo è nettamente maggiore – in termini di presenze – rispetto agli uomini, in quanto il corpo femminile è da sempre più mercificabile: il corpo della donna trans è infatti iper-sessualizzato, spesso relegato al ruolo di prostituta o di vittima di crimini violenti dopo l’atto sessuale. Il corpo non conforme alle regole della società patriarcale è marginalizzato o mostrato come ingannevole: inganno che, dopo essere svelato, deve provocare disgusto e repulsione. Moltissimi prodotti cinematografici collegano il corpo transgender alla nausea e al vomito. Significativa in Disclosure la scena tratta da Ace Ventura con Jim Carrey in cui il protagonista, dopo aver capito di aver baciato una donna transessuale, s’induce conati di vomito con uno sturalavandini e dà fuoco ai vestiti, come per purificarsi da un atto osceno. La narrativa della vittima transgender viene anche esplicata nei medical drama, in cui la persona transessuale deve essere curata per problemi legati alla fase di transizione (l’assunzione di ormoni, ad esempio) o all’apparato genitale biologico.
Un altro problema fondamentale che coinvolge la rappresentazione cinematografica è la scelta in moltissimi casi di ingaggiare attori e attrici cisgender – per cis s’intende la coesione tra identità personale e il genere biologico alla nascita – per interpretare personaggi transessuali, basti pensare a Eddie Redmayne in The Danish Girl o Jared Leto in Dallas Buyer Club, le cui interpretazioni sono magistrali ma sono scelte che inevitabilmente mettono in discussione la giusta rappresentazione e appiattiscono l’identità transessuale (discorso analogo, ad esempio, si può fare per quanto riguarda l’utilizzo di doppiatori bianchi per personaggi di diverse origini etniche – di recente Griffin e Simpson ne hanno promosso lo stop). L’influenza che i media operano sugli spettatori può determinare o cambiare le condizioni reali della vita delle persone discriminate, il che necessita la ridistribuzione in un movimento più ampio nel sociale. Le persone trans, come anche tante altre minoranze, hanno ben pochi modelli mediatici a cui ispirarsi, se non scene caricaturali per far ridere il pubblico o il rigetto e il disprezzo di cui sono vittime. Più inclusività sullo schermo comporta una minore esclusività al di fuori: con più esempi è naturalmente più facile identificarsi, riconoscersi e accettarsi. Prodotti come Disclosure, RuPaul’s Drag Race, ma soprattutto Pose – che ha il vanto di essere la prima serie tv con il cast a prevalenza transessuale – rivoluzionano i canoni della normalità sullo schermo esaltando la bellezza dell’estetica queer e raccontandone le difficoltà e le emarginazioni. È pur vero che una maggiore rappresentazione positiva e la conseguente visibilità non assicurano il cambiamento e una piena inclusione, ma agiscono come mezzi per raggiungere un fine. Disclosure va in questa direzione.