IV. Eterotopia o ferita aperta? L’altro Messico di Gloria Anzaldúa nella narrativa di Valeria Luiselli, Christina Henríquez, Laia Jufresa e Myriam Gurba
Le prospettive inattuali sono nate da un’idea non troppo definita e con un programma ancora più vago, che come è capitato a tutti i programmi che abbiamo fatto negli ultimi mesi, è stato stravolto dal passaggio di questo virus che pare essersi piuttosto affezionato a noi. L’evoluzione del discorso e la scelta degli argomenti che avrei voluto affrontare ha finito per procedere attraverso letture e visioni disordinate. Quelle che sono capitate un po’ a tutti negli improvvisi tempi morti che si sono aperti come voragini nei lunghi pomeriggi in cui biblioteche e uffici sono rimasti chiusi, e che non accennano a ridursi con l’approssimarsi dell’estate, visto che bar, caffè, ristoranti e rotonde sul mare hanno riaperto, ma biblioteche e gran parte degli uffici no. Prima di scivolare nelle vacanze estive, ma proprio last-minute, ho pensato che valeva la pena provare a tirare un po’ le somme allungandoci di un altro passo fuori dalle nostre case.
Procedendo a ritroso, qualche settimana fa abbiamo parlato di Americhe e di futuri utopici che diventano distopici o viceversa, e che possiamo in effetti a tutti i conti definire utilizzando anche una parola cara a Michel Foucault: eterotopie. Foucault ha definito, con questa parola, gli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi designano, riflettono o rispecchiano. Questa parola si presta in modo magnifico a costruire un ponte tra questa prospettiva e quella precedente, nonché tra i due paesi che avevamo giustapposto/comparato, Stati Uniti e Brasile. Tra l’America del Nord e quella del Sud, sulla cartina troviamo alcuni paesi del centro, e in particolare quello che nelle ultime settimane ha attratto la mia attenzione: quell’eterotopia americana che chiamiamo Messico.
Ci sono arrivato in modo abbastanza casuale, leggendo un libro che mi ha portato a un altro libro e proseguendo attraverso altri libri ancora, che mi appaiono tutti più o meno tenuti insieme dal discorso di un’autrice messicana abituata a vivere in quella cerniera tra Centro e Nord America dove ultimamente crescono muri e nello spazio più metaforico in cui si incontrano e si mescolano le identità razziali, di genere, sessuali, linguistiche in cui i nostri governi pare invece vogliano tenerci confinati con sempre maggiore energia. L’autrice messicana si chiama Gloria Anzaldúa, il libro, diventato un punto di riferimento teorico senza forse mai aver voluto esserlo, uscito nel 1987 e mai tradotto in italiano, è Borderland/La Frontera: The New Mestiza. Si apre con la definizione di un territorio che lei definisce l’altro Messico (“El otro México), il Messico che sta al di là del confine, in cui sembra risuonare la terra “ao lado de là” degli abitanti dell’entroterra del Brasile in cui abbiamo incontrato i personaggi di 3%.

Nei mesi scorsi, il privilegio bianco che ci ha portato a chiuderci nella nostra paura di essere infettati da questo nemico invisibile e misterioso pare essersi interrotto solo per un paio di settimane, portando alla nostra attenzione la questione di chi se la passa peggio di noi, identificandoli negli afroamericani, o più in generale nelle “vite nere”. Ma cosa accade alle vite di chi vive al di qua e al di là di questa linea immaginaria che separa il continente americano? Raramente ci siamo chiesti come affronta l’emergenza chi in un’emergenza vive, come succede alla moltitudine che attraversa il deserto per arrivare in Texas, adesso che le frontiere sono chiuse anche a chi si sposta con permessi di lavoro autorizzati o semplicemente per vacanza. Queste domande rischiano pure loro di diventare rapidamente inattuali, abbiamo smesso di chiedercele. Ce l’ha ricordato allora Valeria Luiselli, autrice messicana che oggi risiede a New York, in una di quelle dirette online a cui ci siamo abituati, organizzato dall’editore La Nuova Frontiera per la presentazione del suo ultimo, intenso e importante libro, il suo primo libro in inglese, L’Archivio dei bambini Perduti (The Lost Children Archive, 2019). Questo è il libro da cui sono partito, per arrivare infine ad Anzaldúa.
Permettetemi un passo ancora più indietro, verso un paese che sembra pure questo diventato inattuale nell’attuale presente americano. Se oggi mi fossi trovato a Long Beach, in California, in un al di qua in cui non c’è nessuna restrizione, l’eterotopia in cui vivevo più o meno un anno fa, probabilmente la mia giornata sarebbe cominciata con una colazione nel mio diner preferito, prima di cominciare i miei corsi. Sarei entrato nel locale né troppo piccolo né troppo grande, che si trova in una parte un po’ remota della via glamorous affollata di ristoranti e negozietti che vendono cose assurde chiamata “Retro Row”, avrei preso posto su uno sgabello vicino al bancone, salutando la cameriera: “Olà, Maria, que tal?”. Gli arredi del diner, che si chiama, se non ricordo male, Egg Heaven, sono in legno, come nei vecchi diner a cui ci siamo abituati guardando i film americani, e tutto intorno è una esposizione di vecchie locandine vintage con alcuni scatti celebri di Elvis e Marylin. È uno dei pochissimi posti in cui si paga solo in contanti, ma c’è un bancomat su un lato del locale, elemento che lo rende incredibilmente inattuale nella California del turbocapitalismo in cui il denaro viaggia alla velocità della luce da un’app all’altra.
Coi gomiti ben piantati sul bancone, accolto dal sorriso luminoso di Maria, avrei ordinato una porzione generosa di pancakes, che avrebbe trascritto l’ordine su un taccuino scuotendo i capelli lunghi e bruni che luccicano di sudore e unto sulle belle spalle scure. Non lasciatevi ingannare, questi sono i migliori pancakes che potete mangiare nell’area di Los Angeles, piuttosto che nel famoso locale di Down Town Los Angeles che è aperto 24 ore su 24 dal 1927 e vanta(va) il primato di non aver mai chiuso un giorno (prima del Covid-19). Maria si era abituata a parlarmi direttamente in spagnolo, pensava che questa cosa mi mettesse a mio agio, perché la prima volta che sono stato qui avevo pensato che rivolgermi in spagnolo mettesse a proprio agio lei. Avrei risposto con qualche frase ormai rodata che significa tutto o niente senza tradire la mia quasi totale incapacità di parlare realisticamente questa lingua, sebbene lo capisca bene.
L’inglese di Maria risuona di consonanti arrotondate e vocali che si allungano producendo quel suono tipico che risuona nelle taquerie che si trovano un po’ più giù, nella zona in cui si concentra la maggior parte della comunità messicana. Anche la lingua dei miei studenti di origine latina più bravi, nonostante fossero nati lì, a volte si adagiava su queste sonorità calde che coloriscono il loro inglese quando parlano con i loro genitori a casa, mentre coi nonni si passa a uno spagnolo approssimativo quanto il mio nella sintassi e nel lessico. Nei miei primi mesi in California, avventurandomi in diner come questo, mi sentivo un po’ come l’agente Cooper di Twin Peaks: genuinamente spaesato di fronte alla gentilezza disarmante che si incontra di fronte a queste persone, che appena posi il sedere ti vengono incontro con un sorriso e un bicchiere di acqua piena di ghiaccio. Poi ho messo a fuoco che invece mi trovavo in un episodio della più recente sit-com di Netflix Mr Iglesias, che è ambientata proprio a Long Beach.
Ho imparato che ci sono due Californie nelle Americhe, una si trova in Messico… e l’altra pure. E che l’otro México è quindi sia questo sia quello: diviso da una linea immaginaria su cui crescono i muri che dividono una popolazione in gran parte di origine latina. Una terra dove le Camilla Lopez interagiscono variamente coi gringos, una categoria a cui oggi appartengono anche, almeno per colore della pelle, gli italiani in cui si imbattono, così per riallinearci anche alla prospettiva precedente in cui ho esplorato la Los Angeles degli anni Trenta descritta da John Fante. Una minoranza bianca con cui spesso riescono ad avere un dialogo solo se hanno addosso i vestiti da cameriere, da giardiniere o da domestica. Già nella mia prima visita in California, in realtà, mi ero accorto che basta oltrepassare i consolidati confini del turismo e di Hollywood per incontrare i veri abitanti di Los Angeles, ossia della California del sud, dell’Altro Messico.
In realtà, già guardare serie TV come Mr. Iglesias, o la meno recente Breaking Bad, ambientata in New Mexico, o ascoltare gruppi come i Calexico, originari dell’Arizona, introduce al meraviglioso intreccio di cultura spagnola e americana che caratterizza il Sud-Ovest degli Stati Uniti. Il passo successivo sarebbe aprire un libro di storia e rendersi conto che la California, insieme ad altri stati di questa area – Texas (che ha cercato l’indipendenza per primo), Arizona, New Mexico (appunto), Nevada, Utah, Colorado e Wyoming – sono stati parte del Messico fino a metà Ottocento, quando a seguito della guerra scoppiata tra 1845 e 1848, un buon 55% di territori del Messico è passata dall’altra parte e diventata l’”altro Messico” di Anzaldúa. Se non ci fosse stata questa pagina di storia a riscrivere il territorio, oggi probabilmente avremmo un unico enorme Messico ricco di oro prima e ora petrolio, uno degli stati più ricchi al mondo, e i muri sarebbero stati edificati per fermare il flusso nella direzione contraria. Parleremmo anche molto più comunemente lo spagnolo.

Credo sia impossibile vivere in uno di questi stati senza percepire che la storia di Messico e Stati Uniti in questa area è profondamente intrecciata, e non riscontrare che le questioni dell’immigrazione centroamericana sono contronatura perché considerano le due parti di un’unica popolazione come afferenti a due diverse costituzioni e cittadinanze, quando in effetti, farebbero parte di un’unica comunità. Questo è il punto di vista decisamente arrabbiato che riscontriamo nella protagonista dell’Archivio di Luiselli, un libro piuttosto ambizioso nella composizione e nell’intreccio, in cui seguiamo un nucleo familiare formato da due genitori single, una “documentarista” e un “documentecario”, come li definisce la bella traduzione di Tommaso Pincio – la donna madre di una bambina di cinque anni di origine latina e l’ uomo padre di un ragazzino di dieci all’apparenza americano –, che intraprendono un viaggio attraverso i territori del sud fino a raggiungere il luogo denominato Apacheria, dove dimoravano gli ultimi nativi americani.
Il progetto dell’uomo è quello di documentare le ultime tracce acustiche dei nativi che un tempo vivevano lì; quello della donna, invece, è di investigare il fenomeno dei cosiddetti bambini perduti, gruppi di bambini soli che vengono spediti attraverso il deserto dai genitori, con la collaborazione dei “coyotes”, per raggiungere parenti già stanziali negli Stati Uniti. Si tratta di due categorie di vittime della storia americana. Le due storie si intrecciano nel passato di queste aree dove hanno avuto origine i primi gruppi di origine latina, denominati Chicanos, nati dai vari incroci dei nativi americani con i nativi aztechi e i coloni spagnoli durante i loro spostamenti tra Cinquecento e Seicento: è questa la mestiza di cui parla Anzaldúa, la razza meticcia che ha abitato i territori corrispondenti all’estensione del Messico prima che passassero agli Stati Uniti.
La storia di Luiselli affianca il percorso al racconto di un intertesto in cui i bambini leggono o ascoltano la protagonista leggere Il libro dei bambini perduti tra una tappa e l’altra del viaggio, contrapponendo il loro status di bambini privilegiati a quello dei loro coetanei che partono senza certezze in un viaggio verso il benessere a cui spesso non sopravvivono. Una nuova, perversa versione del sogno americano per un popolo migrante nella propria terra, dunque, “una herida abierta” per Anzaldúa, che invoca una nuova coscienza scaturita dalla consapevolezza dell’instabilità della propria identità, che possa destabilizzare i dualismi verso un discorso inclusivo opposto a quello esclusivo dei bianchi. In perfetta continuità con la riflessione di Luiselli, che affianca questa riflessione all’interrogazione dell’impermanenza della famiglia “meticcia”, la più genuina configurazione di quella americana, Anzaldúa si sofferma in particolare sulla condizione femminile. Al cuore del suo discorso c’è la “mujada”, la “mujer indocumentada”, la donna immigrata all’incrocio di sottomissione sessuale e subalternità razziale, in cui il dolore della “traversada”, del viaggio, e della nostalgia del paese perduto si sovrappone al la difficoltà di affermarsi in contrapposizione al machismo, esportato in Messico dalla stessa cultura dei gringos, al di là del muro costruito da loro.
Famiglie, migrazioni e difficoltà a trovare uno statuto identitario sono anche il tema di The Book of Unknown Americans (tradotto abbastanza disgraziatamente da Roberto Ferrai come Anche noi l’America per NNE, 2014) di Cristina Henríquez, che a differenza di Luiselli, non rifiuta l’affiliazione agli Stati Uniti ma si definisce esplicitamente latino-americana, essendo di padre panamense ma nata e vissuta negli Stati Uniti. Al centro della vicenda che racconta c’è una famiglia messicana appena emigrata in Delaware e le sue interazioni con gli abitanti di un condominio dove risiedono diversi nuclei familiari di origine latina e lingua ispanica. La tragedia al centro che fa da motore al racconto è ancora quella di una bambina, Maribel Rivera, che ha difficoltà cognitive e locutorie. Il sogno dei genitori è quello di permetterle di frequentare una scuola specifica che non esiste in patria, in cui la figlia possa ricevere le attenzioni di cui ha bisogno. Il sogno di inclusione in cui alla subalternità razziale e di classe si sovrappone la disabilità, diventa un incubo quando si scontra non con la “crisi” migratoria – termine chiave di Anzaldúa che Henríquez riprende nell’Introduzione – essendo i Rivera immigrati regolarmente, ma con il più banale episodio di cronaca nera fomentato dall’intolleranza, che spinge i superstiti al ritorno. Intorno alla vicenda di Maribel ruotano quelle della famiglia Toro di Panama e le altre avventurose storie di immigrazione degli altri condomini.

L’altro Messico – quello originario, che sogna la terra al di là del confine – è invece lo scenario di Umami (2017) di Laia Jufresa, autrice di Città del Messico che non ha mai dimorato negli Stati Uniti né scritto in inglese, tradotto dallo spagnolo da Giulia Zavagna per Sur. Siamo nella stessa città in cui vivono i personaggi del film Roma, che ha fatto vincere l’Oscar al regista di origine messicana e consolidata carriera hollywoodiana Alberto Cuaron, il quale insieme al suo collega e conterraneo Alejandro González Iñárritu testimonia da anni sullo schermo quanto i destini di Messico e Stati Uniti siano legati. Il romanzo di Jufresa condivide con Henríquez il focus sulle storie degli abitanti di un caseggiato, un “comprensorio” di villette intorno a un vialetto comune, dove incontriamo Ana, primogenita dell’unione di un uomo messicano e una donna americana, in questo caso emigrata in Messico, entrambi musicisti. Il legame tra le due metà del continente resiste, ma questa volta sposta il suo baricentro nella grande capitale messicana, in cui Ana vive sospesa tra il desiderio di allestire una milpa, una coltivazione tipica messicana in cui si piantano sullo stesso terreno fagioli, mais e zucca, alimenti chiave della cucina locale, e i sogni nutriti dai racconti dei nonni americani. Sullo sfondo c’è ancora una tragedia familiare: la morte della sorellina, durante una vacanza dai nonni negli Stati Uniti. Vi si intrecciano le storie di altri emigrati a Città del Messico, che al contrario di quelli di Henríquez cercano di costruirsi un’esistenza senza varcare i confini.
L’ultimo Messico di cui voglio parlarvi è quello di Myriam Gurba, il cui romanzo più recente, Mean, 2017, tradotto da Chiara Brovelli per Fandango Libri come Cattiva. Gurba si ricollega al mio discorso iniziale, essendo nata e avendo vissuto la sua intera vita intorno a Los Angeles, risiedendo oggi proprio a Long Beach. Nella nota biografica che troviamo nell’edizione americana del libro, leggiamo: “She lives in California and loves it”. Senza diffidenze identitarie né questioni di affiliazione irrisolte, Gurba piuttosto che sulle migrazioni si concentra su questioni di genere e in particolare sui diritti della comunità LGBTQ, alternando la scrittura e l’arte – celebre una serie di performaces al Museo di Arte Latino Americana – all’insegnamento alle scuole superiori. Cattiva intreccia una surreale storia di crimine e abusi sessuali al memoir in cui Gurba racconta il suo personale “coming-of-age”, sottolineando le difficoltà di chi difende il proprio status di donna queer e di razza mista in una piccola città. Condividendo anche l’identità queer di Anzaldúa, Gurba riprende la parte più intima della sua riflessione, in cui la questione messicano-americana si afferma come lotta per l’emancipazione sessuale e razziale nel senso più stretto e intersezionale, come ricerca di una nuova coscienza meticcia che rifiuti la cultura del privilegio patriarcale WASP e le sue rigide categorizzazioni.
Si noterà che tutte e quattro le autrici che ho nominato sono donne latine – nel gergo attuale del discorso negli Stati Uniti, si utilizza l’etichetta “latinX”, che è protagonista di uno degli episodi cruciali di Mr. Iglesias. Nel nostro discorso siamo partiti da Luiselli e arrivati a Gurba seguendo la storia di questi bambini, spesso bambine, che hanno attraversato un deserto, fisico o metaforico, per diventare, nella migliore delle ipotesi, “sconosciuti americani” un giorno costretti a confrontarsi con le ristrettezze del proprio mondo patriarcale in un contesto che in apparenza promuove l’integrazione tra le comunità e l’emancipazione sessuale e di genere. Se vi va, portate questi quattro romanzi con voi sotto l’ombrellone, rivendicando il diritto sacrosanto alle vacanze nell’estate del CoviD-19. Fa bene al cuore ricordare che c’è chi questo lusso non può permetterselo, ed è anzi finito nell’oblio delle cronache in cui ha risalto piuttosto il dibattito per il metro di spiaggia libero in più. Avrete anche notato che tutti e i libri che ho nominato sono tutti pubblicati da editori indipendenti – La nuova frontiera, NNEditore, Sur e Fandango Libri – che mai come in questo momento in cui la vendita di libri in Italia pare precipitata, necessita del nostro sostegno di lettori.
Allargando i confini del discorso e quelli dello spazio che abbiamo intorno, per molti di noi ancora costretto principalmente intorno alle nostre case, questo primo giro di Prospettive inattuali si chiude dunque congiungendo la riflessione sull’intersezionalismo avviata dalla visione di Sex Education, la prima delle serie Netflix che ho nominato in questo spazio, all’esplorazione di una nuova coscienza “meticcia” che possa guidarci verso un’inclusività che potrà dirsi completa solo se saprà contenere ogni razza, sessualità, genere, lingua, provenienza sociale, conformazione fisica, insomma tutti i corpi di qualsiasi forma e colore. La cosa che più possiamo augurarci, leggendo, ascoltando, guardando lo schermo ma anche fuori dalla finestra, imparando, è quella di risvegliarci in un mondo in cui qualsiasi forma di esclusione, discriminazione, subalternità diventi una questione inattuale, così come si augurava Gayatri Spivak citando il nostro Antonio Gramsci negli anni Novanta e ponendosi come agenda quella di fornire a qualsiasi subalterno la possibilità di parlare, quale che sia la propria lingua. Purtroppo invece la strada da percorrere oggi sembra ancora lunga e la meta dunque inattuale quanto queste prospettive, ma anche chiara e definita davanti a noi come forse non è mai stata.
[Vorrei anche approfittare per ringraziare Cristina Di Maio, che mi ha fatto scoprire intersezionalità e Anzaldúa, e Alessia Apicella, che mi ha fornito il titolo per questa rubrica, e più in generale entrambe per i numerosi spunti forniti durante le nostre lunghe discussioni]