Forse V13 non è il miglior libro di Emmanuel Carrère, ma lo scrittore francese sa come tenere il lettore incollato alla pagina persino quando racconta una sessione di yoga, figuriamoci se decide di scrivere del processo per gli attentati di quel maledetto Venerdì-13 novembre del 2015 a Parigi. Quando i suoi reportage come inviato al V13 hanno cominciato a circolare sulle pagine de L’Obs, La Repubblica, El País, gli articoli avevano smosso subito curiosità: cosa ci fa Carrère come inviato al grande processo francese sugli attentati del novembre 2015? La risposta era piuttosto intuitiva: sta scrivendo un libro, i reportage verranno presto raccolti in un volume. È andata così, e dopo la pubblicazione in Francia lo scorso anno, V13 – Cronaca giudiziaria, è arrivato in libreria anche in italiano per Adelphi.
Per chi avesse seguito la cronaca a tappe più o meno occasionali sulle pagine dei giornali, Carrère promette delle aggiunte al materiale raccolto nei nove mesi in cui ha seguito il processo, tra il 2021 e il 2022. Restano alcuni dei momenti topici del suo racconto, il fastoso arrivo di Hollande in aula, gli sguardi concentrati a osservare l’unico superstite del commando del 13 novembre, Salah Abdeslam. Ritroviamo inoltre la spiacevole sensazione di mettere l’occhio nello spioncino dell’orrore quando leggiamo la testimonianza di una vittima o di un sopravvissuto. Proprio in quel punto ci scopriamo feriti. Non per bravura di Carrére, ma per una naturale tendenza umana a immedesimarsi nel dolore altrui.
Quando lo scrittore lascia la parola alle vittime, alle loro storie, ai racconti di come hanno perduto qualcuno, una parte del proprio corpo, o la pace interiore, il lettore potrebbe desiderare di disertare il libro e chiuderlo. È una sensazione naturale: gli attacchi del 13 novembre hanno colpito una quotidianità, la sala di un concerto al Bataclan, i locali affollati delle tarde serate in città. Si resta di sasso davanti al racconto di Maya, che si è beccata una pallottola mentre stava bevendo in compagnia di tre amici morti ammazzati al suo fianco. Sono passati otto anni, non c’è quasi niente che non abbiamo letto o immaginato a proposito di quella notte folle. Eppure, V13 riesce a essere emozionale, agire addosso al lettore. Chiudere il libro per scarsa resistenza però non avrebbe senso.
V13 non è un romanzo sulle vittime degli attentati, ma la cronaca giudiziaria di un processo scritta con il passo narrativo di Carrère. Nel racconto non ci sono solo le vittime, i sopravvissuti, ma anche i carnefici, i complici, la comunità di Molenbeek, la polizia belga, gli avvocati di difesa e di accusa, la Corte, i giornalisti. V13 è un racconto corale di espiazione: un tendersi la mano per superare un momento collettivamente doloroso. Carrère scrive per dire: stringiamoci intorno a questa storia, scaviamola, esaminiamo gli errori, riduciamola all’osso se possibile, e facciamo che non si ripeta. Nel tentativo di mettere insieme questo racconto corale privo di divinità, Carrère riesce a evitare di cadere nell’enfasi di un racconto della nazione: il processo è un rituale collettivo che agisce come una messa purificatrice; lo scrittore è il testimone del rituale. Colui che osserva tutti i testimoni e le parti in gioco, e diventa il narratore del racconto: il punto di vista preferito di Carrère nei suoi romanzi.
Emmanuel Carrère è sempre stato affascinato dai meccanismi più segreti e intimi della mente umana. Nell’Avversario racconta la storia di un uomo che a forza di inscenare una vita di menzogne diventa un assassino. Con tutto il materiale che muove il processo V13 era facile cadere nella trappola di una ricerca ossessiva sui meccanismi della mente di chi spara a freddo dentro una sala concerti, e si fa esplodere. Ma Carrère fugge dalla retorica della ricerca sul male, anche quando prova ad affondare nelle sue profondità. La realtà è più inspiegabile e sfuggente di come si può ordinarla sulla carta. Quello che può fare lo scrittore è dilatare il punto di vista, senza inondare di giudizi la pagina. Così Carrère ricorda le speranze della primavera araba, la guerra in Siria, i suoi effetti devastanti, le lotte intestine tra l’Isis, Assad, e i fronti di liberazione, l’ideologia religiosa e politica che può ficcarsi nella testa dei giovani più inquieti, un breve moto di rivalsa che si trasforma in senso di appartenenza, il branco che si mette in azione. E poi le sparatorie, i corpi, il sangue.
V13 non lenisce, non blandisce il lettore, ma descrive. Le arringhe degli avvocati, le intercettazioni, lo sfogo di una madre che ha perduto sua figlia, il sospetto che ci siano finiti di mezzo pure innocenti tra gli accusati, le vite rovinate dei sopravvissuti, il diritto alla difesa, i risarcimenti per le vittime, la ragazza che pensa, “morirò a un concerto di rednecks californiani che mi è costato trenta euro e settanta”. Nel tripudio episodico di V13 ogni cosa è ridotta all’essenziale, e di tanto in tanto incappiamo in una ridondanza. Alla fine della lettura può restare la sensazione che il sangue versato sia insensato e senza scopo. Che persino il processo potrebbe non avere senso, se gli esecutori degli attentati sono morti, e chi è rimasto colpito non tornerà. Se chiudendo La Traversata di Philippe Lançon ci eravamo sentiti scossi, miserabili, ma in un certo senso graziati dalla potenza delle parole e della letteratura che accorrevano in soccorso del giornalista francese vittima dell’attentato a Charlie Hebdo, nel nuovo libro di Carrère a tratti ci ritroviamo stretti tra le pareti di un tribunale dell’Île de la Cité, dove c’è solo il lezzo dei cadaveri e le lacrime di chi è rimasto vivo. Il lettore, ammaccato e stordito, compie comunque la traversata delle pagine. Il processo si chiude in una giornata d’estate: qualcuno ne è uscito purificato, per altri non c’è ancora una via di salvezza.