Quella notte, leggendo le notizie in un hotel dell’elegante quartiere di Providencia, decisi che il massacro di Torreón poteva anche non interessare a nessuno ma per me funzionava come lo scudo di Perseo: un cerchio lustrato dal tempo sulla cui superficie intravedo, senza restare pietrificato, la testa di Medusa in cui si è trasformato il mio Paese. Questa non è la storia che cercavi: è quella che ho.
È il 2014, Juliàn Herbert ha scritto già centottanta cartelle di quello che diventerà La casa del dolore altrui (Edizioni Gran Vía, 314 pagine) ma è colto da un dubbio: come può un libro che non sembra nemmeno interessare agli stessi messicani poter mai suscitare interesse in chi vive dall’altra parte del mondo? La sparizione di quarantatré studenti della scuola di Ayotzinapa, nello stato di Guerrero – “un argomento che ancora oggi fa vacillare il mio linguaggio” – diventa improvvisamente la prospettiva cui guardare alla sua stessa storia.
La storia che Herbert – classe 1971, messicano di Acapulco, poeta, scrittore, musicista, uno dei più poliedrici esponenti culturali del suo paese – è, infatti, una di quelle che si nascondono – e vengono nascoste – tra le pieghe delle grandi pagine della storia ma che sono in grado di parlarci ancora a distanza di anni e ricordarci con la forza della loro tragedia come i meccanismi che conducono ai momenti più cupi della storia restino nel tempo immutati nella replicabilità dei loro percorsi.
Tra il 13 e il 15 maggio del 1911 – sulla soglia della modernità e del progresso – in piena rivoluzione, parte della comunità cinese di La Laguna, Messico, viene massacrata in modo violento e arbitrario dalle truppe rivoluzionarie e dagli stessi abitanti della cittadina di Torreón. Si tratta della più grande strage di orientali mai avvenuta nel continente americano, un piccolo genocidio rimosso e dimenticato che, a più di un secolo, si fa specchio preoccupante del tentativo contemporaneo di togliere dignità alle comunità di migranti in ogni parte del mondo.
Il titolo prende spunto da “un motto che si trova scritto sulle gradinate del nuovo stadio” della squadra messicana del Santos Laguna (che riunisce le città di Torreón, Gómez Palacio e Lerdo e che vincerà il campionato di calcio messicano proprio il giorno in cui Herbert finirà di scrivere la sua storia) “e che non manca di crudeltà, anche se ci piace molto. Lo chiamano la Casa del Dolore Altrui” (da un genocidio all’altro, un testo sempre illuminante resta Dio, Calcio e Milizia di Diego Mariottini per Bradipo Libri sull’ascesa della tigre Arkan in Serbia).
Nella sua indagine attenta, precisa, minuziosa, Herbert ripercorre la storia ignobile della sinofobia del grande continente americano che accompagnò “quella che oggi conosciamo come la grande diaspora cinese, un fenomeno che nel corso di 101 anni ha separato dalla propria provincia otto milioni di cantonesi: l’equivalente dell’intera popolazione dell’Honduras”.
La sinofobia ha ripetuto in Messico lo schema geografico e politico della sua diffusione negli Stati Uniti. Per primo si sviluppò un filone anticinese, più o meno fantasioso, intellettuale e borghese; questo pregiudizio fu poi assecondato dai governi provinciali, successivamente da quello federale e, alcuni anni dopo (a partire dal 1906) l’ideologia fu completata dalla sinofobia pragmatica delle classi popolari.
Nella sua ricerca che prova a restituire verità a fatti lontani nel tempo e che nessuno davvero sembra voler ricordare (anche i cinesi, ci ricorda – “hanno dovuto rinunciare a un aspetto centrale della loro esistenza: la memoria. Per loro, come per la maggior parte dei torreonensi, il massacro del 1911 si è trasformato in un tabù”) Herbert tesse una trama che annoda fili che spaventosamente si ripetono nel tempo immobile della Storia – “i sentimenti anticinesi in America non nascono a partire dall’arrivo degli immigrati asiatici: quando il primo cantonese approdò sulle coste della California, i bianchi democratici e protestanti lo odiavano già da decenni nello scabroso territorio dell’immaginazione” – a quelli invece che sono più tipici della cultura locale, figlia della nascita di Torreón e della sua ascesa al rango di città ideologicamente “inseparabile da un’utopia eugenetica”.
La nascita di Torreón, infatti, coincise con il periodo dei Los Científicos, un gruppo di scienziati riuniti intorno al dittatore Porfirio Diaz, interpreti di un positivismo alla messicana che si può riassumere nell’idea di “migliorare la specie” attraverso un incremento degli ingressi di popolazione europea in terra messicana. La stessa Torreón che, appena sedici anni prima del massacro, era stata il teatro di “una delle deportazioni razziste più rilevanti nella storia del Messico” a danno di settecento giornalieri di colore provenienti dall’Alabama.
Herbert non distoglie lo sguardo dalla matrice violenta della città e dell’intero territorio lagunero, e lo fa in pagine bellissime – “Perché Torreón è una fidanzata accelerata, una donna che fuma crack mentre scopa a quattro zampe fino a sbucciarsi le ginocchia”, “una cultura che ha nostalgia della violenza” – che trasudano di passione e mescolano come in un groviglio di radici il narcotraffico e il sesso, la cumbia colombiana al punk e alla luche libre.
Doveva essere bello: tutti quegli uomini soli con i loro abiti tradizionali e loro lunghi codini che partecipavano – mescolandosi ai look dei lavoratori giornalieri con i loro giganteschi sombreros, dei cow-boy senza patria e dei professionisti in redingote – all’esplosione di una città a metà strada tra un film di Sam Peckinpah e la Torre di Babele. I cinesi ribattezzarono Torreón con un nome la cui dolcezza fu estirpata dalla storia a colpi di fucile: Tsai Yüan: Giardino delle Verdure, un paese fantasma che sopravvive nascosto tra le crepe di una città moderna.
Secondo volume della collana diagonal – inaugurata dallo splendido La dimensione oscura di Nona Fernández – La Casa del Dolore Altrui è una storia che cerca di restituire dignità a una comunità d’immigrati che andò inconsapevole incontro alla morte atroce provocata dalle stesse persone con cui dividevano gli spazi di ogni giorno. Ed è quasi inevitabilmente una storia di fantasmi – “Immagino una coorte fantasmatica: gli spettri di 303 cinesi che percorrono – con i piedi nudi, bruciati dall’asfalto – le strade di una città che non li conosce” – che nasce sull’onda di una sola potente immagine – “Ho scritto questo libro come chi cerca di restaurare una vecchia pellicola cinematografica per comprendere il senso di un singolo fotogramma”.
Cammino lungo calle Hidalgo e cerco di immaginare quello che c’era qui: decine di cadaveri, gente che corre sui marciapiedi carica di oggetti rubati (molti dei quali inutili), uomini che piangono e chiedono pietà, orde ubriache che premono il grilletto, corpi trascinati dai cavalli, sangue… Cerco di immaginarlo senza melodramma, senza fantasia persino: faccio appello agli strumenti della storia, alla sua stoica assimilazione dei fatti.
È un libro duro e intenso quello di Herbert che non si lascia distogliere dalla sua ricerca e prova con fatica di uomo a restituire tutto il fascino polveroso di un’epoca che appare lontanissima ma che pian piano ti avvolge dentro le pagine di una storia completamente sconosciuta e ti porta lì tra quelle strade, tra quella gente nella faccia oscura della rivolta maderista.
Il cielo si rannuvolò. Le tenebre si distesero in una patina uniforme. Fu così che cominciò la strage.
Il libro a un certo punto è dominato dalla tensione che conduce fino al massacro mentre il maderismo trionfa nelle strade, una tensione che esplode nell’orrore di una mattanza insensata e violenta, quasi sciatta nella sua messa in opera, crudele e senza alcuna pietà. Una sequela impressionante di esecuzioni sommarie, di torture e mutilazioni fino allo stupro di una ragazzina di quattordici anni.
Quanto è difficile camminare in una strada senza inciampare in diverse generazioni di scheletri.
Ma la storia non finisce con il massacro. Herbert ha il grande merito di raccontare una storia dopo la quale “a emergere non è stato il pentimento, e neppure l’autocritica, ma un simbolico permesso di trasgressione: ogni vessazione contro i cantonesi aveva un antecedente storico che non soltanto giustificava ma discolpava la nuova atrocità in quanto meno grave rispetto a quell’esplosione di violenza divenuta canone. È così che funziona l’economia della crudeltà”. Un percorso che dovrebbe continuare a essere di monito davanti a ogni violazione dei diritti umani che pure oggi affollano ormai le pagine dei quotidiani che leggiamo in un preoccupante crescendo d’indifferenza quando non di accondiscendenza.
Distruggere la memoria è sempre più facile che ricostruirla. Ed è una tragedia, ma anche una benedizione. Dopotutto, l’impulso biologico è cieco e sordo e non ha lingua: è presente puro. Siamo noi umani che ci affanniamo a fuggire dal Reale per mezzo del linguaggio e della memoria. L’oblio è più vicino di noi alla natura.
Lungo le tante pagine Herbert è capace di attraversare i registri più diversi con assoluta disinvoltura e mestiere: dal cronista storico a quello contemporaneo, dal racconto quasi d’avventura a quello di matrice western; ancora Juliàn Herbert riesce a cogliere dietro la tragedia della storia qualcosa che va oltre il dato economico, sociale e politico e che spaventa perché guarda dritto nell’abisso dell’uomo fino alle bellissime pagine finali in cui, messa la parola fine al libro, si concede una digressione poetica sulla propria famiglia che assomiglia quasi al bisogno stesso di respirare, a uno sguardo che, posandosi sulla compagna e sul figlio, sembra lasciar trapelare insieme la preoccupazione di una protezione costante che sa di dover mettere in campo e al contempo la sola proiezione di una speranza per un futuro di cambiamento del proprio paese.
Tutto è in tutto come pensava Anassagora, come un oceano bruciato in mezzo alla nebbia, come l’incontro tra un’utopia appena nata e un filosofo condannato a morte, come una fossa comune scavata da un inglese accanto al muro perimetrale di un cimitero: come la luce dei disgeli. Questo è un western. Questa è la casa del dolore altrui. Tenendoci per mano, Monica, Leonardo e io quel giorno abbiamo attraversato non una città, non La Laguna, non un piccolo genocidio, non il ponte di Ojuela: il ponte dell’orrore. Messico, lo chiamano.