Non è facile né gradevole scandagliare quest’abisso di malvagità, eppure io penso che lo si debba fare, perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani, potrà coinvolgere noi stessi o i nostri figli.
(Primo Levi, I sommersi e i salvati)
Il Figlio di Saul (Saul fia) dell’ungherese László Nemes, fresco vincitore di un Oscar e di un Golden Globe come Miglior Film Straniero e prima ancora in concorso a Cannes dove ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria è una di quelle rare opere contemporanee che permettono di recuperare il senso perduto di un certo cinema e di un certo approccio critico.
Quello che Le Monde ha definito con una certa enfasi “un punto di non ritorno nella storia del cinema” consente, infatti, di puntare nuovamente l’attenzione su questioni quali forma e soggetto, tecnica e moralità che una certa critica (ma ormai sarebbe più opportuno parlare di “recensori”) sempre più svogliata sembra aver lasciato a un passato non più così recente attraverso una clamorosa operazione di svendita culturale alla pancia del paese.
Jacques Rivette, uno dei padri della Nouvelle Vague nel giugno del 1961, sul n° 120 dei Cahiers du cinéma scriveva un articolo passato alla storia come “Dell’abiezione” in cui attaccava Kapò dell’italiano Gillo Pontecorvo.
Partendo dall’assunto di Theodor Adorno secondo cui “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie” Rivette riprende il concetto della rappresentazione dell’orrore scrivendo che “Nell’intraprendere un film su un soggetto come i campi di concentramento il minimo che si possa fare è porsi delle questioni preliminari. Come che sia, per incoerenza, stupidità o vigliaccheria, Pontecorvo risolutamente ha evitato di porsele”. L’attacco diretto e frontale proviene da un’epoca diversa, in cui diverso era il rapporto con il cinema, diverso il rapporto con gli uomini, diversi gli uomini stessi.
Rivette sa che il cinema deve porsi prima di tutto il problema del realismo (le réalisme absolu, ou ce qui peut en tenir lieu au cinéma, est ici impossibile) che è irrisolvibile nella sua impossibilità e che di conseguenza espone l’opera, per la sua incompiutezza, all’accusa d’immoralità (toute tentative dans cette direction est nécessairement inachevée «donc immorale»).
Riprendendo pur con una certa distanza la famosa massima di Godard “le carrellate sono una questione morale” (les travellings sont affaire de morale) Rivette si concentra sulla scena di Kapò in cui Emmanuelle Riva si uccide lanciandosi contro il filo spinato elettrificato e l’operatore compie una carrellata in avanti affinché la mano sollevata possa trovarsi nell’angolo dell’inquadratura finale (non è esattamente così a dire il vero ma Rivette non aveva youtube o dvd). Per Rivette “cet homme n’a droit qu’au plus profond mépris”, quest’uomo non merita altro che il più profondo disprezzo.
La prima accusa è quella rivolta all’idea di poter inscrivere la tragedia all’interno di un gesto estetico che si confonda con la bellezza. Più avanti, però, ed è quello che ci interessa maggiormente, Rivette espone, di fatto, una sua concezione del cinema:
“[…] quello che conta è il tono, l’accento, la sfumatura – vale a dire il punto di vista dell’uomo, dell’autore, male necessario, e l’atteggiamento che quell’uomo assume in rapporto a ciò che filma e in rapporto al mondo e a tutte le cose. […] fare un film è dunque mostrare certe cose, è nel medesimo tempo, nella medesima operazione mostrarle in una certa angolazione; i due atti sono rigorosamente inseparabili”.
Ancora una volta, dunque, non esiste un soggetto che sia irrappresentabile a patto che si compia il giusto lavoro attraverso le ton, ou l’accent, la nuance et le biais. Rappresentare il reale è sempre distorcerlo attraverso il doppio angolo di osservazione (quello del regista e quello dello spettatore).
“Qualsiasi approccio al fatto cinematografico che si impegni a sostituire l’aggiunta alla sintesi, l’analisi all’unità, ci rimanda subito a una retorica d’immagine che non ha a che fare con il fatto cinematografico più di quanto il disegno industriale abbia a che fare con la pittura”
Il cinema è mostrare le cose attraverso una certa angolazione, ed è quell’angolazione che detta la moralità o l’immoralità dell’operazione. L’Olocausto non è soggetto irrappresentabile, è lo sguardo su quella tragedia che ne può far scaturire l’indignazione morale.
Tanto Rivette che, trent’anni dopo, Serge Daney identificheranno in Notte e nebbia (Nuit et brouillard) di Alan Resnais il risultato più riuscito di tale operazione. Ma cos’è Notte e Nebbia? È un documentario del 1955 di trenta minuti che raccoglie immagini di repertorio dei campi di sterminio insieme a immagini degli stessi dopo la fine della guerra con un testo recitato da Michel Bouquet e scritto da Jean Cayrol, sopravvissuto allo sterminio. Ancora oggi, davanti alla carrellata su una montagna di capelli femminili accatastati, a cadaveri con le teste mozzate, agli esperimenti con il fosforo sugli internati del campo non c’è alcuna possibilità di cadere nel pericoloso meccanismo di assuefazione al dolore né tantomeno, davanti alla raccolta quasi scientifica e impassibile dei reperti, dall’accusa di spettacolarizzazione della sofferenza. Ma è possibile che un film di fiction sia capace a distanza di anni di non ricevere il pur virtuale biasimo di Rivette?
Le questioni preliminari che secondo Rivette, Pontecorvo non si era posto, László Nemes invece deve averle avute presenti fin dall’inizio. Trentotto anni al momento di girare il suo primo lungometraggio dopo l’esperienza come assistente alla regia del connazionale Béla Tarr per The man from London, il regista sembra aver condiviso in pieno l’osservazione secondo cui “ci sono cose che non possono essere affrontate se non nella paura e nel tremore” (dans la crainte et le tremblement), la morte è senza dubbio una di queste”.
Capovolgendo la famosa frase del Talmud “chi salva una vita salva il mondo intero”, Nemes sa che la morte del singolo, la sua sofferenza è quella dell’umanità tutta. Quell’enormità però, e l’orrore che ne consegue, impediscono in un certo modo di raccontarlo nella sua interezza, da qui la scelta di concentrarsi sull’orrore di un solo uomo che diventa l’orrore dei tanti. La grandezza di Nemes passa prima di tutto dal soggetto, Saul, infatti, è un sonderkommando nel campo di Auschwitz. Fa parte cioè di una delle pagine più controverse dei campi di sterminio, gli ebrei scelti tra i più forti e i più in salute che dovevano collaborare con le SS per una serie di compiti, principalmente quelli legati alle camere a gas e poi ai forni crematori. Primo Levi in I Sommersi e i Salvati (Einaudi, 2014 cui si rimanda per ulteriori approfondimenti) scrive: “Aver concepito ed organizzato i Sonderkommandos è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. […] Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti”.
Il Figlio di Saul si apre sull’immagine fuori fuoco di una vegetazione intorno al lager. Prima alcune voci in lontananza quindi ancora sfocate si avvicinano le prime figure. Dobbiamo aspettare che appaia Saul per avere finalmente la messa a fuoco sul suo volto.
Il film è in formato 4:3 (e come già in Ida di Pawlikowski e in Mommy di Dolan non si tratta di vezzi bensì di scelte tecniche volte a supportare un’idea cinematografica di fondo) così da lasciare lo sguardo dello spettatore unicamente sul protagonista ripreso in maniera serrata con una steadycam direttamente sulla nuca e spesso in lunghi primi piano di grande intensità (grazie a un lavoro, questo sì di straordinaria sintesi dell’attore e poeta ebreo ungherese Géza Röhrig). Il film abbandona tutto quell’immaginario scenografico tipico della narrazione dell’Olocausto da Schindler’s List a La Vita è bella. Non c’è neve, non ci sono fili spinati e torrette di avvistamento, non ci sono camerate lugubri con centinaia di donne e uomini scheletriti. Non ci sono campi lunghi, niente dell’immaginario classico associato alla shoah.
Nemes ci porta nelle viscere della macchina dei lager. Non sta certo a un film compiere un’analisi di cosa sia stato il nazismo e di cosa sia stata la soluzione finale ma va detto che Nemes riesce qui a concentrarsi sull’aspetto più atroce dello sterminio, che è quello industriale, quello della macchina da eliminazione. Veniamo precipitati fin dal principio dentro il ventre nauseabondo dello sterminio. Grazie all’idea della messa non a fuoco di tutto ciò che circonda il protagonista, assistiamo a questo continuo andare e venire di corpi che corrono e si svestono, di abiti da portare via, di cadaveri che sono trascinati e ammonticchiati, e poi bruciati, delle cenere che va gettata via nei fiumi. È tutto scuro e violento, seduti in sala sembra quasi di non respirare, si avverte quasi il calore, il caos, di questo corpo oscuro, di questo stomaco che ingurgita corpi e li distrugge. L’apparente non mostrare che poteva sembrare un limite o una resa si trasforma invece in uno spaventoso meccanismo di angoscia. Sul viso di Röhrig si stampa un’intensità assente che è di rara bellezza, la steadycam che lo segue distoglie lo sguardo dai volti, vediamo solo pezzi di corpi offuscati, braccia, gambe, genitali. Ma sono corpi vivi. Nemes non mostra l’orrore di quello che c’è già stato, ci mostra invece l’orrore di quello che sta per succedere. La morte è viva più che mai perché non è l’attesa del momento in cui verrà come una liberazione ma l’angoscia che colpisce all’improvviso, sono le persone che entrano nelle docce e quello che sentiamo, mentre è inquadrato solo Saul e gli altri sonderkommandos si affannano a prendere vestiti e averi personali, sono le urla e i colpi contro le porte di metallo (uno dei momenti più difficili da sopportare di Notti e Nebbie sono proprio le inquadrature dei soffitti delle camere a gas dove il cemento è stato graffiato dalle unghie dei disperati).
E’ proprio in una di queste camere che Saul trova un bambino che non è ancora morto e che di lì a poco sarà terminato da un medico. Saul si convince che quel bambino è suo figlio e cercherà un rabbino per il campo che possa dargli degna sepoltura. Saul fa, agisce ma la sola morte che noi davvero vediamo in faccia sullo schermo, quella del bambino a cui un medico ha stretto la gola per ovviare all’errore della macchina, all’errore della produzione di morte altro non è che lo specchio della morte del protagonista, Saul è già morto, e non perché sa che gli resta poco da vivere (i sonderkommandos venivano cambiati ogni quaranta giorni e i suoi “compagni” infatti organizzeranno un attentato per cercare di scappare via) ma perché è morta la sua anima, è morto il suo spirito davanti all’orrore. Il tentativo di seppellire suo figlio non ha nulla dell’elemento eroico, della retorica del gesto salvifico, in Saul non c’è alcuna salvezza.
È davanti a questo che cadono le possibili accuse di immoralità che Rivette attribuiva al lavoro cinematografico su certi temi. Sia chiaro, è evidente per quanto è scontato che l’arte non possa raccontare la realtà così com’è, ma nella scelta di un punto di vista, in quel sottrarre invece di aggiungere, Nemes sembra avere raggiunto un risultato che prima non si era mai visto, non in un film che abbandonasse il documentario per un’opera di finzione.
Non c’è singola scena in cui Nemes sembri mostrare compiacimento (anche soltanto estetico o virtuosistico), è mostrato l’essenziale, il resto non solo non è rappresentabile ma non deve essere rappresentato proprio per non correre il rischio di banalizzarlo o peggio ancora di creare assuefazione.
La grandezza della sua messinscena e in definitiva dunque dell’intero suo film è che tutto questo è costruito (per altro senza alcuna forzatura o ottusa fedeltà alla regola) come un unicum capace di fondere messaggio e forma, significato e significante senza alcun ricorso alla didascalia, alla retorica, a qualcosa da aggiungere al di fuori di quello che scorre sullo schermo. Non stupiscono allora, in questa direzione i nomi, grandissimi, che Nemes indica come suoi modelli: Antonioni, Tarkovsky, Bergman, Malick e Kubrick.
Seppellire i morti appare come la sola via di uscita, non la fuga per Saul, non il contatto che cercherà una donna con lui mentre si organizza l’attentato, ma la giusta sepoltura del figlio. Saul non si accontenta di recitare il Kaddish, perché Saul continua a cercare un senso altro, qualcosa che non è più presente nella vita del lager. Prendendo in prestito lo Stadio dello Specchio di Lacan, qui sembra capovolgersi: se in Lacan il bambino in braccio alla madre davanti a uno specchio prende consapevolezza del suo Io, nel lager davanti all’assenza di una madre, è la visione del bambino morto che risveglia in Saul la consapevolezza di sé, della sua condizione, non ingranaggio della macchina mortale ma nemmeno più uomo. Per Lacan il rapporto con il Padre s’interpone tra i due soggetti e attraverso l’interdizione dell’incesto pone le basi del vivere civile. E, infatti, Saul cercherà per tutto il film con una specie d’incantesimo che lo strappa all’afasia un rabbino che seppellisca il figlio. Davanti all’autorità che si fa sadica e indifferente, davanti alla Legge di Parola, che citando ancora Lacan, permette la trasmissione del desiderio e della vita e che qui invece s’interrompe, sospesa, Saul attraverso la morte del figlio tenta una disperata ricerca di qualcosa che sia in grado di dare un senso. Saul che, come tutti gli internati, non è più un uomo cerca in maniera inconscia un disperato grido che gli permetta di riconoscersi come ancora vivo, uomo tra gli uomini.
In fondo cos’è lo sterminio, cos’è la violazione dei corpi se non un’oscena orgia incestuosa? La parola del Padre, il linguaggio rappresenta il limite primo e solo paradigma di una strada sana verso la propria esistenza che protegga perpetuo e meccanicistico cedimento alla pulsione dei propri desideri. Nell’assenza di quella legge, lì dove la parola ormai è quella dello stato, svuotata di senso e ridotta a mero ordine Saul svuotato a sua volta di senso e di desiderio, non può far altro che cercare un’autorità, un padre, un Dio potremmo dire, una ragione e un credo perché lui da padre non è più in grado di dare nulla.
Saul per dirla con Pasolini è già morto non perché non possa più comunicare, ma perché non riesce più a essere compreso perché il mondo che è intorno a lui (il lager) si è posto fuori dalla civiltà. È Pasolini non è un riferimento a caso. Molto della prima parte, l’uso dei corpi, le luci, una certa oscurità, un senso costante d’isolamento, di paura e certezza dell’orrore fanno pensare a Salò (anche lì il male è possibile ponendosi lontano anche fisicamente dalla civiltà). Se Salò si concentrava sul sadismo del potere e sui volti dei carnefici (le vittime non a caso alla fine saranno visibili solo attraverso il filtro dei binocoli) in Saul tutto si concentra sulla vittima e sul volto di Röhrig, bellissimo e assente, costantemente attonito.
Saul ricorda per altri aspetti Il miracolo segreto di Borges, lì Hladík condannato a morte riesce a portare a termine il dramma che stava scrivendo nell’istante che lo separa dalla sua esecuzione, qui Saul come Hladík è separato dal resto dell’umanità nel suo cercare di portare a termine un’azione di cui gli altri non riescono a comprendere il senso. In questo Nemes riesce a centrare un altro aspetto fondamentale, la totale solitudine dei deportati, la sostanziale impossibilità a sentirsi vicino all’altro, la condizione sub umana che annulla ogni legame col prossimo, la disumanizzazione che il lager comporta e che Primo Levi ha descritto meglio di chiunque altro. Quando un altro sonderkommando gli dice “Hai tradito i vivi per seppellire un morto” è in un universo lontano anni luce da quello di Saul, non riesce a capire che è nel rifiuto della sopravvivenza e nella ricerca di un senso la sola strada per ritrovare qualcosa che assomigli alla vita. Per Nemes non c’è né speranza né possibile redenzione, l’olocausto è un punto di non ritorno, è un campo arido da cui non può nascere frutto. Nemes lo dice esplicitamente, due persone su tre non sono mai tornate dai campi ed è questo che noi volevamo raccontare. Non è una regola assoluta ma è l’angolazione attraverso cui ha scelto di raccontare chi non ce l’ha fatta e chi anche sopravvissuto non ha mai potuto dirsi salvo. Si torna al Talmud e al suo capovolgimento, la morte del singolo è la morte del mondo intero.
Il Figlio di Saul non solo non può risultare immorale, secondo l’ottica di Rivette, ma riesce nell’impresa di ricodificare la narrazione stessa dell’Olocausto non solo rifuggendo il luogo comune e offrendo allo spettatore una visione diversa ma cosa ben più importante restando nei confini coerenti della sua stessa opera. Ricordare, come vuole la Memoria non significa ripetere uno stanco rito celebrativo, ma significa attraverso un gesto nello stesso tempo estremo e delicatissimo dare nuova luce e nuovo significato al nostro (terrificante) passato.
Quelli di cui sappiamo, i miserabili manovali della strage, sono dunque gli altri, quelli che di volta in volta preferirono qualche settimana in più di vita (quale vita!) alla morte immediata, ma che in nessun caso si indussero, o furono indotti, ad uccidere di propria mano. Ripeto: credo che nessuno sia autorizzato a giudicarli, non chi ha conosciuto l’esperienza del Lager, tanto meno chi non l’ha conosciuta.
(Primo Levi, I sommersi e i salvati)