C’è stato un giorno ben preciso in cui — a detta di molti esperti dell’argomento — quello che qualcuno ha chiamato “grunge takeover of the world” è iniziato ufficialmente.
È il primo agosto del 1988 e un’etichetta scalcagnata (che avrà il talento di rimanere in vita — e il merito di rimanere scalcagnata — fino ai giorni nostri) da poco tempo in ballo ha appena fatto uscire il singolo Touch Me I’m Sick / Sweet Young Thing Ain’t Sweet No More. L’etichetta si chiama Sub Pop ed è stata fondata l’anno precedente da due ragazzotti venuti da fuori (volendola riassumere in maniera ingiustamente semplicistica: Bruce Pavitt ci mette l’idea e la cocciutaggine, Jonathan Poneman la prima mandata di soldi e tutto il suo entusiasmo), la band in questione prende il nome da un film di Russ Meyer del 1965 e si presenta al pubblico con un frontman a dir poco scalmanato che è (così, a una prima occhiata) la sintesi perfetta tra Iggy Pop e Nino D’Angelo, mentre il singolo ha in copertina un orrido cesso e va in archivio sotto il codice SP18.
Registrato in un minuscolo edificio a base triangolare geolocalizzato al 4230 di Leary Way NW (il Reciprocal di Jack Endino, un ex-membro fondatore degli Skin Yard, riconvertitosi ingegnere del suono e produttore, con un’idea di business tutta sua, secondo la quale fare un disco non deve per forza costare una barcata di dollari, che lo porterà a contare fuori dal suo uscio una lunga fila — si parla di anni consecutivi di prenotazioni per più di 17 ore al giorno — di musicisti squattrinati della zona che faranno la storia di un genere), risulta molto garage, nel senso che sembra uscire dal citofono di un seminterrato appoggiato a un muro di testate Marshall.
Messa così suona male, eppure la verità è che, da quel momento in poi, vedetela come volete e usate tutte le perifrasi che vi vengono in mente per rendere meno brusco il salto all’inevitabile conclusione, ma le cose, almeno in ambito alternative rock, non saranno (mai) più le stesse.
Touch Me I’m Sick (lo dice appunto la numerazione di cui sopra) non è nemmeno la prima produzione a marchio SP: hanno già visto la luce tutta una serie di compilation che raccolgono singoli sparsi di svariate band di Seattle dei primi anni ‘80, gli EP di Soundgarden e Green River e altre quindici release di gente abbastanza famosa tra i locali della zona, per esempio i Blood Circus e gli Swallow.
Proprio in mezzo alle maglie dei Green River vanno cercati sia i germi del primo utilizzo incosciente di un termine che poi significherà tutto e nulla (Dry As A Bone verrà promosso dalla label stessa come «ultra-loose grunge that destroyed the morals of a generation») che il nucleo iniziale dei Mudhoney stessi (la band si scioglierà ancora prima di partorire l’album di debutto — che infatti uscirà “postumo” — a causa di dissidi interni tra la fazione di Mark Arm e quella di Stone Gossard e Jeff Ament, che da lì si getteranno anima e corpo nella tragica esperienza dei Mother Love Bone, per poi finalmente rimbalzare verso l’olimpo delle istituzioni del rock mondiale nelle file dell’unica altra formazione di quella scena che ancora oggi continua a riempire gli stadi di tutto il pianeta senza essere passata dal cimitero).
La cosa buffa è che Sweet Young Thing Ain’t Sweet No More doveva essere in realtà il vero singolo, solo che all’ultimo momento si è deciso di invertire i lati. Il perché è molto semplice: chiunque sia dotato di un paio di orecchie un minimo revisionate non può non concordare sul fatto che Touch Me I’m Sick sia la miglior canzone dei Mudhoney di sempre. Lo era allora, quando praticamente soffriva di solitudine nei panni dell’unico pezzo che avevano scritto, lo è adesso che i quattro hanno dieci album e trent’anni di carriera sul groppone.
Messa così suona (di nuovo) male, ma la questione è molto più complessa del semplice cliché da derubricare alla voce “band che non riuscirà mai più a replicare il successo e l’ispirazione creativa del primo disco”. Il fatto è che nessuna canzone per nessun gruppo è (o è stata) così caratterizzante e rappresentativa come Touch Me I’m Sick lo è per i Mudhoney, perché nessun pezzo come questo riesce a racchiudere in due minuti e mezzo tutta e sola l’essenza della band che l’ha scritto.
Touch Me I’m Sick prende il mantra della Sup Pop degli inizi («you got five chords at your disposal, don’t use more than three within one song») e la riporta alla lettera sul manico di una chitarra: il suo riff indimenticabile gira infatti proprio su cinque accordi durante le strofe, per poi — nel ritornello, quando le cose vanno dette chiare e tonde, senza tanti fronzoli — scendere addirittura a due. Per i più navigati, diciamo che è come prendere uno dei pezzi di quelle band da un singolo e via che si trovano in Nuggets e aggiungerci un bel “fuck” nei versi finali, dopo averlo accuratamente passato e ripassato attraverso i filtri di due pedali epici come il Superfuzz della Univox e il Big Muff della Electro-Harmonix, alla stregua di una fettina di pollo nel pan grattato.
Superfuzz Bigmuff sarà appunto il primo extended dei Mudhoney e l’altra cosa buffa è che, al suo interno, di Touch I’m Sick non si troverà nessuna traccia. Verrà poi inserita — per allungare il brodo e non rischiare di avere rimorsi — come apertura della ristampa destinata al mercato europeo, ma quella è un’altra storia.
Questa, invece (ormai si sarà capito), è una storia piena di cose buffe che suonano male per come sono dette e vorrebbe portare almeno un bicchiere d’acqua al mulino di una teoria abbastanza diffusa — ma in realtà tenuta in piedi per lo più da una traballante impalcatura di “se” e di “ma” — secondo cui Touch Me I’m Sick avrebbe potuto essere Smells Like Teen Spirit, se solo non fosse arrivata troppo presto — in anticipo di quel poco che basta per scomparire oltre il miope orizzonte visivo della cricca che conta — in un periodo in cui ancora nessuno sapeva cosa fosse di preciso una Smells Like Teen Spirit. Teoria tutta da dimostrare (per la precisione, a questo punto della faccenda, impossibile sia da dimostrare che da confutare), ma che almeno avrebbe dato al racconto un virata surreale, perché — diciamolo qui una volta per tutte — i Mudhoney con l’ondata cosiddetta “grunge” avevano in comune nulla se non due cose: un punto indicato su una cartina geografica e un paio di chitarre appese al collo. E infatti poi, alla fine della fiera, se contiamo i trofei che può vantare in bacheca Touch Me I’m Sick, troviamo — oltre a milioni di crowd-surfing e lividi conseguenti generati sul campo — poco altro oltre a uno split con i Sonic Youth che, con il senno di poi, ha il sapore del premio della critica a Sanremo, ovvero un modo per dirti che sei stato il più bravo ma da domani i dischi li venderanno gli altri.
Insomma sì, le cose dopo sono andate diversamente. E forse — a volerne egoisticamente cercare proprio il lato positivo — magari è stato anche un bene. Altrimenti — è altamente probabile — stasera non saremmo qui.
Il primo Agosto dell’88 a Seattle è una bella giornata di sole, ma non troppo calda: poco più di venti gradi, mitigati dalla brezza della costa del Pacifico. O almeno così è come me la sono immaginata io, dopo aver cercato su Google keyword a caso del tipo “climate summer pacific north west coast”. Il Novembre bolognese ha invece preso la volta di una classica collezione autunno/inverno, spettro di quelle mezze stagioni che — a sentire le voci che circolano in giro da secoli — non ci sono più: freddo quanto basta e una pioggerellina umida e insistente che ti entra nelle ossa, specialmente se sei uno di quelli che il primo Agosto dell’88 erano già nati da un po’ e quindi adesso hanno ormai scavallato quella soglia oltre la quale la strada è costellata più che altro di reumatismi e previsioni metereologiche sempre azzeccate perché basate su indiscutibili doloretti muscolari.
Metto piede all’interno del Locomotiv che ancora non è finito il TG di Mentana e vedo che i Devils hanno già attaccato quella che a tutti gli effetti sembra una cerimonia eretica, una performance sabbatica, un b-movie filmato dal vivo senza troppi riguardi verso la sensibilità cattolica di una nazione che ospita sul suo territorio Papa Francesco (opportunamente ritratto e serigrafato sulle pelli della cassa della loro batteria).
Direttamente da Napoli (passando per Berna, dove hanno firmato per la mitica Voodoo Rhythm Records che ha permesso loro di aprire i concerti di gente come Sonics e Boss Hog), Gianni Puzzadidio ed Erica Volgare (due nomi che lasciano ben poco spazio all’immaginazione) si calano subito perfettamente nella parte di “opening act dell’opening act” e, steso un sobrio tappeto zebrato sul pavimento del locale, suonano direttamente in mezzo allo sparuto (ma curiosamente divertito) pubblico di inizio serata. Anche loro il nome lo hanno preso da un film (l’omonimo di Ken Russel del 1971) e, vista la strumentazione, il sound e il vestiario (classico power duo drums & guitar, ma recitato da una suora in latex nero con calze a rete, body e stivaloni rossi tacco 15 e un predicatore smanicato con delle basette a dir poco importanti, occhiali scuri, unghie smaltate e scarpe di vernice), sembrano gli White Stripes costretti a fare una comparsata in un episodio di American Horror Story (Asylum).
Psycho-Rockabilly pestato e urlato come viene: promossi, senza il beneplacito del Vaticano.
Liberato il pit per la gente che pian piano sta aumentando alla spicciolata, i Please The Trees sono i primi a salire effettivamente sul palco. Anche loro senza bassista e freschi freschi di un secondo album (Infinite Dance) ricco di ospiti illustri (John Grant, Corey Gray dei Decemberists e Thor Harris degli Swans tra gli altri), mettono insieme tre quarti d’ora di set tanto spigoloso quanto psichedelico, ma sempre ben bilanciato tra le chitarre taglienti di Václav Havelka, le ritmiche precise di Jan Svačina e i suoni sintetici del piccolo Korg di Marek Novotný.
Impossibile non menzionare una particolarità extra-musicale che li contraddistingue: appena formatasi, la band ceca era partita con le migliori intenzioni, ripromettendosi di piantare un albero in ogni città in cui avesse suonato, per poi fotografarlo e documentare il tutto sul profilo Facebook del progetto. Per dovere di cronaca va detto che i buoni propositi sono andati per il verso giusto finché si è trattato di girare per il loro paese, ma hanno poi inevitabilmente incontrato qualche difficoltà realizzativa una volta che il tour si è esteso a tutto il vecchio continente. Un applauso comunque al tentativo e un “in bocca al lupo” alle 276 piante che si sono lasciati dietro fin qua (questa la mappa, nel caso voleste passare a innaffiarle): la morale credo dovrebbe essere che anche con l’eco-sostenibilità a un certo punto tocca accontentarsi, e comunque ci sono strategie promozionali meno nobili, bisogna ammettere.
Steve Turner, Dan Peters e Guy Maddison fanno il loro ingresso in scena in perfetto orario, in ossequio alla nuova programmazione anticipata annunciata dalla venue felsinea che viene incontro al progressivo (e conclamato) invecchiamento del rock e dei suoi fan, imponendo una sorta di coprifuoco entro le 23:30. Li segue a ruota Mark McLaughlin (anche se ormai non lo chiamano più così nemmeno i suoi parenti più stretti) che accenna un brindisi con il calice di vino rosso che ha in mano, non si sa — come spesso accade nella vita — se già mezzo pieno o già mezzo vuoto. Il parallelo con la bottiglia che ormai costantemente accompagna Eddie Vedder durante i suoi concerti è naturale, così come il fatto che il pensiero vada subito alla versione grunge degli amici del campetto di offlaga disco paxiana memoria, qui passati — in un percorso di formazione del tutto rovesciato — dall’eroina direttamente al Sangiovese, ma sempre alla faccia delle droghe leggere.
Teoricamente sarebbe il tour del trentennale, eppure l’impressione è che qua l’intento diffuso — in particolare dai festeggiati stessi — sia quello di minimizzare la cosa relegandola a una singola maglietta celebrativa, esposta nemmeno troppo in bella vista per chi ha venti euro da buttarci. Tutto in perfetto stile-Mudhoney, insomma, gente non troppo abituata (né incline) a promuoversi con troppa enfasi che non sia quella che esce dai loro amplificatori o tecniche sofisticatamente pop che esulino da una tagliente ironia nei confronti di quello che capita a tiro.
«I’m not on Facebook, Twitter, Instagram or whatever, basically because I’ve got no time for that. I’m not that kind of guy who likes to promote himself over and over again. All this blabla, this continuous auto-promotion on social media… well, I found it kinda weird… almost unpleasant. Ok, in a certain way, I’m promoting myself right here, right now, with this gig, but I’m not going any further than telling you “Ehi guys! Our brand new album is out, it’s tremendously good and this is how it sounds: go and buy it!”»
Il tour di Digital Garbage quindi: niente di meno, niente di più. Anche se un statement del genere — a metà tra il mettere subito da un lato le cose in chiaro, dall’altro le mani avanti — che esce dalla bocca di Arm va comunque preso con le molle e filtrato attraverso il classico sarcasmo irriverente tipico del personaggio e di tutto il nord-ovest del Pacifico. E infatti Digital Garbage, paradossalmente, più che una collezione di canzoni, sembra proprio un newsfeed iper-saturato dalle polemiche sguaiate di un twittatore ubriaco alle due di notte.
Suona sempre peggio, messa così, ma il lato da cui vedere la cosa è, ancora una volta, esattamente l’opposto. Ci sono infatti una miriade di fattori e metriche tramite cui misurare — con maggiore o minore precisione — il livello di merda in cui il mondo in cui ci è toccato in sorte di vivere sta ormai affogando: il riscaldamento globale, l’innalzamento del livello delle acque, lo scioglimento dei ghiacciai, l’aumento delle specie in via d’estinzione, l’analfabetismo in TV, il successo delle Instagram Stories. Ma ce n’è uno in particolare — meno tracciabile, ma forse addirittura più accurato — che indica il momento in cui ormai siamo probabilmente ben oltre il bordo del cratere, sospesi in quell’attimo di volo prima di iniziare a precipitare ed è esattamente quando i Mudhoney iniziano a buttarla in politica, quando si prendono la briga di trasformare le loro frecciate acide da un semplice sparare sulla Croce Rossa (come prendere per il culo poser, idioti generici o… loro stessi) in una diagnosi, che lascia ben poco spazio alla speranza, del rapido deteriorarsi delle condizioni della nostra società (in)civile.
Ok, sa di déjà-vu, diranno gli scettici. E in effetti i Mudhoney non sono certo la prima (né saranno l’unica, né tantomeno l’ultima) band a manifestare a voce alta la propria preoccupazione nei riguardi del destino del genere umano in questi tempi storti. Il fatto è che — e qui sta, se vogliamo, la loro unicità — sono i soli a poterlo fare contando su un megafono chiamato Mark Arm, la cui beffarda autoironia — che a tratti sfiora la satira — garantisce che qualunque messaggio (dal più apparentemente superficiale al più evidentemente non trascurabile) abbia la necessaria dose di cattivo gusto per non passare inosservato e colpire nel segno, anche quando il segno se ne sta ben nascosto nel mucchio e tocca far fuoco un po’ alla cieca.
Fisico da fotomodello tossico dalla silhouette sfinita (oggi giusto un minimo arrotondata da un innocuo accenno di panzetta alcolica), più capelli in testa della metà dei presenti in sala (e tutti ancora di un biondo così biondo che lo candida a case study per tutti i colorist de L’Oréal) e una voce la cui sporcizia non accenna a perdere colpi (anzi, forse è migliorata nel tempo) sembra messo lì apposta per sponsorizzare tutti i messaggi che vorreste vostro figlio non recepisse mai: tipo che gli oppiacei derivati chimicamente dalla morfina ti rendono un gran figo o che passare gli anni a imitare gli Stooges ti allunga la vita, anche se al giorno d’oggi — a meno che non suoni, dicevamo, nei Pearl Jam — con il grunge (whatever that means) non ci arrivi a fine mese.
Sì, perché è cosa nota quasi a tutti che l’avvento di Mark Arm al Locomotiv ha più o meno seguito le tappe dei CD e dei vinili che riposano laggiù nell’angolo dove è stato improvvisato il banchino del merchandise: ovvero direttamente dai magazzini della Sub Pop senza passare dal via. Al terzo piano del numero 2013 della 4th Ave di Seattle infatti, è dove Arm ancora oggi lavora come “warehouse manager”, con tutti i pro e i contro del caso: da un lato il privilegio di non dover dare troppe spiegazioni quando chiede flessibilità di orari e ferie pagate agli attuali dirigenti dell’etichetta americana («It’s good, they understand I need to take off for a while to go on tour…»), dall’altra la necessità di concentrarli tutti in un periodo ristretto, pena un tragico licenziamento in tronco per (in)giusta causa (assenza reiterata).
Ecco dunque spiegato un tour europeo che vede quattro tizi di cinquant’anni suonati costretti a spararsi ventisette date in un mese, di cui tre in tre giorni in Italia (due sold-out, l’altra quasi): una roba da inchiesta sindacale, se il rock non fosse appunto, nel caso specifico, paradossalmente più un hobby che una professione.
Poi è ovvio: va da sé che ogni portatore sano di un cervello un minimo connesso dovrebbe capire che non possiamo aspettarci — qui, nell’anno domini 2018 — quel dinamismo sul palco che ha permesso alle foto di Charles Peterson (risalenti ormai al secolo — al millennio, a voler ben vedere — scorso) di diventare così iconiche. Anzi, se l’intenzione è per forza quello di cercare il pelo nell’uovo, possiamo pure osservare che i quattro sono in un certo senso forse eccessivamente statici, ma per il resto si presentano formalmente inappuntabili, forti di un’esecuzione chirurgica e armati di suoni incredibilmente nitidi nonostante il volume aggressivo e la distorsione militante come scelta di vita.
La sensazione è che Arm e soci siano perfettamente consapevoli di incarnare una concezione di rock preistorica, un’idea di musica nemmeno in via d’estinzione ma proprio estinta, pressoché unici depositari rimasti in piedi a raccontarla di un’epoca in cui le chitarre nei mix coprivano la voce senza particolari rimorsi, i CD costavano quasi quarantamila lire e farsi in vena era considerato socialmente accettabile quanto scaricare mp3 a qualità imbarazzante se quelle quarantamila lire in tasca non ce le avevi (o le avevi spese tutte per farti in vena e ricominciare dunque il loop da capo per un numero di volte così infinito che alla fine finiva per finir male). Un’epoca, soprattutto, in cui i musicisti avevano rispetto per il proprio pubblico e quindi i concerti erano sul serio concerti — non happening per cui scegliere il vestito o eventi virtuali in cui taggarsi per far curriculum.
È per questo che i Mudhoney, infatti, ancora oggi riescono a stipare trenta pezzi in un’ora e mezza tiratissima di brani sparati a raffica uno dietro l’altro, senza pause di sorta o accenni di prese di fiato: una setlist minuziosa e capillare che va a pescare in ogni anfratto della loro produzione in modo da soddisfare i bisogni e le aspettative di tutti, che si permette di prendere Touch Me I’m Sick e buttarla là a caso nel secchio dei brani transitori di metà live, come fosse una canzone qualunque, mentre riporta Sweet Young Thing Ain’t Sweet No More agli antichi, improbabili fasti piazzandola tra i bis, giusto prima del trittico — classico, esplosivo e conclusivo — di cover da manifestazione studentesca (The Money Will Roll Right In dei Fang, Hate The Police dei Dicks e Fix Me dei Black Flag). Il tutto condito da un’interazione con i fan delle prime file costante, ma sempre abbastanza contenuta e più che altro mai servile, piuttosto concessa con la sicurezza di chi sa — a questo punto per esperienza — che lo spettacolo vero ormai va con il pilota automatico anche (e soprattutto) sotto il palco, dove esponenti iperattivi di una folla di ogni età e razza — giovanotti esagitati o reduci di guerra dalle camicie di flanella pezzate e un ricordo di chiome scosse come i cavalli del Palio di Siena, indifferentemente — continuano a passarti sopra la testa nel ruolo di poveri cristi senza posa che, rotolando sulle mani degli altri nemmeno fossero le acque del lago di Tiberiade, puntualmente rovinano addosso ai musicisti con facce a metà tra l’ebete e il soddisfatto.
La fortuna è che il “tutto esaurito” del Locomotiv è di quelli onesti, nel senso che ti lascia intorno quei dieci centimetri di aria che permettono ai volontari del 118 di passare una serata tranquilla a fumare appoggiati all’ambulanza — senza per forza dover intervenire ogni due per tre a soccorrere qualche collassato per mancanza di ossigeno al cervello — e, a chi vuole, di ritagliarsi un safe spot relativamente sicuro da cui assistere allo show godendosi le condizioni al contorno — senza per forza dover stare tutto il tempo sulla difensiva, in posizione di guardia, pronto a parare colpi a destra e a manca.
Così ho modo di sentire in maniera distinta un tizio vicino a me — stretto deliziosamente sovrappeso dentro una maglietta dei Melvins risalente a un’era pre-Houdini — mentre riflette a voce alta, come rivolto a un fantasma che ha davanti: «Se Kurt Cobain fosse vivo, oggi vorrebbe essere Mark Arm».
Invidio in parte la sicurezza dogmatica con cui affronta un dilemma di retro-futuro ipotetico così delicato. Da parte mia, le pretese sono molto più limitate: mi accontenterei che il buon Kurdt fosse qui a confermarci o meno la cosa. E comunque, per onestà intellettuale, credo dovremmo concedere a questi (ormai ex) ragazzi che sono sul palco almeno il dubbio di un ribaltamento di prospettiva. Nel senso, se il nostro eroe fosse davvero ancora in vita, dubito fortemente che Mark Arm vorrebbe essere Kurt Cobain.
La grinta dissacrante che tuttora ci mette, il completo apparente disinteresse ponderato (in termini prettamente commerciali) con cui fa ancora la sua cosa, lo sguardo sornione che ti scruta attento mentre poghi come un dannato nonostante il medico da anni ormai ti consigli di centellinare gli sforzi per non peggiorare quel problemino di pressione alta, son tutte cose che stanno lì a dimostrare un livello di comfort (chiamatela consapevolezza o rassegnazione in base alla quota di pessimismo con cui siete abituati ad affrontare le giornate) nel gestire se stesso e il suo ruolo che di “grunge” (nel senso generico, vago e mainstream del termine) ha semplicemente niente.
Grazie a Dio, mi verrebbe da aggiungere. Perché pesante è la testa che porta la corona, diceva il saggio. E allora se i Nirvana hanno scelto di essere (o si son ritrovati loro malgrado) re e sotto quel fardello si sono spezzati il collo, i Mudhoney — con una resilienza tanto invidiabile quanto lungimirante — hanno sempre e solo cercato di recitare al meglio delle proprie possibilità il ruolo (tutt’altro che secondario né tantomeno semplice, non dimentichiamocelo) di giullari di corte. Non che ci sia per forza da decretare un vincitore tra i due approcci, a maggior ragione considerando il fatto che la storia della musica di Seattle di quegli anni si è poi rivelata una di quelle in cui non vince nessuno (o che quantomeno, se qualcuno ha — in qualche senso — vinto, non ha avuto modo di compiacersi più del dovuto, perché troppo intento a fare l’elenco delle vittime), ma — a conti fatti e bocce più o meno ferme — l’attualità è che almeno Mark Arm e compagni sono ancora qui a ridersela.
Amaramente, certo.
Ma è sempre meglio di niente, no?
Foto di Simone Fiorucci