I Foxygen sono due, si sono formati nel 2005 quando il cantante Sam France e il chitarrista/tastierista Johnatan Rado avevano appena 15 anni e vengono da Los Angeles. È facile immaginarsi i due con pantaloni a zampa di cavallo e i capelli lunghi a coprire il viso, in un garage della periferia losangelina a suonare in malo modo le cover dei Kinks e dei New York Dolls, attirando gli sguardi preoccupati dei genitori e il disprezzo del vicinato. Una decina d’anni e tre album dopo, la situazione, con le debite proporzioni, non è poi cambiata così tanto.
Il primo album del gruppo Take The Kids Off Broadway esce nel 2011 dopo esser stati scoperti, grazie a una serie di ep autoprodotti, dal produttore Richard Swift che li porta a firmare con la Jagjaguwar. È nel 2013 però con We Are the 21st Century Ambassadors of Peace & Love che il gruppo riceve il plauso della critica, in particolare la recensione estremamente positiva di Pitchfork, che li seleziona come best new track e album, li proietta nel giro dei festival alternativi americani, facendone aumentare la popolarità in breve tempo (il colosso americano non è nuovo nel giocare un ruolo decisivo per l’esplosione di una band). Quell’album sarà un miscuglio disordinato ed imprevedibile di tutti i generi più popolari degli anni ’60 e ’70, di gruppi come gli Stones, i Kinks, i T-Rex , Fletwood Mac, Velvet Underground e tutti i produttori di hit di quegli anni che vi possono venire in mente. Sull’onda lunga di un successo sotto un certo punto di vista inedito per una band che fondamentalmente può rientrare tranquillamente nel genere un po’ auto celebrativo del classic rock, il gruppo pubblica un anno dopo l’ambizioso concept album ..and Star Power, per la durata di ben un’ora e venti minuti. La componente narrativa, che in un album di queste pretese è una parte assolutamente fondamentale, è molto confusa, sostenuta inoltre da una tessitura musicale piuttosto debole e sicuramente meno d’impatto rispetto al lavoro precedente. Insomma il progetto si rivela un fiasco, e se ne accorgono un po’ tutti, dai fans alle testate giornalistiche. A questo si accompagnano i problemi anche in sede live, con concerti cancellati all’ultimo secondo o portati avanti in modo molto difficoltoso, con uscite di scena improvvise o semplicemente esibizioni che dallo stretto punto di vista della performance lasciano molto a desiderare, con un Sam France più impegnato a ricercare le moves like jagger e quell’androginia alla Bowie che a cantare bene. In seguito a tutti questi problemi, coadiuvati da un millantato problema di dipendenza non meglio specificato dei due, e di screzi interni con Johanatan Rado che, difatti ha anche inaugurato una (poco fortunata) parentesi solista, il gruppo si prende una pausa discografica che è durata fino ad oggi.
Arriviamo dunque all’oggetto in questione, il quarto album in studio dei Foxygen, uscito sempre sotto Jagjaguwar ed intitolato Hang. Il duo losangelino ha prima di tutto fatto un passo indietro circa la durata del lavoro, passiamo dagli oltre ottanta minuti del suo predecessore agli appena trentadue dell’attuale. Ha lasciato perdere i concept confusi e pretenziosi, tornando a una forma più semplice ed efficace sotto tutti i punti di vista. La seconda notizia è la “svolta teatrale” del gruppo, che in questo lavoro aggiunge una vera e propria orchestra sinfonica. Non viene usata solo sporadicamente in qualche particolare passaggio, ma ricorre in quasi tutti i pezzi, arricchendoli di un colore tipicamente anni ’70 e facilmente riconducibile agli album più barocchi e, per l’appunto, di un gusto tipicamente teatrale e da musical broadwayiano, tipico di artisti come Bowie o Elton John. Le canzoni scorrono, comunque, in modo abbastanza fluido una dietro l’altra e la caratteristica lo-fi dei primi lavori è qui completamente abbandonata in favore di una produzione moderna, che valorizza i suoni di così tanti strumenti all’opera. In generale il disco sembra suonare meglio degli altri, soprattutto rispetto al suo deludente predecessore, puntando sull’immediatezza e al traino di pezzi come il singolo Follow The Leader, che apre anche il lavoro.
Se, da questo punto di vista, i Foxygen affermano di non essere ancora fuori dai giochi, e si riprendono una solidità (almeno in studio) che vista la loro storia recente sembrava essere una pura utopia, rimangono diversi interrogativi, gli stessi a dire il vero che in un modo o nell’altro accompagnano il lavoro di questa band fin dagli esordi. Sam France continua con la sua interpretazione macchiettista di mostri sacri, da Mick Jagger (Follow The Leader, Rise Up) a Lou Reed e Iggy Pop (Mss. Adams o Upon a Hill), con sprazzi dei già citati Bowie ed Elton John qui e lì un po’ a caso, un fattore che può risultare divertente alla prima canzone ma che estendendosi per tutto l’album diventa fastidioso se non imbarazzante. Il caso, o meglio il caos sembra, d’altronde, dominare sia le composizioni che gli arrangiamenti, anche se i Foxygen sembrano avere il dono di combinare un vero e proprio pasticcio con ciascun pezzo preso singolarmente ma di farli suonare tutti insieme in modo più o meno coerente. Pezzi come America, che parte come un classico di Natale e si trasforma in una ballata swing-jazz e poi ancora in una furiosa cavalcata orchestrale, o Upon a Hill, che ricorda una Perfect Day accelerata e che, all’improvviso, si evolve senza alcun apparente motivo in un forsennato ritmo gipsy, arrivando addirittura a ricordare i Gogol Bordello.
Insomma i Foxygen sono tornati ai loro standard qualitativi dopo la brutta prova di …And Star Power, con un cambio non troppo drastico nello stile, ma sufficiente a giustificare un nuovo album. C’è però forse da chiedersi quali siano questi standard. Il duo in un certo senso sembra rispecchiare la parte peggiore della società del 2017, quella che non importa se una cosa la fai bene, importa solo che tu la faccia, per identificarti in qualcosa senza eccessiva fatica e in modo da fornire in pasto ai followers una certa immagine di te stesso, in questo caso un misto fra nostalgici rocker ed hipster di ultimissima generazione, due categorie che d’altronde posseggono più di una caratteristica in comune. Perché in fin dei conti se andiamo a vedere ciò che dovrebbe essere il fulcro e la forza trainante di tutto, la musica, quella proposta dai Foxygen è fondamentalmente l’equivalente di un vinile con un artwork di copertina composto da un collage di famosi album di decenni fa, qualcosa che ci fa allo stesso tempo un po’ strano ma non ci dispiace fino in fondo. Il problema è che quando incuriositi e vogliosi di sentirlo andiamo a cercare il disco nella sua (all’apparenza) particolare custodia, dentro non ci troviamo niente.