Le parole

I racconti di Julio Cortázar

Per il terzo appuntamento con il nostro spazio di consigli di racconti ci fiondiamo nel mondo di Julio Cortázar, un omaggio monografico a uno dei grandi maestri dell’arte e del sequestro del racconto – che facciamo uscire simbolicamente nel giorno in cui ci ha lasciato, il 12 febbraio di 37 anni fa. Ci perdiamo tra le sue storie visionarie, tra coniglietti e cronopios e bestiari − con tanto amore per tal Julio.
«Non si saprà mai come raccontarlo, se in prima persona o in seconda, usando la terza del plurale o inventando continuamente forme che non serviranno a niente.» (Le bave del diavolo)

CASA OCCUPATA

“Ci sentivamo respirare, tossire, presentivamo il gesto che conduce all’interruttore della lampadina, le mutue e frequenti insonnie.”

Sono passati più di dieci anni da quando ho letto per la prima volta Casa occupata di Julio Cortàzar. Fu durante un laboratorio di scrittura, che era soprattutto un laboratorio di lettura. Il racconto apre Bestiario (Einaudi, a cura di Ernesto Franco, traduzioni di Flaviarosa Nicoletti Rossini e Vittoria Martinetto), una delle raccolte di racconti più famose dello scrittore cresciuto in Argentina a Buenos Aires e intimamente legato a Parigi. Proprio nel 1951, quando viene pubblicato questo libro che contiene anche Lettera a una signorina a Parigi e Circe, Julio Cortàzar si trasferisce nel capoluogo francese, così preponderante nel suo immaginario e nella sua visione letteraria. Casa occupata è un archetipo e tante volte ne ho ritrovato gli echi negli scritti degli altri; anche il film Magnifica presenza di Ferzan Özpetek subisce l’influenza di questo racconto. È un contenitore e un perimetro: di questo non ci si accorge subito, lo si realizza con l’esperienza, a furia di leggere. Non si può far riferimento a uno spazio casalingo che evochi un mistero senza scomodare questo celebre scritto. Cortàzar rappresenta quella corrente letteraria che la critica definisce realismo magico: è una tensione naturale che aleggia sulle opere di autori sud americani, da Jorge Luis Borges a Silvina Ocampo, da Julio Cortàzar a Gabriel García Márquez (solo per fare degli esempi) e fa spazio all’irrazionalità, al sogno, alla suggestione come elementi di interpretazione della realtà, delle circostanze. Il racconto che ho scelto si colloca bene in questa idea.

In Casa occupata la parola fantasmi non compare ma aleggia dall’inizio alla fine sugli snodi narrativi. Due fratelli ereditano una casa composta da due aree divise da una porta e un corridoio: è così ampia che potrebbe contenere fino a otto persone. La casa è subito protagonista del racconto, tanto che l’autore già nelle prime righe dice “A volte arrivammo a credere che fosse lei a impedire che ci sposassimo”. La voce narrante è di un uomo sulla quarantina, appassionato di letteratura francese, che vive con la sorella Irene, meticolosa, tranquilla, avvezza al lavoro a maglia. Il lettore avverte immediatamente che la casa è un elemento strutturale e che riserverà delle sorprese; il bello è il come lo scrittore monopolizza l’attenzione di chi legge, traslandola dai personaggi, dalla loro storia a quello che succede nelle stanze dell’appartamento. Una spiegazione logica per ciò che apprendiamo nel racconto non esiste: forse i due fratelli sono solo suscettibili, oppure no, e la casa è davvero in balia di voci, passi, spostamenti di mobili. Al lettore interessa sapere cosa accade, capire cosa succede nelle stanze disabitate della casa, ma lo scrittore non lo sa e lascia che siano Irene e suo fratello a trarre le conclusioni, e vi si attiene, a sua volta. Casa occupata si espande per sottrazione e si stabilizza su una insinuazione dei protagonisti, cioè che l’appartamento sia da abbandonare perché invaso da spiriti. La tensione è crescente, non si scioglie del tutto, neanche sul finale. È tale la precisione con la quale lo scrittore descrive i fatti che gli crediamo, anche quando attraversa l’insensatezza. È un racconto geniale, bellissimo, da leggere e rileggere.

Marina Bisogno


«L’autunno è un mettersi e togliersi pullover, un rinchiudersi a poco a poco, un allontanarsi.» (Non si dia colpa a nessuno)
«Tu che mi leggi, non ti è mai capitata quella cosa che comincia in un sogno e che torna in molti sogni ma che non è quello, non è solamente un sogno.» (Lì, ma dove, come)

TANGO DEL RITORNO

Ma come non dirsi che probabilmente, una volta o l’altra, la ragnatela mentale combacia filo per filo con quella della vita, anche se dirlo deriva da un puro terrore, perché se non ci si credesse almeno un poco non si potrebbe seguitare a far fronte alle ragnatele di fuori.

Tratto da Tanto amore per Glenda del 1980, Tango del ritorno è un racconto illuminato dalla luce di un passato che non lascia scampo. In una manciata di pagine, Cortázar costruisce una cornice, dove il narratore sembra raccontare una storia di cui non è protagonista e che si chiude, invece, in maniera perfetta su una trama che ha tre protagonisti, la signora Matilde – con Germán suo marito lontano per lavoro – la sua cameriera Flora ed Emilio “Milo” Díaz che, letteralmente come un fantasma, compare improvviso sotto le loro finestre. In un’estate calda e languida, tra le strade di una Buenos Aires elegante e borghese, la tela del ragno viene tessuta a piccoli passi, mentre la vittima – a suo tempo carnefice – sembra quasi arrendersi a un’espiazione che attendeva da sempre. Quelle di Tango del ritorno, sono pagine calme e lente in cui Cortázar esprime al meglio le sue capacità noir, con una costruzione che richiama il montaggio cinematografico di film di là da venire come nelle pellicole di Jean-Pierre Melville. Ma dietro la calma apparente – dietro la paura che teme l’impossibile – si nasconde, come sotto la cenere di un tempo lontano, la passione che anima la danza argentina col suo odore acre di desiderio e il suo sentore di morte, per l’ultimo inevitabile passo.

Fabio Mastroserio


STORIE DI CRONOPIOS E DI FAMAS

“C’era una volta un cronopio piccoletto che cercava la chiave della porta di casa sul comodino, il comodino nella camera da letto, la camera da letto nella casa, la casa nella strada. Qui il cronopio si fermava perché per uscire in strada aveva bisogno della chiave della porta della casa.”

Dall’amore per il fantastico di Cortázar sono nati esserini eccezionali come i cronopios e i famas, e pure le speranze e la danza della tregua. Le storie di cronopios e di famas ci lasciano smarrire nel talento più puro e ironico dello scrittore argentino, un mondo incantato e un’allucinazione borgesiana dove convivono eccentrici cronopios e più regolari famas. I cronopios e i famas nascono dalla testa di Cortázar poco alla volta, come da un incantesimo a tappe che attraversa manuali di istruzione (per cantare, salire le scale, caricare orologi), e occupazioni insolite, da un procedimento che somiglia a quello di un sogno che a poco a poco prende le forme mitologiche di queste genie di esseri; solo dopo, l’atto di possessione e magia è completo e va a contaminare una parte dell’opera dello scrittore argentino. Lo stesso Cortázar si dichiarava “un cronopio che scrive racconti e romanzi” con il solo fine della “propria esclusiva letizia”. Così, una volta nati e raccontati nei loro tratti definiti, i cronopios tornano nell’opera di Cortázar, come nel racconto del concerto di Louis Armstrong, dove il teatro è invaso di cronopios che vanno da una parte all’altra illuminati dalla musica jazz (altra grande passione di Cortázar, che celebrerà pure il genio cronopio di Charlie Parker nel racconto a ritmo jazz Il Persecutore); o nel Viaggio in un paese di cronopios che è come una take conclusiva nel Giro del giorno in ottanta mondi. Il surreale e l’ironico si incontrano in queste storie minime, una delle più affascinanti e grandi invenzioni della fantasia visionaria di Julio Cortázar.

Gio Taverni


LETTERA A UNA SIGNORINA A PARIGI

Le abitudini, Andrée, sono forme concrete del ritmo, sono la quota di ritmo che ci aiuta a vivere.

Evocare l’Universo vuol dire avere almeno un’infinità di sinestesie in tasca. Avvitare un senso all’altro è fine meccanica, ma il risultato non tarda a chiamare. Bisogna solo prestare molta attenzione e arrendersi alla sorpresa. Un coniglietto è morbido pelo, nuvola di candore che esonda dagli occhi e un palpitare timido di vita, una richiesta di cura in forma di piccolo essere. «Quando sto per vomitare un coniglietto, mi ficco due dita in bocca come una pinza aperta, e aspetto di sentire nella gola la peluria tiepida che sale come un’effervescenza di sali di frutta». Dire che nei mondi di Julio Cortázar avviene di tutto è riduttivo e ingenuo, poiché quello che è nominato in una pagina potrebbe tranquillamente stare accadendo non solo nei suoi mondi, ma più probabilmente sette galassie in là o non essere ancora accaduto. Oppure assumere forma diversa e mutare secondo un sinistro apparato di ossessioni regolabile, per il piacere perturbante del lettore. Come raccontare a una signorina di Parigi che ti ha prestato l’appartamento che adesso nell’armadio della sua camera da letto vivono dieci coniglietti? Che la loro notte è il giorno mentre di notte ti tocca liberarli, al chiarore di tre lampadine, e lasciare che consumino una vita imprevedibile, fatta di libri rosicchiati e tende strappate e trifogli disseminati sui tappeti e lampade travolte? Che la vita che non puoi togliergli è la stessa che gli hai donato – forma ormai la tua, ne cesella le abitudini – e come ogni dio ti saresti aspettato in cambio una serena, immobile venerazione al posto di un’assortita tortura? Se sei Julio Cortázar glielo racconti proprio così com’è: impossibile, senz’altro vero da qualche parte.

Simona Ciniglio


«E dopo aver fatto tutto quello che fanno, si alzano, si lavano, si mettono il talco, si profumano, si pettinano, si vestono, e così progressivamente tornano a essere ciò che non sono.» (Amore 77)
«Una sera, senza volerlo, ho dovuto lasciare di stucco una signora che mi domandava quali fossero i grandi momenti del ventesimo secolo che mi era toccato vivere. Senza pensarci, come sempre quando sto per dire qualcosa di veramente giusto, risposi: “Signora, a me è toccato assistere alla nascita della radio e alla morte della boxe”». (La nobile arte)

DESTINO DELLE SPIEGAZIONI

«Da qualche parte deve pur esserci un immondezzaio dove si sono accumulate le spiegazioni.
Una cosa soltanto inquieta in questo santificato panorama: ciò che potrà accadere il giorno in cui qualcuno arrivi a spiegare anche l’immondezzaio».

L’altrove è il luogo più vivo e presente nelle pagine di Cortázar ed è chiara e precipitevole la fuga dal quotidiano e dal banale, perché la vita è piena di immaginazione e forse è solo quella. Ma da scivoli elicoidali di invenzioni a salite ripide quanto ghiacciai, e fredde di arbitrarietà – poiché ogni racconto è un’imposizione, affermazione di sguardo e fantasia -, si fa presto a scendere scontenti se solo per un attimo ci si chiede: dov’è il senso? Il senso è l’unico altrove inconcepibile: si annullano a vicenda il senso e l’altrove, perché scappare da ciò che è chiaro e giusto e comprensibile, di più: spiegato? E allora tanto vale immaginarsi anche le spiegazioni, postularne l’esistenza d’accordo, ma che si piazzino nella giusta cornice, e saranno contenti (?) Kafka e Beckett. Eccolo un bell’immondezzaio dove trovare quiete e verità, verità e quiete. Ma quieto è chi si ferma, se hai un’astronave-pensiero non ti fermi, costi pure un’inquietudine in più.

Simona Ciniglio


LONTANA

A volte so che ha freddo, che soffre, che la battono. Posso solo odiarla tanto, aborrire le mani che la gettano a terra e anche lei, lei ancor di più perché la battono, perché sono io e la battono.

Contenuto in Bestiario (1951), Lontana è un racconto in forma di diario – quello di Alina Reyes – che affida ogni sera, alle pagine scritte nel silenzio della notte, il suo inconfessabile segreto, quella sensazione costante che ormai turba la sua vita quotidiana: da qualche parte esiste un’altra sé stessa, povera e maltrattata, che riesce a mantenersi in contatto con lei in maniera misteriosa e verso cui sente ogni istante crescere il bisogno di prestarle soccorso. È il freddo che colpisce, quello che le arriva improvviso nei momenti delle sue giornate e che Cortázar trasmette al lettore in maniera magistrale. Il caldo umido del Sudamerica viene spazzato via da folate di vento, da gocce gravide di pioggia e presagi, da nevicate che sembrano isolare la mente, sospendendone i meccanismi. Quel freddo, il freddo che sente nei suoi giorni, è quello della lontana Budapest fino a che una visione nitidissima – quello del Ponte dei Mercati della capitale magiara – la spinge a sposarsi e a passare lì la luna di miele per ricongiungersi a una parte di sé. Lontana è un racconto attraversato da un mistero sottile e soprannaturale che si dipana tra le sue stesse pagine e lo specchio di quelle del diario di Alina, con un incedere che quarant’anni dopo avremmo detto lynchano, lì dove la tensione è palpabile ma trattenuta e ciò che dovrebbe sembrarci inverosimile assume i tratti del reale possibile.

Fabio Mastroserio


MANOSCRITTO TROVATO IN UNA TASCA

“Quando il treno si mette in marcia vedo che non si è mossa, che ci resta un’ultima speranza, a Daumesnil soltanto una coincidenza e l’uscita per la strada, rosso o nero, sì o no.”

È sempre bello giocare alla Rayuela con Julio Cortázar, rischiare di perdersi, incontrarsi e scontrarsi, incappare nel gioco di imprevedibili casualità che è la vita per vedere se da quel gioco sia possibile estrarre un fato o un principio di destino, o se tutto sia solamente un assurdo incastro di coincidenze. Manoscritto trovato in una tasca asseconda queste infinite combinazioni: casuale è il gioco di sguardi e incontri del protagonista sulla metropolitana di Parigi, una metropolitana-belva che inghiotte i passanti nei suoi sottoscala, nelle sue coincidenze, nelle sue moltiplicate variazioni; casuale è la possibilità di replicare un incontro per caso. Incontrare una volta Marie-Claude a bordo del metrò non è abbastanza, né inseguirla per bere un caffè (“non possiamo separarci prima di esserci incontrati”) – il protagonista è morso dai ragni e il gioco ha le sue regole e pretende una replica. Quante sono le possibilità di reincontrarsi per caso sulle infinite linee del metrò? In questo piccolo racconto-gioco di Cortazar si respira l’atmosfera delle scommesse al buio, dei giochi di carte, il tiro di dadi al caso di Mallarmé; allo stesso modo in cui sfogliamo i capitoli della Rayuela in un senso o nell’altro, così ci perdiamo tra ingressi e uscite e mappe di una metropolitana che ogni giorno gira su sé stessa incrociando una faccia dopo l’altra. Cortázar è anche questo: il mago delle misteriose possibilità che scrive minacciato da una lateralità, il poeta surrealista che dipinge e infetta di magia la realtà, l’estrattore di incognite dal futuro, l’entusiasta giocatore di combinazioni di parole, il boxeur che ti stende a terra per k.o. di incanto tecnico. E a volte pure il cuentista che ti lascia con il finale in sospeso – ma non è fatta così pure la vita poi?

Gio Taverni


«Quando scrivo un racconto e mi avvicino al finale, il momento in cui tutto cresce come un’onda e l’onda sta per infrangersi e sarà punto finale, in quell’ultimo momento lascio uscire quel che sto dicendo, non lo penso, perché arriva avvolto in una pulsazione di tipo musicale. Lo so perché sarei assolutamente incapace di cambiare una sola parola, non potrei sostituire una parola con un sinonimo; anche se il sinonimo dicesse praticamente la stessa cosa, la parola avrebbe un’altra estensione e il ritmo cambierebbe, qualcosa si spezzerebbe come si spezza se si mette una virgola dove io non l’ho messa.»
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