La storia di Rebecca, supplente precaria, è una storia di eccellenza, ma in un percorso di studi che non riesce (ancora?) a garantirle un adeguato riscontro in ambito lavorativo. Una storia doppiamente interessante, essendo qui l’istruzione al tempo stesso rilevante nel percorso formativo e nelle difficoltà dell’accesso alla professione. Nel passaggio tra la fase dell’apprendimento e del conseguimento dei titoli di studio a quella del tirocinio e dell’insegnamento vero e proprio, insomma, c’è qualcosa che evidentemente non funziona.
Il percorso di studi di Rebecca è rimarchevole: laurea triennale a 21 anni; laurea specialistica a 23; massimo dei voti e preparazione tale da rendere in teoria praticabile anche la strada della ricerca universitaria. Solo in teoria, però, perché, in pratica, per spiacevoli vicende di baronia, la prospettiva di un dottorato in Italia, per lei, diventa sostanzialmente impercorribile.
Ed è qui che Rebecca compie la sua prima grande scelta di vita: rinuncia alla prospettiva di una possibile carriera da ricercatrice all’estero e, invece di provare a unirsi alla pattuglia sempre più ampia dei cervelli in fuga, opta per un più oneroso e incognito percorso di abilitazione all’insegnamento nella suola secondaria.
Se, tuttavia, per ottenere l’abilitazione, Rebecca dovrà investire nel post-laurea ulteriore tempo e notevoli cifre (più di 12mila euro, in pochi anni), per poter poi svolgere stabilmente la professione di insegnante le sarà necessario anche scalare delle graduatorie nelle quali un elemento determinante è il punteggio che si consegue, appunto (e alquanto paradossalmente), anche prestando servizio di insegnamento.
E qui entra in gioco la possibilità di insegnare nella scuola privata. Presso un istituto paritario tutt’altro che elitario, che offre agli aspiranti insegnanti l’opportunità di fare punteggio in cambio di una ‘piccola’ rinuncia:
c’è solo un ‘piccolo’ dettaglio da chiarire, la retribuzione effettiva non sarà quella prevista dal contratto, ma una somma inferiore. Somma che, una volta maturato il punteggio per entrare in ruolo, potrai ampiamente recuperare da te, nel corso degli anni, quando ti sarai stabilizzata.
Così le dissero, a grandi linee, il giorno della prima assunzione.
Ma — e questo è un passaggio fondamentale della nostra storia — Rebecca, tutto sommato, valuta positivamente la sua esperienza nella scuola privata: è consapevole, cioè, della questione retributiva, ma reputa equo lo scambio. L’ottica è, ancora una volta, quella della necessità: in mancanza di valide alternative, la prospettiva di un lavoro precario e sottopagato assume piena rilevanza. Meglio lavorare a queste condizioni che non lavorare affatto, insomma. Condizione, va detto, di tutto vantaggio per il datore di lavoro che, in questo modo, lucra quote considerevoli di profitti, fuori dal bilancio.
Nondimeno, nei quattro anni trascorsi nella scuola privata per accumulare punteggio, Rebecca sul piano formativo e umano imparò molto di più di quanto avesse appreso lungo tutto il costosissimo percorso abilitante che, spesso, si era trovata a pensare che in realtà la stesse disabilitando.
Decisivo fu l’incontro coi ragazzi. Ragazzi che lei ama descrivere, citando un passaggio del Diario di scuola di Pennac:
«Chi erano i miei allievi? Alcuni di loro il genere di allievo che ero stato io alla loro età e che si trova un po’ in tutti gli istituti dove approdano i ragazzi e le ragazze eliminati dai licei rispettabili. Molti erano ripetenti e avevano scarsa stima di se stessi. Altri si sentivano semplicemente tagliati fuori, esclusi dal sistema. Alcuni avevano perduto del tutto il senso dello sforzo, della durata, della costrizione, insomma dell’impegno; lasciavano semplicemente che la vita se ne andasse».
A questi alunni, Rebecca cercò di trasmettere tutto quello che aveva imparato e, ciò nonostante, si sentì sempre in debito con loro. Come se, alla fine, avesse preso, e tenuto per sé, qualcosa in più di quanto fosse riuscita a dare. Quando decise di lasciare definitivamente la scuola privata paritaria fu soprattutto con loro che si sentì in torto. Quasi come se li stesse abbandonando anche lei questi soggetti problematici. Anche lei, dopo che già la scuola statale non era riuscita a formarli, garantendo loro per lo meno quel livello di istruzione basilare, utile a renderli cittadini adulti e responsabili.
La differenza fondamentale nel passaggio dalla scuola privata a quella statale fu sul piano della continuità didattica, quella che una cinica preside — tutta presa dalla nuova impostazione aziendalistica, prevista dalle più recenti riforme — aveva definito come “sciocco sentimentalismo”. Mentre nella privata, Rebecca aveva potuto insegnare alle sue classi e sviluppare con i suoi allievi tutto il programma, nella statale le toccavano solo delle supplenze. Quando e se c’erano docenti da sostituire, ovviamente. E anche nel caso di sostituzioni per malattia di lungo periodo, la continuità dell’incarico di supplenza non era affatto garantita:
dispiace per la continuità didattica della supplente, ma in assenza di un certificato medico relativo al periodo di ferie, la supplenza si interrompe e, se il titolare di cattedra ripresenta un nuovo certificato medico, noi dobbiamo chiedere una nuova sostituzione e toccherà a chi è avanti in graduatoria in quel momento. Anche se dovesse essere una nuova e diversa persona a coprire l’incarico.
Questo, parola più, parola meno, era il ragionamento da dirigente scolastico statale, tutto improntato all’efficienza economica di ispirazione aziendalista, che le era capitato di sentire, più di una volta.
In ogni caso, l’esperienza maturata negli anni precedenti, nel privato, si rivelò assai utile negli anni delle supplenze intermittenti nella scuola statale. Quando toccò con mano, per la prima volta, cosa significasse dover gestire le cosiddette “classi pollaio”, il precedente contatto quotidiano con ragazzi difficili le permise di gestire senza grossi inconvenienti le ore trascorse in classi di circa 30 alunni, che le sembravano decisamente più tranquilli.
Dopo due anni di supplenze, poi, giunse infine anche la tanto agognata abilitazione. Non in tempo però per riuscire a partecipare all’unico concorso nazionale bandito in Italia nell’ultimo decennio. Quindi, abilitazione senza immissione in ruolo. Quindi ancora altri anni (quanti?) di supplenza.
E tutto questo, col paradosso di ritrovarsi a competere, al prossimo concorso nazionale, con chi potrebbe scavalcarla in graduatoria per l’elevato livello di punteggio che viene riconosciuto ai ricercatori che hanno diverse pubblicazioni all’attivo.
Ennesima distorsione di un comparto istruzione che, nel suo complesso, non riesce a valorizzare le eccellenze, non riesce a garantire stabilità e continuità didattica, e risulta caoticamente bloccato nel guado di un sistema in cui l’autonomia, troppo spesso, finisce col tradursi in aziendalismo — è davvero di un incremento dei poteri discrezionali dei presidi che la scuola italiana ha bisogno? — e il sistema di parificazione tra istituti privati e statali non offre ancora standard e criteri qualitativi uniformi sul piano nazionale.
A tutto detrimento della formazione culturale delle generazioni a venire. L’esatto contrario, cioè, di ciò di cui avrebbe urgentemente bisogno questo Paese.
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