Kurt Cobain si è sparato in testa trent’anni fa, si stampano libri per ricordarlo, i giornali fanno il controcanto, e per le strade si spandono odori di spirito adolescenziale. Non possiamo dirci innocenti noi altri che ancora lasciamo suonare Bleach, Nevermind, In Utero, una qualsiasi canzone dei Nirvana. Conosciamo il gioco dell’industria, è un gioco a cui Cobain si è sottratto; lo stesso apriamo quei libri per vedere cosa c’è scritto dentro, continuiamo a raccattare letture su Cobain anche se sono passati trent’anni dalla sua morte. Parafrasando una canzone dei Massimo Volume: ricordati di Cobain quando leggi di Cobain; e chi se lo scorda. Il suo breve passaggio sulla terra è stato incandescente.
Territorial Pissing è uno dei migliori omaggi che si potesse fare a Kurt Cobain per chi va ancora in cerca della sua voce perduta. Il libro, pubblicato da minimum fax con una copertina magnetica, raccoglie una manciata di interviste e conversazioni con Cobain avvenute tra il 1990 e il 1994, dal periodo che precede Nevermind all’ultima intervista. Leggendo mi riconnetto al Kurt più vero, quello che parla con le sue parole. La sua sincerità non ha compromessi, non c’è niente di meglio che leggere le sue parole oltre ogni mediazione e inquadratura.
“Vorrei vedere una depressione in piena regola. Tempi duri e basta. Disperazione. E sai perché? Perché la gente deve tornare coi piedi per terra. Sono tutti troppo distratti dalle cose materiali”.
Dal ventre del sogno americano vengono fuori il disincanto, il dolore e la rabbia di un eterno ragazzo di Aberdeen che voleva suonare punk, e ritrovò la sua faccia in rotazione su MTV. Territorial Pissing riesce a raccontare bene la veloce transizione dei Nirvana da gruppo della scena alternativa a messaggeri universali del grunge dopo il terremoto Nevermind. Sono da poco cominciati i Novanta, e la gente fugge l’apatia dei giorni cercando nuovi profeti. Smells Like Teen Spirit inizia a suonare dappertutto, le richieste di intervista ai Nirvana si moltiplicano.
“Credo che ci siamo trovati nel posto giusto al momento giusto nel panorama musicale, perché tutti i vecchi dinosauri del rock, le star dell’heavy metal, si limitavano a tirare avanti, facendo sempre le stesse cose.” Krist Novoselic.
Cobain confessa il suo disagio: vorrebbe non suonare più il tormentone Smells Like; riconosce che è un gran pezzo, melodicamente arguto, ma si è stancato; prova a mantenersi aperto al nuovo pubblico di occasionali che riempiono i concerti, cerca di smussare gli angoli duri di sé stesso, ma si capisce che ha difficoltà ad adeguarsi al passaggio dalla piccola dimensione del club al grande palco dove quasi non riesce più a vedere Krist Novoselic e Dave Grohl al suo fianco.
A questo conflitto interiore Cobain risponde afferrandosi più che può alla sincerità, cercando di restare fedele al ragazzo che era prima del grande baccano. I suoi riferimenti sono i Nirvana, la moglie Courtney, la figlia Frances. Se il divorzio dei genitori segnava la perdita dell’innocenza, la stagione della delusione, con le nuove famiglie Cobain è molto protettivo. Si aggrappa alle persone e alla musica come a spazi di salvezza.
“La musica per me è quasi sacra”, dice in un’intervista. Ammette di non essere un virtuoso della chitarra, di non sapere nemmeno il nome degli accordi che suona, sente le sue canzoni come un tentativo di catturare emozioni, passarle nella maniera più autentica possibile a chi avvicina l’orecchio alla musica. È ossessionato dalla purezza delle canzoni.
“Quello che c’è al cuore della tenerezza e della rabbia di una canzone viene consumata nel momento in cui la scrivo”.
Quando il giornalista Bob Gulla gli domanda qual è l’obiettivo dei Nirvana, Cobain risponde semplice e diretto: fare buona musica, la migliore possibile. Spesso si diverte a prendere in giro i musicisti che sono lontani dalla sua visione per marcare una distanza. Eddie Vedder, Bon Jovi, Axl Rose: con nessuno di loro sente di condividere una visione artistica.
Sa che nel calderone del grunge sono finiti un sacco di gruppi solo per una strategia di mercato. Non rinnega i soldi che ha guadagnato e con cui ha potuto comprare una casa. Vuole starsene alla larga dalla politica, non vuole diventare portavoce di niente. Lancia dardi infuocati contro le band sessiste e omofobe, è troppo innovativo e indipendente per non schierarsi dalla parte di donne e gay. A casa ha una pistola per difendere moglie e figlia dalle brutte evenienze. Ogni tanto va a sparare nei boschi. Non gli importa di essere criticato dai giornalisti. Vuole incontrare William S. Burroughs – e quando lo incontra è entusiasta di registrare un 33 giri con lui.
Qualche volta le sue parole sono cariche di dolore, ma dice di essere grato al dolore – il mal di stomaco, il mal di schiena, la scoliosi – più c’è dolore più c’è la musica.
“Canto quasi sempre dallo stomaco. Da dove mi fa male.”
Territorial Pissing colleziona un po’ di questi momenti, delizioso vangelo di parole dal Cobain più puro. C’è amarezza e disincanto nel ricordo di Kurt che celebriamo anno dopo anno: la sua parola è un testamento di diversità. Il suo inno al non importa poteva suonare come uno scudo di difesa, ma possedeva la forza di svegliare e caricare. La sua capacità di rendere melodico il punk ha tolto il sonno a intere generazioni. La sua sensibilità artistica era ruggine che si attacca alla materia. La sua contestazione un flusso indomabile, non poteva fare a meno di cantare e urlare contro il sistema.
Quando dice, “io sono solo il cantante folk che sta in mezzo a Krist e Dave”, riesco a vederlo imbracciare la chitarra acustica per risorgere dalle ceneri di un lontano giorno di aprile. Sono passati trent’anni, la fiamma ancora brucia, e non la lasciamo spegnere.