«Come scovo i miei luoghi? Li scovo sempre cercando un limite, un limite nuovo, ma non per un senso di superiorità nel volerlo scavalcare o nel volerlo sfidare, ma per volerlo comprendere, per voler capire che cosa c’è al limite, come si può vivere in questi luoghi»
Ci sono storie di resistenza, storie lontanissime e affascinanti, come quelle racchiuse ne «I Nascosti». Un reportage fotografico e narrativo senza precedenti, edito da minimum fax, che racconta la vita dei Sami, popolo di etnia nomade, diviso dalle frontiere di quattro stati del grande nord (Norvegia, Svezia, Russia e Finlandia).
Il reportage, realizzato nella contea del Finmark, è frutto di quattro lunghi anni di lavoro e altrettanti viaggi, necessari per raccogliere il materiale e per entrare in connessione con i volti e le anime del luogo.
Abbiamo fatto dieci domande a Valentina Tamborra, fotografa e giornalista, autrice di questo splendido volume. Con lei abbiamo parlato di storie, di tradizioni ancestrali, di attese, confini e immensi paesaggi artici.
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Ciao Valentina, la prima domanda che mi piacerebbe farti è: come hai incontrato la storia del popolo Sami e perché hai deciso di raccontarla?
Dei Sami sapevo solo ciò che è generalmente noto: un popolo nomade, dedito all’allevamento delle renne e poco altro. Poi, durante un viaggio stampa in Norvegia, ho conosciuto Ørjan Marakatt Bertelsen, un fotografo di origine sami.
Io e Ørjan abbiamo condiviso esperienze simili; quindi, quando abbiamo iniziato a raccontarci le reciproche destinazioni e il motivo per cui avevamo scelto un certo mestiere, abbiamo individuato diversi punti in comune. Lui mi ha invitato a visitare i suoi luoghi e a conoscere meglio la storia dei Sami per poi raccontarla. Era marzo quando l’ho conosciuto, ad agosto l’ho raggiunto a Mandale, nella valle di Mandalen, è proprio lì che è partita questa avventura.
Quando ho deciso di iniziare, l’ho fatto spinta dalla curiosità che sempre mi muove e dalla volontà di conoscere meglio un popolo con una storia antichissima di cui sapevo veramente poco. Quando poi sono arrivata nel Finnmark ho capito che era una storia ancora più ricca, ancora più vicina anche al mio vissuto personale, di quello che potessi pensare all’inizio. Da lì è partito un viaggio che è durato quattro anni e che mi ha portato, nel quinto, a scrivere il libro.
Durante i tuoi viaggi per realizzare «I Nascosti» hai fatto degli incontri che ritieni particolarmente significativi o toccanti? Ce ne racconti uno?
In realtà raccontarne uno solo è veramente difficile.
Tutti gli incontri che ho fatto sono stati emozionanti e particolari. Uno su tutti, quello con Arnt. Arnt si è rivelato molto di più di una buona guida: ha saputo leggermi dentro.
Solo più avanti, quando sono tornata a Mandalen, ho scoperto che Arnt era uno sciamano, un uomo che detiene le antiche arti, gli antichi saperi del popolo Sami.
Mi viene poi in mente Oliva, una signora di più di novant’anni che mi ha detto che qualsiasi cosa abbiano fatto i norvegesi, lei in qualche modo è andata oltre; che è sempre stata lì, ha sempre parlato la sua lingua e ha sempre voluto continuare a pensare alla sua identità con orgoglio. Si tratta di una cosa particolarmente toccante, sapendo che cosa ha vissuto il popolo Sami.
C’è stato poi un incontro con un oggetto che è avvenuto nel museo di Karasjok: un tamburo, restituito dal Regno di Danimarca. Questo tamburo aveva incisi oltre i simboli Sami, le iniziali del re della Regina di Danimarca.
Il tamburo per i Sami è un oggetto che possiede un’anima. La direttrice del museo di Karasjok – una donna straordinaria – prima di potermelo mostrare ha chiesto al tamburo il permesso.
Il tamburo era racchiuso in una teca e coperto da un panno. La direttrice si è raccolta come in preghiera, ha poi chiuso gli occhi. Dopo alcuni minuti, mi ha detto: “Il tamburo dice che puoi vederlo”.
Il tamburo apparteneva a uno sciamano ucciso senza neppure un processo, durante il periodo di cristianizzazione del popolo Sami. E lei mi diceva: “Ecco, ora lo sciamano è tornato a casa insieme al suo tamburo”.
Mi viene in mente anche Terje, che nel libro compare più volte, lui è stato amico e guida in tutti e quattro gli anni in cui sono tornata. Mi ha condotta nella tundra, mi ha fatto scoprire come si vede al buio, la tundra di notte. Abbiamo affrontato insieme una tempesta artica spaventosa. Una persona a cui mi sono affidata totalmente.
Gli incontri sono davvero troppi, quindi anche sceglierne uno è difficilissimo.
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Tra gli elementi più evidenti del popolo Sami c’è la loro difficoltà di essere anche solo visti. Ti sei mai sentita così?
Eh, questa è una domanda un po’ particolare. Non saprei da che punto prenderla. Mi spiego, sono cresciuta sentendomi sempre di appartenere a una terra di mezzo. Un po’ perché da parte di mamma ho origini di una terra di confine: Topolò, questo paese sperduto fra i monti che sta in Italia, ma al confine con la Slovenia e quindi in casa mia si parlava italiano e sloveno e non si era né abbastanza italiani né abbastanza sloveni. In fondo quindi si apparteneva a una terra di mezzo.
Notoriamente, chi sta nelle terre di mezzo è un “non visto” per definizione. Un “non visto” o, se viene visto, etichettato. Quindi un pochino questa cosa mi appartiene. Forse è anche un legame che ho un po’ con il popolo Sami, come quello della perdita della lingua. Io, lo sloveno, poi non l’ho imparato, nonostante in casa si parlasse; si parlava magari tra i miei, tra mia nonna, mia bisnonna, mia mamma. Ma non con me.
Crescendo ho deciso di occuparmi sempre di argomenti di margine, di confine, di terre di mezzo, sotto tutti i punti di vista. E questo porta a volte più che a essere non vista, a non voler essere vista. Ci sono momenti in cui ti rendi conto che il tuo lavoro è scomodo e allora, se il lavoro diventa scomodo, è meglio voltare la faccia dall’altra parte.
Il modo in cui percepiamo le cose è condizionato dai nostri concetti, dagli schemi che creiamo con il linguaggio. I Sami hanno avuto la forza di opporsi agli schemi, a una costruzione confezionata, ripensando al loro concetto di “casa”. Dove è per te “casa”?
Casa per me è dovunque ci siano le persone che amo e che stimo. Io oggi vivo vicino a Milano, ma non sento un’appartenenza stretta con questa città o col posto dove vivo, sento l’appartenenza alle persone. Quindi mi sento a casa un po’ ovunque, purché ci siano persone a cui voglio bene e che stimo. Per fortuna, per via della vita faccio, del mondo che ho scelto di abitare, ho veramente un po’ di cuore dappertutto, in molti posti.
Per fare un esempio, mi sento a casa in Iraq come mi sento a casa oltre il Circolo polare artico. Al punto che una volta, mentre ero oltre il Circolo polare artico, mi è arrivata una telefonata dall’Iraq. Era il periodo del Covid e al telefono mi si chiedeva se stessi bene, se la mia famiglia stesse bene. A chiamarmi era un’infermiera con cui avevo stretto un forte legame in Iraq. Per me è stata una cosa molto commovente.
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Come hai selezionato le storie da raccontare e le immagini da includere nel volume? Quanto è lungo il processo creativo che porta alla creazione di un volume come quello che sfoglio?
Questa è una domanda importante perché mi porta a dire una cosa fondamentale: per me il reportage è il genere più collettivo che esista in fotografia.
Sicuramente, nei quattro anni di percorso mi sono trovata a seguire delle strade. Tu hai una storia in mente, però poi in realtà quando lavori col materiale umano segui la storia, ovunque essa ti porti e quindi ho cambiato molte volte il canovaccio e l’idea.
Poi è arrivato il momento di mettere tutto insieme e in questo mi hanno aiutato due persone fondamentali: Luca Briasco per la parte testuale e Giuseppe Creti per la parte fotografica. Perché scrivere e mettere in ordine quattro anni di pensieri, incontri, fotografie, emozioni e parole è molto complesso. Quindi credo che da sola non sarei potuta arrivare a questo risultato. Devo molto a queste due persone, devo molto ovviamente a minimum fax che ha creduto in un progetto sicuramente particolare, anche per una casa editrice che non aveva mai curato un volume del genere.
Insomma, ci sono molti occhi, molte mani in questo libro, molti pensieri che mi hanno aiutato a dare forma a qualcosa che ho amato profondamente, che è una parte importante della mia vita.
I tuoi luoghi preferiti sono quelli in cui c’è l’assoluto, i luoghi in cui i mondi si incrociano, senza confini. Come li scovi?
Io credo sia un richiamo e una ricerca. Banalmente, sono arrivata all’Artico dopo aver indagato molte zone dove il confine era doloroso, era un confine di sofferenza, di emarginazione, di sangue, di dolore.
Ho lavorato sulla migrazione, col lavoro “La sottile linea rossa”, insieme a Medici Senza Frontiere; ho lavorato sui poveri, sui terremotati, anche se non mi piacciono le etichette.
A un certo punto volevo un mondo senza confini e mi sembrava di averlo scovato nell’Artico; quindi, ho raggiunto le isole Svalbard e da lì è iniziato un viaggio che non si è ancora fermato perché non lo ritengo in qualche modo concluso. Un viaggio prima di tutto dell’anima che continua e lavora dentro di me. L’Artico mi ha insegnato tante cose.
Quindi, come li scovo? Li scovo sempre cercando un limite, un limite nuovo, ma non per un senso di superiorità nel volerlo scavalcare o nel volerlo sfidare, ma per volerlo comprendere, per voler capire che cosa c’è al limite, come si può vivere in questi luoghi, in queste zone, che poi possono essere sia fisiche che mentali.
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Ne «I Nascosti» scrivi: «Sapere attendere è l’unico modo per fare pace con l’Artico». Che rapporto hai tu con l’attesa?
L’attesa per me è qualcosa che crea da sempre molta ansia.
Sono una persona in perenne movimento, estremamente curiosa. Qualcuno una volta mi ha definito addirittura “ingorda”, ma non la vedo come una cosa negativa.
Il nostro tempo è tutto sommato breve, quindi quando tu hai un tempo breve è doveroso usarlo al meglio e non sprecarlo. In questo senso l’attesa per lungo tempo per me è stata una perdita di tempo.
Poi ho capito che invece l’attesa fa parte di una cosa fondamentale, di una dote. È insita in una dote che è l’ascolto. E per fare il mio lavoro l’ascolto è fondamentale. Ecco, nell’Artico ho ricevuto una lezione fondamentale sull’attesa: l’ascolto. Perché l’Artico, cioè la natura, non è malvagia, come magari qualcuno dice quando accade qualcosa di difficile. La natura è indifferente, lei va avanti per i fatti suoi ed è potente, più potente di te. Quindi attendere è l’unico modo nell’Artico per fare pace con un posto così.
Attendere, ascoltare, ascoltare ciò che avviene attorno, non avere fretta, sapere che ci sono momenti in cui ti devi fermare anche se vorresti procedere, perché semplicemente non si può procedere e in quell’attesa poi trovi spunti, trovi i pensieri, trovi i momenti di grande serenità.
Durante il Covid mi trovavo nell’Artico e per me quello è stato un momento veramente molto particolare. L’attesa del ritorno per comprendere cosa accadeva a casa, l’attesa di una quarantena lontana da casa, oltre il Circolo polare artico, l’incontro con i pescatori dell’isola di Røst che mi hanno supportata e aiutata, un’altra forma dell’attendere che mi ha portata quando sono tornata a casa a non soffrire particolarmente il fatto di non poter uscire perché avevo comunque in qualche modo imparato ad aspettare il momento giusto, il momento corretto.
«Le storie, sono il nostro modo di esistere, di raccontare il mondo. Fino a quando raccontiamo, esistiamo». Una tua splendida citazione dal podcast «Vita da minimum» dalla quale traspare tutta la tua passione per le parole e il tuo passato e presente strettamente legati al mondo della comunicazione testuale e visiva. Quali sono gli elementi necessari per raccontare le storie, secondo te?
È una bellissima domanda e mi ricollego quella sopra. Per raccontare le storie ci vuole ascolto. Ascolto, prima di tutto, empatia sicuramente empatia praticata con la giusta dose però di comprensione di dove siamo, e di distacco. Distacco perché comunque dobbiamo cercare il più possibile, anche se non è possibile del tutto, di rimanere oggettivi quindi: ascolto, attesa, pazienza e una buona resistenza anche allo stress, perché ovviamente quando raccontiamo le storie delle persone raccontiamo mondi complessissimi e stratificati di cui possiamo comunque cogliere solo una piccola parte, non possiamo leggere tutto. E questo può essere a volte frustrante, no? Le storie continuano a esistere anche dopo di noi.
E poi ci vuole attenzione, curiosità, la voglia sincera di scoprire l’altro, cercando di non di tenere conto del nostro bias rispetto all’altro, perché c’è sempre un bias di cui tenere conto in questo senso.
Per tanto tempo ho usato il termine “sospensione del giudizio”, ma un’amica psicanalista mi ha fatto notare che una compiuta assenza di giudizio non è possibile, è possibile solo nella misura in cui teniamo conto del bias culturale che ci divide da un’altra persona, da un altro mondo. E allora a quel punto possiamo lavorare. Lavorare bene, insomma.
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In occasione de I Boreali (festival che a L’indiependente seguiamo sempre con interesse) sono state esposte nel Foyer del Teatro Franco Parenti le tue opere. Che esperienza è stata?
Esporre durante I Boreali è stata un’esperienza meravigliosa, io adoro Iperborea da sempre. Perché? Vabbè si sa, è una casa editrice che sceglie testi sempre di altissima qualità.
Esporre a I Boreali è stato molto simbolico e molto importante per me. Sono stata accolta proprio come parte di questa famiglia dell’estremo nord, diciamo così, e sono grata di questa possibilità perché non era scontata.
All’inaugurazione erano presenti tantissime persone, ovviamente era presente anche Luca Briasco di minimum un fax con cui abbiamo raccontato brevemente quello che è stato il libro. La mostra è stata molto visitata, c’è stato un grande riscontro e spero che questa esperienza venga replicata in futuro.
Hai in programma di esplorare altri progetti simili a “I Nascosti” in futuro, magari concentrati su altre comunità o culture? Quali sono le tue prossime sfide nella tua carriera di fotografa e giornalista?
Assolutamente sì, ho già in programma altri mondi.
Un nuovo lavoro l’ho iniziato in Spagna lo scorso agosto. Adesso sto valutando di raggiungere la Colombia per un’altra storia, ma resto aperta a ciò che arriva. Io ho sempre le antenne alzate. E quindi adesso sto lavorando intanto a un prossimo libro, sono vicina alla stesura finale. Un libro che in questo caso non sarà un libro fotografico. Sicuramente esplorerò altri mondi, altre culture, altre realtà, perché quello è un po’ ciò di cui mi nutro e non per forza dall’altra parte del mondo. E poi scriverò un altro libro. Questi sono i miei progetti.