Non è per niente facile la vita culturale (e non) degli italiani all’estero. Da un lato, lo stato di expat, per usare un Rampinismo, rappresenta il corononamento naturale dell’esterofilia nostrana: quella dei “marciapiedi in svizzera sempre puliti” e del “l’ho letto su Cahiers du Cinema”, per intenderci. Dall’altro, però, tra chi se n’è andato resta sempre un briciolo di orgoglio (“ho viaggiato tanto, ma bella come l’Italia…”), o quantomeno di onestà intellettuale, nel rivendicare che l’encelfalogramma nella Terra dei Cachi non è piatto.
E lo ha dimostrato chiaramente questa prima edizione di FILL – Festival of Italian Literature in London, ideato da Marco Mancassola e Claudia Durastanti. Pur senza risparmiare stoccate alle storture di un paese che la distanza non sembra far altro che acuire, l’obiettivo del festival è stato profondamente costruttivo: cercare, un passo alla volta, di ricostrure una via italiana, multidisciplinare e contemporanea al mainstream. Non è poi un’ambizione così campata in aria: come ricorda Marco Delogu, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Londra, c’è stato un momento, cinquant’anni fa in cui l’industria cinematografica italiana esportava più di quella statunitense. Nostalgia a parte, la sensazione, seguendo gli incontri del festival, è che oggi, come allora, la chiave di volta sia il racconto della realtà, il riappropriarsi di una narrazione che e’ stata troppo a lungo subappaltata all’estero, dai Soprano fino al Bunga Bunga.
Piaccia o meno, un dibattito sulla letteratura italiana, all’estero, non può prescindere dal fenomeno del momento, dalla donna senza volto e identità (o forse sì?). Insomma, non può che essere Elena Ferrante la protagonista dell’incontro di apertura del Festival. Apprezzati da Franzen quanto dalla casalinga di Voghiera di Arbasiniana memoria, i libri di Ferrante sono forse i primi, negli ultimi cinquant’anni, ad aver varcato di prepotenza i confini italiani. E a imporsi per davvero nel dibattito, ad ogni latitudine geografica e culturale. Nonostante l’endorsement di Hillary Clinton. Un successo che Eva Ferri di E/O, che ha pubblicato L’Amica Geniale, si gode eccome, con una punta di orgoglio. Se c’è stata una Ferrante Fever, infatti, lo si deve allo sforzo delle case editrici indipendenti come E/O, che nel marketplace asessuato di Amazon cercano di formare una base di lettori preparata e caleidoscopica al tempo stesso. E che hanno scelto consapevolmente di non monetizzare il successo della Ferrante inondando il mercato di suoi cloni, a differenza di quanto accaduto a suo tempo con Kundera e il crime scandinavo a’ la’ Nesbø.
C’è una domanda, però, a cui anche gli ospiti del panel non sono riusciti a fornire una risposta: esiste una scena italiana all’estero? Se è innegabile che il numero di pubblicazioni in inglese nell’era Post-Ferrante (P.F.) è cresciuto esponenzialmente, i numeri di autori come Saviano, Cognetti o Lagioia rimangono incomparabili rispetto a quelli di un fenomeno mediatico come quello della Ferrante, molto individuale e difficilmente replicabile. La speranza è, come si diceva, di ripartire un passo alla volta, senza montarsi la testa, avendo bene in mente che la condizione necessaria per non predicare nel deserto è quella di avere un nucleo di lettori forti,che dia la spinta propulsiva, sia morale che di vendite. Merce rara, in Italia, oggi, soprattutto per quanto riguarda la poesia (anche se lascia ben sperare la traduzione del catalogo del fenomeno U.K. Kate Tempest da parte di I/O). L’essenza del successo di Elena Ferrante, per dirla con la scrittrice Gaia Servadio, sta nel suo essere una “nuova Malaparte”, nel saper raccontare una realtà vera, violenta e spesso nascosta. Ecco la lezione che potrebbero trarre i wannabe Ferrante, se ce ne sono (e ce ne sono).
Chi non ha dovuto scavare molto per immergersi nel torbido (detta così suona male, un attimo di pazienza), è stato Giancarlo De Cataldo, protagonista di un incontro con Hanif Kureishi. Se la quotidianità napoletana di Ferrante è qualcosa di sorprendente per il pubblico anglofono, gli scandali al gusto Vatican raccontati dallo scrittore di Romanzo Criminale sono ormai uno degli export italiani più in voga. Oltre a rappresentare, negli ultimi anni, una certezza da blockbuster, come testimoniano il successo di Philomena di Stephen Frears o de Il Caso Spotlight. Non a caso, quando gli americani di Amazon hanno acquistato a scatola chiusa, come non accadeva da decenni, l’adattamento seriale di Suburra – attori, sceneggiatori, costumi e scenografie incluse – l’unica richiesta è stata quella di espandere lo spazio dedicato al Vaticano e ai suoi scandali. A giudicare dal risultato finale, sono stati accontentati.
Come forse era prevedibile, De Cataldo e Kureishi, uno che di adattamenti cinematografici se ne intende, dai tempi di quel Buddha of Suburbia amato da Bowie, sono finiti a discutere della centralità del serial nel racconto del contemporaneo. Per farla semplice, dell’evergreen: “le serie TV sono il nuovo romanzo?”. Per farla breve, sì. Perchè (a) hanno i tempi tecnici per costruire una “storia sociale come faceva Balzac” (Kureishi) che il cinema non può avere, (b) hanno capito che la chiave di lettura del mondo, oggi, risiede in due parole: greed e fear. Insomma, il nichilismo di un professore di chimica come Walter White non è poi così lontano da quello di una città intera, Roma, dall’altra parte del mondo. De Cataldo non ha paura che questo finisca per fomentare una “mitologia della Magliana”, né per confermare un certo pregiudizio americano sull’Italia. . No, la sua è una preoccupazione puramente da scrittore: che questa fascinazione per il male finisca per saturarsi in un insopportabile manierismo. Un ragionamento simile a quello fatto dal mitico Enrico Vanzina in un interessante editoriale di qualche giorno fa.
Se De Cataldo ha avuto voce in capitolo nella gestazione della serie tratta da Suburra, indirizzando il lavoro degli sceneggiatori da dietro le quinte, non si può fare lo stesso discorso per Zerocalcare, ospite dell’evento di chiusura del festival. Il fumettista romano, infatti, dell’adattamento cinematografico de La Profezia dell’Armadillo non sa assolutamente nulla, se non che ci sta lavorando gente “caruccia”. Certo, il glitter, gli accolli (cit.) e le lungaggini – la sceneggiatura, scritta, tra gli altri, con Valerio Mastandrea è di 3-4 anni fa – del mondo del cinema de Roma sembrano difficilmente conciliabili con la quotidianità di Rebibbia. Ma c’è anche da dire che nell’ultimo anno Zerocalcare ha avuto altri pensieri: quando non veniva (paradossalmente) bombardato dalle richieste della causa curda, si è dedicato giorno e notte, come mai prima, alla realizzazione del suo nuovo lavoro, Macerie Prime, che uscirà a novembre.
A riguardo, le indiscrezioni emerse nell’incontro sono poche, complici i diktat della casa editrice, ma significative. A guidare Zerocalcare in questo ultimo progetto è stata infatti la consapevolezza di come i suoi personaggi, dopo anni, fossero diventati macchiette statiche, “come i Peanuts”. Lontani, tra l’altro, dalle quotidianità di chi quei disegni li ha ispirati e, nel frattempo, magari ha cambiato vita. Insomma, dalle premesse il nuovo libro sarà una sorta di sequel con il cast originale: la speranza (ma è quasi una certezza) è che l’ispirazione sia stata Trainspotting 2, più che Blues Brothers 2000.
Il festival si chiude nel fantastico bar del Coronet Theatre di Notting Hill, e non si può non celebrare quella che è a tutti gli effetti una sfida vinta da Durastanti&Mancassola, con ottimi feedback da parte dei presenti e 1500 biglietti venduti nonostante la poca pubblicità, il budget limitato e la concomitanza con lo storico festival di letteratura organizzato dal Southbank Centre. Festeggiando il successo della prima edizione, però, resta difficile non pensare agli ostacoli che un percorso come quello di FILL, che aspira a (ri)affermare la cultura italiana all’estero, si troverà ad affrontare. Alle questioni linguistiche e promozionali, di cui si è discusso ampiamente nel corso degli anni, si aggiunge inoltre una verità di fondo: che la nazionalità di chi scrive, fa musica, crea film non potrà mai assicurarne né la qualità, né la rilevanza per il contemporaneo. La cultura è un mondo di outsider, in cui alle difficoltà di creare una scena collettiva e coerente si aggiungono oggi le brame del corporate branding, dell’etichetta pronta a essere applicata sul prodotto finito. Al punto che parlare di controcultura, oggi, rischia di diventare retorico (come sottolineato da Rob Thomas e Valerio Mattioli nel loro panel, di cui vi parleremo in seguito). Esperienze come FILL, pero’, fanno ben sperare, perché hanno come punto focale del dibattito due cardini, ambizione e realismo, che sembravano completamente scomparse dal dibattito pubblico, e che sono linfa vitale per una rinascita culturale che vuole essere finalmente sostanza, e non luogo comune.