Frutto di ben sette anni di lavorazione da parte dello Studio 4 °C, a partire dal manga omonimo di Daisuke Igarashi, I figli del mare di Ayumu Watanabe (regista formatosi con i lungometraggi animati dedicati a Doraemon) funge da spartiacque nel panorama dell’animazione giapponese tra i più complessi e densi mai apparsi su uno schermo. La giovane Ruka è una ragazza orgogliosa e impulsiva appassionata di pallamano che, dopo esser stata esplusa dalla squadra per aver infortunato una compagna, si reca nel grande acquario della città dove lavora il padre. Lì fa la conoscenza con un ragazzo misterioso, Umi, che assieme al fratello Sora la conduce in un viaggio alla scoperta di un misterioso mondo subacqueo che segnerà per sempre le loro vite.
Il rapporto tra Ruka e i due fratelli costituisce il focus dell’intera pellicola, e sebbene Watanabe compia un notevole lavoro di caratterizzazione dei personaggi secondari, mai macchiettistici e sempre pertinenti all’interno della narrazione, è sui tre ragazzi che le attenzioni del pubblico devono concentrarsi. Il loro è un rapporto complesso, non privo di marcati contrasti esistenziali, inanellato di mille allegorie che si rifanno ai dolori della crescita e delle sue contradditorie fasi. In particolare, la scoperta della sessualità gioca un ruolo centrale, a partire dalla sottile vena omoerotica che pervade il legame tra Umi e Sora, per arrivare alla presenza del meteorite a fare da trasposizione dell’inseminazione. Ciò che colpisce delle allusioni al sesso è l’eleganza della loro grammatica estetica, spogliata di qualsivoglia accenno di maliziosità e, anzi, rivendicatrice di una parità di genere e di orientamento da vivere con candore e pacifica libertà.
Il tutto conduce con naturalezza alla filosofia alla Death Stranding degli ultimi venticinque minuti, vero e proprio film nel film, digressione psichedelica in cui l’insieme delle anime mistiche dell’opera si riallaccia a una gigantesca sintesi di vari discorsi sulla maternità, la ciclicità della vita nel concetto di (ri)nascita (esplorato abbondantemente in Akira, capolavoro cyberpunk di Katsuhiro Otomo), e l’interscambio simbiotico tra le forze universali di cielo e mare con il suo influsso ecologista, interpretato però dagli umani come catastrofe imminente da attendere con estremo timore. I confini tra cielo e mare vengono abbattuti, l’acqua diviene un contenitore di memorie universali, e le creature marine si fanno spettatrici e protagoniste di un evento lisergico molto vicino al misticismo astratto dei finali del 2001 di Stanley Kubrick o, di nuovo, di Akira (impossibile non accostare la battuta “Io sono Universo” a quel “Io sono Tetsuo” che rimbombava nel finale del film di Otomo, preannunciando un nuovo Big Bang).
La potenza visiva dell’atto conclusivo, oltre che del look dell’intero film, è stata resa possibile da un sopraffino lavoro di animazione tradizionale, effetti speciali al pc e fotografia che ben ha ricreato per lo schermo l’impressionante impatto delle tavole di Igarashi, messo in risalto da un’esplosione di luce e colore sottolineato dalla regia “kubrickiana” di Watanabe, contrassegnato da un uso poetico della carrellata, dell’inquadratura fondamentale per lo svelamento dei dettagli, e di simmetrie molto particolari. La minimale colonna sonora di Joe Hisaichi, veterano dello Studio Gibli, si amalgama in un flusso di motivi e variazioni per strings e pianoforte liquescenti che incrementano l’impatto di una pellicola non facile, da vivere sulla propria pelle per lasciarsi confondere e ammaliare da essa, con tante cose belle da vedere, ascoltare e cogliere.