Di recente Cencellada Edizioni ha pubblicato in italiano il romanzo di esordio della scrittrice ecuadoriana Gabriela Ponce. Sanguigna segue le visionarie avventure di una donna in crisi, che si dona al corpo selvaggiamente. Flusso di coscienza e scrittura che sanguina sulla pagina. Raggiungiamo Gabriela Ponce Padilla e ci addentriamo nel suo mondo: il diario che teneva da piccola, la raccolta di racconti Antropofaguitas, il teatro con il collettivo Mitómana/artes escénicas, le storie preferite, e il processo di scrittura di Sanguigna.
a cura di Gio Taverni
Quando hai cominciato a scrivere le tue prime storie?
Ho iniziato pubblicando teatro, nonostante avessi l’abitudine di tenere un diario sin da quando ero piccola. Il mio rapporto con la scrittura (e anche con la lettura) è sempre stato molto intimo e personale. Poi è arrivato il mio primo libro di racconti, Antropofaguitas, che vinse un concorso, ed è stato da lì che in qualche modo la scrittura narrativa è diventata una pratica costante, quasi quotidiana, nella mia vita. Mi sono cimentata con la scrittura perché ho letto Clarice Lispector, Grace Paley, Marlene Haushofer, Christa Wolf, Natalia Ginzburg: incontrare la letteratura scritta da donne, una letteratura molto diversa da quella canonica, mi ha ispirata e dato quel primo impulso.
Oltre che scrittrice, sei anche drammaturga. Hai trovato differenze nella scrittura di un’opera teatrale come Tazas Rosas de Tè, rispetto a opere di narrativa come i tuoi racconti o Sanguigna?
La maggior parte delle opere teatrali che ho scritto sono state il risultato di una ricerca scenica con il collettivo Mitómana/artes escénicas, il gruppo con cui lavoro. In questo senso, le opere sono state inserite in una ricerca collettiva strettamente legata alla condizione materiale del palcoscenico: scrivere con e per i corpi, gli oggetti, l’universo che sviluppiamo sulla scena. La scrittura di racconti o di un romanzo come Sanguigna risponde a un processo diverso, sebbene anch’esso sia influenzato dal teatro. È un processo che vivo in una certa solitudine e il cui flusso è segnato dal lavoro con il linguaggio; del teatro rimane sempre il ritmo, l’immagine, la corporeità; ma il fatto che si sviluppi per un altro supporto, non più per il corpo del performer, né per l’ascolto del pubblico, fa sì che il testo narrativo acquisisca altre dimensioni per la scrittura, per lo sviluppo della parola, per la stessa estensione del materiale.
Sanguigna è un romanzo molto fisico: si sentono il corpo, il sangue, i nervi. Senti la tua scrittura come un processo che ti coinvolge fisicamente?
La scrittura è un processo complesso, da un lato la sento come un fluire molto fisico di emozioni e immagini che si riversano e che mi provocano straniamento: una scarica di impulsi custoditi nel corpo che si sbrogliano, si tramutano in scrittura e trovano le loro forme di espressione. Allo stesso tempo, la scrittura è uno spazio per il pensiero, per riflettere sul corpo e sulle forme di relazione con il mondo e con gli altri, e può essere un processo anche di comprensione, un modo molto razionalizzato di comprendere. È in questa tensione, tra questi poli, che per me sorge la scrittura.
Come si è presentata nella tua mente Sanguigna? Un’immagine, un frammento di storia, una parola.
Porto sempre con me un quaderno in cui annoto ricordi, immagini, paesaggi. La prima immagine che ho di Sanguigna è un ricordo d’infanzia legato al sangue, al ciclo mestruale di mia madre, oltre ad annotazioni su paesaggi, giardini, luoghi dell’infanzia che reclamavano una scrittura. Così ho iniziato a mettere insieme una serie di immagini del passato. D’altra parte, mi era chiaro che ciò che stavo intessendo non era altro che la trama della mia rottura amorosa, che invece era molto presente all’epoca. Così giunsi a varie letture sull’amore e sull’erotismo e iniziai a interrogarmi sul modo in cui avevo imparato ad amare, sull’amore come apprendimento. Scrivevo mentre leggevo, e leggevo molto per scrivere, e il mio stesso dolore stava trovando la sua forma. Improvvisamente mi sono resa conto che Sanguigna c’era già.
In Sanguigna sembra che provi a coinvolgere il lettore con tutti i sensi. Le immagini, a partire dal rosso sangue; l’odore di “fango, droga e piscio di gatto” che colpisce il naso entrando nella grotta. Era tra le tue ambizioni dare vita a un mondo amplificato in cui il lettore potesse penetrare sensorialmente?
Dovevo ritrarre un luogo, ma quando ci provavo il risultato era sempre frustrante. Come catturare le proprietà di uno spazio con la parola? È impossibile, la letteratura rimane inevitabilmente limitata di fronte all’esperienza. Io ho scelto di far ricorso a quelle sensazioni che potevano in qualche modo posizionarci lì, in quell’ambiente tanto caloroso quanto ostile, e che ci permettessero di collocarci in quell’ambiguità, attraverso l’odore, la luce, il suono: la realtà della grotta, la sua bellezza e la sua oscurità.
Realtà e immaginazione: in che punto di un ipotetico diagramma si trova Sanguigna? Quanto ci hai messo di te stessa e della tua esperienza, e quanto invece sei partita da un’immagine o una sensazione personale per seguire poi la fantasia?
È una risposta molto difficile. In Sanguigna c’è molto della mia esperienza: scrivo sempre a partire da eventi personali, ma nella scrittura c’è sempre finzione, se la intendiamo in senso lato: la fantasia, le strategie di distanziamento richieste dal linguaggio stesso, persino il flusso del materiale, che ha una sua autonomia e che ti mostra il cammino. Il processo è troppo complicato per individuare con precisione quel punto di cui parli.
Come hai lavorato sulla lingua per la scrittura di Sanguigna. E che cosa provi a vederla tradotta, in italiano come in inglese, la tua lingua.
Quando scrivo, mi calo in uno stato di estrema attenzione e ascolto. Mi sento parlare, immagino gli altri che mi parlano. In questo senso, ciò che mi interessa è la parola ancorata, situata e territorializzata. È un’oralità su cui lavoro nel testo, sono estremamente consapevole della sua dimensione sonora: mi leggo sempre ad alta voce, forse a causa di una deformazione che proviene dal teatro. Questa oralità ha un ritmo, che è un altro aspetto a cui presto molta attenzione. Nel caso di Sanguigna, si manifesta come un flusso alle volte persino straripante, il che è stato un elemento importante nella scrittura del romanzo, ma forse è stata la scrittura stessa a guidarmi nel ritmo e da lì ho preso le mosse. È per questo che sono così entusiasta della traduzione di Sanguigna, perché mi sembra una sfida portare questa particolare sonorità in un’altra lingua e cultura ed è per questo apprezzo molto il lavoro delle traduttrici Sarah Booker e Sara Papini, che fanno un lavoro straordinario. Nel caso dell’inglese, lo comprendo e perciò mi sorprende e mi emoziona. È una lingua vicina a me. Nel caso dell’italiano, sono entusiasta proprio perché non lo parlo, ma mi affascina ascoltarlo. La sua sonorità mi sembra avere una sensualità unica e pensare che Sanguigna vive in italiano mi dà molta soddisfazione. Il fatto che raggiunga anche lettori così lontani da me, mettendo in dialogo mondi tanto distanti, è per me motivo di immensa gratitudine.
Parliamo del complesso rapporto della protagonista con le telenovelas: c’è del rifiuto in Sanguigna a questa forma di “educazione sentimentale”?
Non c’è rifiuto, c’è il riconoscimento che quell’educazione sentimentale è sempre mediata dai prodotti culturali, in questo caso le telenovelas, che in America Latina sono state molto importanti per la nostra generazione: riconoscere che c’è qualcosa di terribile lì e che, tuttavia, contengono anche una certa bellezza. Non c’è dubbio che in quella narrazione dell’amore ci sia crudeltà, ma la mia intenzione non è denunciarla, quanto rilevare la complessità in mezzo alla quale negoziamo la nostra forma di amore e come le telenovelas elaborano tale complessità.
Come ci racconteresti l’attuale scena artistica ecuadoregna, e in che modo il paese e la gente si rapportano a questa scena?
La scena della letteratura ecuadoriana è estremamente eterogenea, il che la rende difficile da definire, ma ospita proposte molto potenti e una proiezione editoriale interessante. Sono nate numerose case editrici indipendenti che sostengono opere audaci, testi e autori con registri e voci molto singolari. Anche il pubblico giovane manifesta interesse per questa letteratura, il che è molto incoraggiante in un paese generalmente poco incline alla lettura.
Nel teatro la situazione è simile, ma vi sono sfide maggiori dovute alla necessità di risorse materiali e infrastrutture, alla natura collettiva della performance teatrale e al fatto che l’accesso ai testi è ben più ostico. In generale, il nostro Paese non ha mai avuto politiche culturali solide, e la creazione artistica avviene a partire dalla precarietà e dalla limitazione strutturale, aspetti con cui abbiamo imparato a fare i conti ma che ci sfiancano e complicano i processi artistici, lasciandoci poco tempo per la creazione.
Nonostante queste sfide, la comunità artistica ecuadoriana ha trovato soluzioni alternative. Per esempio, sono sorti numerosi spazi culturali indipendenti che svolgono un ruolo fondamentale nella creazione e diffusione dell’arte.
Tazaz Rosas è un’opera di denuncia di un particolare momento dell’Ecuador. Anni Settanta, massacro di Aztra ai danni dei lavoratori. Come hai lavorato su un testo così politicamente ispirato da un avvenimento che ha scosso il tuo paese?
Abbiamo affrontato questo soggetto con l’obiettivo preciso di non appropriarci delle voci di coloro che hanno partecipato a quegli eventi così dolorosi, di non rappresentare né agire l’evento, ma di trovare modi per esporre un fatto storico praticamente sconosciuto, dal nostro punto di vista e con le domande che abbiamo noi (parlo del collettivo di artisti con cui lavoro). È stato un esercizio di teatro documentario, avevamo un archivio di foto e testimonianze come punto di partenza. Successivamente, abbiamo cercato di riflettere sulla scomparsa, sul lutto e sul valore di ciascuna vita, colpiti da quell’archivio e da quel materiale così reale, pur parlando a partire dalla nostra personale esperienza.
Mettiamo il caso che tu debba portarci a fare un viaggio letterario per il Sudamerica, quali sarebbero le tappe fisse che consiglieresti?
Per me, l’Argentina è stata un punto di riferimento tanto nel teatro che nella letteratura. Gli autori ai quali torno sempre sono soprattutto Juan José Saer e Antonio Di Benedetto; nell’ambito contemporaneo, adoro lo stile di scrittura di Ariana Harwicz e di María Moreno, entrambe fanno un uso notevole del linguaggio nelle loro narrazioni. Farei un’altra tappa in Bolivia per raccomandare Giovana Rivero, che rievoca paesaggi latinoamericani da una prospettiva molto singolare; in Colombia, c’è Giuseppe Caputo, la sua novella Estrella Madre è un testo bellissimo, tenero e toccante sul legame materno; e in Ecuador, ci sono Daniela Alcívar e María Auxiliadora Balladares, narratrice e poetessa che sono per me voci fondamentali nella letteratura contemporanea del paese.
Infine, un racconto che ti ha aperto la mente ma non è sudamericano.
Ce ne sono così tanti… Ho letto di recente l’autrice tedesca Esther Kinsky, Hain e Rombo mi hanno mostrato un altro tipo di letteratura, una letteratura contemplativa, ricca di descrizioni e paesaggi, una precisione nel linguaggio che mi ha affascinato. Un’altra scrittura per me rivelatrice è quella di Pascal Quignard perché mi ha insegnato tutto ciò che la letteratura può essere. Per me i suoi testi non si esauriscono mai e sono sempre un’esperienza che abbraccia la riflessione, la contemplazione, la musica e la poesia.