L’utilizzo della metafora del viaggio quando si cerca di trasmettere l’insieme di sensazioni provate ad un concerto è certamente il più funzionale ed immediato; se poi si va a pescare nell’ampio recipiente dell’elettronica, tale strumento risulta quasi costantemente abusato. D’altra parte, genere musicale ed atmosfere di contorno sono indubbiamente quanto di più adatto allo sviluppo di trip interiori, unici per originalità ed incomunicabili: quello che senti è tuo, non è merce di scambio, a stento di confronto. Bene, ciò che è accaduto al Teatro della Concordia di Venaria, appena fuori Torino, un venerdì di fine novembre, stravolge e cancella quanto appena premesso.
Suona Nicolas Jaar, nella seconda di due date italiane, da tempo sold out. Un pubblico giovane confluisce all’interno dell’edificio: uno spazio ampio, sgombro, totalmente privo di punti di riferimento se si esclude il piano leggermente rialzato su cui è posta la consolle del performer, ma già comunque in penombra. Nero è il colore che inizia a farsi strada, man mano che le luci si attenuano: prima nascondendo l’alta volta dei soffitti e le pareti, poi divorando ingordo le persone intorno, fino a calare inesorabile sopra e dentro i presenti. Rimane solo un freddo faro bianco a retro illuminare la figura che d’improvviso si staglia in piedi davanti a tutti, un fuoco fatuo materializzatosi al centro di una spessa bruma che ne rende i lineamenti sfumati, ad una distanza incalcolabile, così lontano e così vicino allo stesso tempo.
E’ solo la tappa iniziale di un processo di deprivazione sensoriale impossibile da anticipare, ma soprattutto al quale non ci si può sottrarre una volta avviato il meccanismo. Dopo la vista, è il turno del tatto: la prima mezz’ora consiste in un lento immergersi in una vasca di suoni liquidi ed atmosfere rarefatte; non ci sono appigli certi se non le note che provengono da synth e modulari, alternati al morbido e sensuale suono del sax con il quale Jaar invita a lasciarsi andare e fidarsi. Tocca poi ad olfatto e gusto fondersi in un’unica, ovattata percezione e, mentre la scenografia si arricchisce di un elemento luminoso ad effetto laser che trascina verso precipizi protetti, ha sempre meno senso chiedersi se ciò che si sta assaporando sia vodka, il fumo di una sigaretta o labbra altrui.
Le linee tradizionali di uno show musicale dal vivo sono definitivamente abbandonate; i pezzi, tra cui quelli del recente capolavoro Sirens, appena identificabili: movimenti di un’elettronica soul contaminata, cuciti insieme in un’unica trapunta, utilizzando un filo fatto di fanfare, clavicembali distorti, cumbia, allarmi antincendio e digitalism celestiale. C’è un consapevole e volontario strappo continuo, nella seconda parte della serata, tra momenti intimisti e malinconici e folate di cassa violenta a bpm rallentati, una sorta di ritualità ancestrale che va ad attingere ad un qualcosa di profondo in ognuno dei presenti e che è parte di un’esperienza comune, innegabile. Quel battito che penetra nelle orecchie potrebbe essere il tuo, o quello di chi ti sta vicino; o forse è il medesimo per tutti, e giunge sì da fuori, come, inequivocabile, pure da dentro.
Ed è questo, appunto, il livello in cui si innesca prima, e si imprime a fuoco poi, il cambiamento: dopo aver spogliato il singolo delle proprie sensorialità percettive, che lo rendono così originale nel suo essere diverso, Jaar restituisce quella parte primordiale che indistintamente accomuna e unisce. Il viaggio non è singolo, ma collettivo; le sensazioni provate non esclusive, ma condivise. Si accede ad una dimensione ulteriore, fino a quel momento impercepibile non per mancanza di strumenti, ma perché situazione inesplorabile a priori. Come in una Flatlandia in cui Sfera istruisce Quadrato sull’esistenza di un mondo a tre dimensioni, l’accesso all’esperienza comune e compartecipata avviene varcando una porta di cui Jaar possiede le chiavi e che, con un percorso obbligato della durata di due ore, fa attraversare. Il risultato è stupefacente: un continuo meravigliarsi di fronte ad un nuovo sentire – con tutti i sensi spalancati, ora – e, voraci, un assumerne il più possibile, sullo sfondo di una riconoscibile Space Is Only Noise If You Can See. Fino in fondo.
L’etimologia del sostantivo genio ci insegna che trattasi del nome del nume tutelare della nascita. Di una nuova esperienza, si potrebbe supporre. In tal caso, mai termine sarebbe stato più appropriato.
Fotografie a cura di Alessia Naccarato