Quando Sonia lesse l’annuncio di lavoro, pensò subito che un part-time trimestrale, con prospettive di stabilizzazione e avanzamento di carriera, poteva essere un buon inizio, dopo gli anni trascorsi tra esami universitari e qualche lavoretto saltuario, sempre rigorosamente in nero. Almeno stavolta c’era un contratto da applicare. Almeno stavolta ci sarebbero state delle garanzie, insomma. Certo era solo per tre mesi, ma ormai era quasi un miraggio un contratto stabile fin dalla prima assunzione. Certo, lavorando solo mezza giornata, anche la paga sarebbe stata dimezzata. Tuttavia sembrava una proposta seria, per come veniva prospettata, e pure la risposta, con la fissazione del colloquio, non si era fatta attendere molto.
Il colloquio fu rapido e andò molto bene, ma la prima brutta sorpresa Sonia la ebbe nel momento stesso in cui le comunicarono che era stata assunta:
puoi cominciare anche lunedì, ma è bene che tu capisca subito che le condizioni contrattuali sono soltanto indicative. In realtà noi abbiamo bisogno di una persona che operi full-time e con disponibilità ad avere molta flessibilità sugli orari. La stagione estiva è il momento in cui abbiamo i nostri picchi di attività e quindi tutte le volte in cui sarà necessario trattenersi al lavoro, anche oltre l’orario previsto per la fine della giornata lavorativa, tu dovrai fare qualche piccolo sacrificio, come del resto fanno tutti i tuoi colleghi.
Dunque il lavoro part-time era un lavoro a tempo pieno, ma sottopagato. E fin dall’inizio veniva specificato che c’era frequente ricorso al lavoro straordinario, senza alcuna maggiorazione salariale (le ore in più venivano pagate in nero e con una sorta di cottimo misto). E non c’era margine di trattativa, visto che tutti i dipendenti, a quanto pare, accettavano quelle condizioni senza fiatare.
Anche Sonia, alla fine, accettò: aveva bisogno di lavorare e quella paga, per quanto notevolmente inferiore a quanto le sarebbe spettato, comunque era meglio di niente. E, d’altra parte, sul piano psicologico, il riferimento ai colleghi che si sacrificavano per l’azienda, esercitava una pressione non indifferente: se ce la fanno loro, perché non ce la dovrei fare anch’io, pensava Sonia, mossa dall’orgoglio.
L’impatto coi colleghi, però, fu devastante. Sonia scoprì subito che lei era l’unica neoassunta, in un gruppo composto da persone che si conoscevano già da anni e che avevano anche legami extra lavorativi. L’affiancamento del collega più esperto si ridusse a una serie di consigli e suggerimenti dati tutti il primo giorno. Dal secondo giorno in avanti, dovette procedere da sola, facendo affidamento, in sostanza, soltanto sulla sua capacità di relazionarsi in maniera empatica con i clienti.
Nondimeno, i ritmi lavorativi erano l’esatto contrario di quanto veniva prospettato nell’annuncio:
mai meno di otto ore al giorno, senza pause, nemmeno per pranzare o andare in bagno (quando ti scappava dovevi chiedere al cliente che stavi servendo — o al successivo — se aveva la pazienza di aspettare cinque minuti). Le file di clienti allo sportello erano letteralmente interminabili. Nei giorni di massima affluenza si chiudeva tutto a notte fonda, due ore dopo mezzanotte, per riaprire alle 8 del mattino seguente.
Sonia, però, più che i ritmi massacranti soffriva il clima da nonnismo strisciante messo in atto dai colleghi. Dalle piccole cose, come poteva essere una colazione, prima di iniziare il lavoro, offerta a tutti, ma non a lei; a quelle più rilevanti come le urla mortificanti, fatte davanti alla clientela, invece di un discreto rimprovero, in quei rari casi in cui non eseguiva alla perfezione le mansioni che le erano state assegnate.
Tutto questo nonostante le condizioni di lavoro fossero effettivamente probanti.
La temperatura, a causa di un impianto centralizzato di climatizzazione che non funzionava da tempo immemore, a fine luglio superava ampiamente i 40 gradi. L’ausilio dei ventilatori era il classico rimedio peggiore del male: Sonia stessa patì un malanno da raffreddamento come conseguenza di una giornata di lavoro caldissima a stretto contatto con un ventilatore fisso. Rimase afona e ciò nonostante si presentò al lavoro regolarmente perché il capo non avrebbe tollerato assenze, stante i carichi di lavoro da coprire in quel periodo.
Un atteggiamento stoico che, però, non le permise di guadagnarsi la fiducia del datore di lavoro. Quando mancavano circa dieci giorni alla scadenza dei tre mesi di contratto, con i ritmi di lavoro che finalmente cominciavano a divenire più accettabili, il piccolo imprenditore la prese in disparte per darle alcune comunicazioni urgenti:
come avrai potuto notare, la stagione estiva volge al termine e i clienti stanno diminuendo a vista d’occhio. A questo punto noi non abbiamo più bisogno di un lavoratore aggiuntivo: a fine giornata puoi raccogliere le tue cose e avrai quello che ti spetta per le ultime tre settimane di lavoro, inclusa la paga odierna; eventualmente ti ricontatteremo l’anno prossimo, per coprire ancora una volta i carichi di lavoro in eccesso che ci sono nel periodo estivo.
Sonia tutto si sarebbe aspettato tranne questa sorta di licenziamento a pochi giorni dalla scadenza naturale del contratto. La sua reazione fu ferma e immediata: completò regolarmente il turno, ma andò via senza prendere le sue cose e senza lasciarsi liquidare quanto dovuto. Giunta a casa cercò subito un po’ di informazioni in Rete e, il giorno seguente, si mise in contatto con una sede sindacale per farsi consigliare su come procedere. Quindi andò in azienda e comunicò al datore di lavoro che lei non aveva intenzione di andarsene prima della scadenza del contratto perché le servivano anche i soldi dell’ultima settimana di lavoro. Il capo, dopo un’iniziale sfuriata, prese contatto col proprio legale e, su suo consiglio, le diede una settimana di ferie retribuite e quindi l’intera paga dell’ultimo mese, secondo quanto pattuito.
Sempre meno di quanto le sarebbe spettato per legge, ovviamente. Ma, se non altro, con la piccola soddisfazione di andarsene da lì, avendo vinto quest’ultima battaglia, molto più utile per il suo orgoglio e per la sua dignità che per l’entità della somma concretamente ottenuta.
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