Il rock e’ importante, e portare una ventata di sana indie in una citta’ per certi versi commerciale, come puo’ essere Pescara, puo’ essere un’impresa, riuscita in gran parte a questo festival, nonostante le avversita’. Ecco a voi il diario di bordo di questi tre giorni di pura musica.
5 Luglio
Arrivo all’Indierocket Festival verso le sei, fa parecchio caldo nonostante l’orario tardo, i Fine Before You Came fanno le prove e i Die! Die! Die!, in ritardo a causa del guasto del loro furgoncino in zona Rimini, scaricano le loro attrezzature. La grafica e’ a tema Andrea Pazienza. Piu’ tardi, i Fine Before You Came vanno a fare il bagno e mi invitano, ed e’ cosi’ interessante la loro amicizia, il loro umorismo caustico probabilmente derivante dalle loro origine toscane e la loro gentilezza. “Io faccio il serigrafo, l’altro il grafico, lui ha una cantina di vini, suoniamo solo nel weekend. Io ho una bambina” mi spiega Jacopo Lietti, frontman del gruppo che per qualche ragione mi ha preso a simpatia. Da headliners guadagnano 100 euro per uno in una serata del genere. Insomma, bagno in mutande, cambio di mutande nel furgoncino, e subito si corre a vedere il concerto, i Chambers – molto amici con i FBYC – aprono e li si va a sentire.
L’energia dei pisani e’ notevole, il basso e’ stacanovista nel suo cercare il movimento sul palco e nel suono, Andrea spreme i polmoni in pezzi come “Musica del demanio”, ma il settaggio degli strumenti e’ molto impari, visto che la prima chitarra riesce ad ingoiare un basso settato in modo leggerissimo e la voce dello stesso Andrea, conferendo al live una certa monotonia. I Chambers fanno cenno varie volte ai fonici, come in seguito faranno anche i Death Of Anna Karina e i Die! Die! Die!, rimanendo pero’ in larga parte inascoltati – da noi, pochi fan soprattutto da Roma, e dai fonici.
Per i Death Of Anna Karina la storia e’ piu’ o meno la stessa, anche se questa volta e’ la base ritmica a farla da padrona, consentendo al gruppo di creare un’agevole atmosfera di pesantezza che diverte di piu’, soprattutto per la varieta’ dei pezzi proposti, che sono forse troppo pochi, solo cinque. Il pubblico accenna un po’ di moshpit.
Con i Die! Die! Die! l’andazzo cambia. Sara’ la notte, sara’ l’alcol che gira insieme al THC, sara’ l’hype creatosi attorno ai neozelandesi, ma il loro concerto si rivela un successo inaspettato. I Die! Die! Die! sono isterici, se Quentin Tarantino avesse fatto punk sarebbe stato loro – parole famose: ”Amiamo questo paese, e’ bellissimo… quasi quanto la Nuova Zelanda!”. Da premiare e’ anche la loro scenicita’, la loro inventiva nell’utilizzare tutto il palco: Andrew Wilson sbraita, salta sugli amplificatori, scavalca le transenne e si butta in mezzo alla folla, trascinandosi appresso il microfono e la chitarra, scatenando un pogo selvaggio e un generale apprezzamento tra il pubblico, che potrebbe anche essere fuffa visto che la musica non e’ granche’ (soliti problemi tecnici) ma e’ anche l’unico modo per essere ricordati, per riuscire a incidere.
Pausa piu’ lunga del solito, stavolta ci si mette cura e tutto e’ settato magnificamente, entrano i primi headliner: i Reiziger. Inscenano uno spettacolo che si serve di chitarre pesanti per ricordarci sempre che siamo in uno show hardcore, ma che poi si tradisce e si esalta nella psichedelia post-rock, cullata dalla voce vibrante e calma, intellettuale, di Geert, e scandita dal riff di “Yuma”, la seconda traccia dell’album (“Kodiak Station”) che hanno pubblicato dopo due lustri di silenzio. La monotonia iniziale che questo riff poteva dare viene spazzata via dalla forza annichilente delle singole canzoni, il riff diventa solamente il nostro nocchiero attraverso una piramide di sogni. Forse un po’ lungo, ma il pubblico e’ infatuato e sempre piu’ numeroso (alcune fan hanno quarant’anni, erano dieci anni che aspettavano, dicevano loro). A titolo personale, la migliore e’ stata “Grizzly People”, la quale ha anche avuto la proprieta’ di creare un coro per i fan da seguire, con conseguente miglioramento dell’atmosfera generale.
Dopo i Reiziger, ammetto di non essere stato caldissimo per l’arrivo dei Gazebo Penguins, i piu’ “morbidi” tra quelli in line-up, ma l’intesa eccellente dei membri e il loro seguito di fan, ai quali fanno cenno di andarsene dall’erbetta e di venire tutti sotto il palco, riescono a fare esplodere un live altrimenti non proprio eclatante o speciale; unici tra tutti, i Pinguini sono preda della sindrome del cantautorato: testi da accompagnare con chitarre sgangherate, che diventano inni generazionali parlando di situazioni di vita vissuta, con conseguente pubblico di giovanissimi alle stelle, che riaccende il pogo, salta, balla, “che bella eta’ di merda i quindic’anni“, ecc.
I Fine Before You Came chiudono la serata in grande stile: Jacopo arriva sul palco come un’altra persona, il sound e’ quello di un gruppo forte, ma sull’orlo di una crisi di nervi, teso, possente; c’e’ bisogno di scavalcare le transenne, decidono di comune accordo il gruppo e il pubblico, e Jacopo decide di fare da se’, iniziando a prendere persone dalla prima fila e a tirarle oltre, nello spazio riservato ai fotografi, per poi incantarle con un ghigno mefistofelico. Si getta a terra, si agita epilettico, diventa tutto rosso, il live intero diventa rosso, le chitarre si fanno frenetiche fino all’esplosione centrale originata da “Paese”, dove si libera anche la passione della folla, radunata di fronte al microfono per cantare, con voce sorprendentemente unisona, le parole piu’ famose. Peccato che l’organizzazione tenti di fare problemi – per carita’, anche giusti, si tratta di sicurezza – ai ragazzi al di la’ delle transenne e che essa poi vieti un bis, probabilmente a causa del tempo ristretto. Il live finisce a l’una spaccata, bisogna tacere e mettere a posto in due ore, problemi di quiete pubblica, peccato.
Bighellonando nel backstage, si trovano i Die! Die! Die! palesemente ubriachi, Andrew insiste per fare delle foto con la mia macchinetta fotografica, atteggiandosi a fotografo di moda, si gira un po’ e il chitarrista dei Chambers si diverte a mostrare ai Penguins un video comprendente James Brown, Michael Jackson strafatto e Prince ubriachissimo che crashano sullo stesso palco durante un’esibizione del primo, facendo una telecronaca (il chitarrista) in spiccato accento toscano, briao.
Il ricordo del primo giorno e’ quello di una serata densa all’insegna dell’hardcore e del rumore, una serata di lividi, muscoli, fuoco, che ci lascia soddisfatti e contenti, sfogati della nostra rabbia e col sorriso sulle labbra, con la sicurezza che anche oggi la guerra e’ finita, e combattendo ci siamo anche divertiti.
6 Luglio
Rinunciando alla mia imbarazzante fandom per i Muse ho rifiutato l’invito di un amico per prendere i biglietti per il concertone a Roma e mi sono recato ancora una volta all’Indierocket Festival (facciamo che da adesso lo chiamo IRF). Sono premiatissimo dalla scelta. Devo ammettere che, dopo la giornata di ieri per la quale le aspettative erano alte, le mie aspettative erano scese per la seconda, che ha portato, al di la’ di tutto, una line-up piu’ scarna e proprio per questo piu’ efficace, visto che le mie aspettative sono soddisfatte e, a conti fatti, oggi m’e’ piaciuto persino piu’ di ieri.
Si parte con i Sonic Jesus, gruppo proveniente da Cisterna di Latina – anche se loro preferiscono Doganella di Ninfa, dove, mi dice il chitarrista Fabio, ci sono giardini medievali tra i piu’ belli al mondo. Shoegaze durissimo, a causa dell’ora poca gente, ma hanno tutti la convinzione dipinta sul volto, visto che i Sonic Jesus, anche solo con quattro canzoni, si fanno amare, non li si vuole veder andar via, con le loro schitarrate malate, il theremin ipnotizzante, i microfoni con tanto, bel riverbero. L’andazzo della serata si preannuncia gia’ da adesso pieno di bassi e di viaggi, dal post-punk piu’ indiavolato alla rave-house piu’ attraente.
E’ il turno dei Brothers In Law, indie-rock “normale”, con le solite basi di riferimento, i Jesus & Mary Chain, gli Husker Du, i Japandroids. Certo, ci sono due chitarre. Certo, ci sono i riffoni brutali e le melodie poppettare, pero’ questi ragazzi di Pesaro danno la sensazione di essere un po’ manieristi, di avere un problema soprattutto nello gestire un live, decisamente troppi fronzoli; saranno anche andati al South By Southwest, ma l’unica cosa che riescono a fare e’ farci muovere il piedino e poi dimenticarci completamente di loro.
Il live piu’ esplosivo della serata comincia ora. I Soviet Soviet compaiono sul palco e non lasciano scampo, tiratissimi, lucidi, potenti. La mente trainante e’ un Andref in grande spolvero al basso e voce, malsano nelle sue rabbiose tirate alla John Lydon e completamente fuori di testa nei suoi riff di basso, che si susseguono senza mai annoiare, annichilendo un pubblico che forse neanche se l’aspettava, o forse si’. I pesaresi presentano due nuovi pezzi dal nuovo album, che uscira’ per Tannen, e da bravi pesaresi non si risparmiano un po’ di sfotto’ per i compaesani Brothers In Law e per il manager-dj Fabio Nirta, che viene invitato a salire sul palco (garbatamente rifiutera’). Il sentimento generale e’ quello di un’emozione evidente, limpida, che vibra nelle vene, al contrario che per i Saroos.
Con loro la serata vira bruscamente verso un post-rock illustre, condito di math e rave, che, grazie alle provvidenziali cannette consumate da piu’ di meta’ dei presenti risulta in un successo di pubblico servendosi di fari rosa e verdi, tastiere improbabili e tanta esperienza. L’esperienza, pero’, e’ un’arma a doppio taglio, e i Saroos, supergruppo (Notwist, Lali Puna, ISO68), soffrono della sindrome di tutti i supergruppi: sono tecnici ma non hanno urgenza di esprimersi, sono molto professionali ma non fanno pazzie, la loro musica e’ “figa”, ma senza granche’ senso. I tedeschi verranno ricordati come la musica della prima parte del trip. Ma la seconda parte sara’ meglio.
Gli headliners, i Galaxians, si presentano sul palco timidi, come a saggiare la terra italica, e suonano una house-dance d’autore che piace a tutti. Sussurri world, ritmi creati dalla batteria live intersecata dalle drum machine, virtuosismi tastieristici non esagerati ma ancora abbastanza barocchi. Hanno il vantaggio enorme di essere un gruppo dance in una citta’ come Pescara, di suo molto danzereccia, e il pubblico, che per adesso e’ composto soprattutto da trentenni, si agita anche senza conoscere il gruppo, si diverte, limona, balla persino una donna incinta (lo so che e’ molto off-topic, ma e’ un bel particolare). Gran finale in bellezza con Fabio Nirta, che si porta tutta la baracca (Sonic Jesus, Brothers In Law, Soviet Soviet – tutti sotto il suo management) sopra al palco a suonare tamburi, maracas, bonghi, theremin, mescolati con la sua ipnotica elettronica, si balla ancora, e si finisce tristi d’andarsene.
7 Luglio
Si parte male – ma si finira’ bene – per una palese, e neanche troppo mascherata, mancanza di gruppi; il festival si e’ giocato le sue carte migliori – o almeno le piu’ note – all’inizio, e l’ultimo giorno ci sono solo tre artisti. Si parte dunque con un dj set che dovrebbe avere il proposito di scaldare la folla, ma che invece ha il risultato di far notare la pura disorganizzazione di questa prima parte: il dj in questione, Campetter, propone una house-trance ad una platea deserta, facendo ciao con la manina alla fidanzata – a voi i giudizi, vi dico solo che se lo ritenete “tenero” siete delle brutte persone. La Razzputin Crew non fa meglio, pero’ qualcuno inizia ad arrivare: ben cinque giocatori di pallavolo. Lo stacanovista Fabio Nirta si mette a ballare con cinque amici, sotto al palco.
Per i Flowers Or Razorwire si raduna una piccola folla, questi quattro ragazzi di Trani – in studio pero’ sono due -, orfani di batterista, mettono su uno spettacolo di degna French Touch, anche se, data la natura del live, la chitarra e il basso li trasformano in un gruppo piu’ vicino ad Animal Collective e MGMT di quanto gli stessi componenti vogliano. Nulla di male. Nulla di male neanche in luci rosa e falsettoni e distorsioni da coro. Ma nulla a che vedere con GIVDA.
Da pronunciarsi Giuda – come forse avrete intuito – , l’artista fiorentino fa dell’estetica basica e possente di certo fascismo una matrice artistica che va a comporre il mosaico del suo progetto insieme ad una passione per i sintetizzatori analogici – “tutti prima del MIDI, dell’83” afferma orgoglioso. L’ispirazione chiarissima e’ John Carpenter, e le colonne sonore horror. Un live complicato, visto che gli strumenti sono tutti settati in modo monofonico, un suono ciascuno, cinque synth e una drum machine, eppure l’arte di complicarsi la vita e’ anch’essa un’arte nobile che sa pagare, se fatta bene. GIVDA si infila nella strettoia che si crea da solo per uscirne come un torrente, scatenando un pubblico che non vedeva l’ora di un po’ di buona wave.
Chiudono la serata, che ormai e’ diventata meravigliosa, i suoni di Ahmed, in arte Sinkane, e la sua band di Brooklyn. Il respiro del mondo si avverte in bassi possenti e rotondi, in ritmi sudanesi, pero’ si avverte anche una certa malinconia mista a distacco, che non guasta mai in un live completo. In certi momenti ci si ferma, non ci si agita, si sta a sentire, “affatati”.
Ce ne andiamo da questo Indierocket con la quasi certezza che sara’ l’ultimo, come afferma sicuro Paoletto Visci, organizer ormai da dieci anni, e c’e’ l’amaro in bocca perche’ in una regione come l’Abruzzo un festival del genere rappresenta un faro di speranza, e anche motivo di prestigio, come spero abbiate potuto notare da questo reportage.
ahuahuhauhauhauhuauah
Ma a che festival sei stato, scusa?
Meglio se andavi a vedere i Muse, a sto punto.
non capisco se ci sei stato o meno, comunque per i Muse onestamente non c’avevo manco i soldi.