Senza Netflix, un film come Sto pensando di finirla qui non avrebbe mai avuto una distribuzione degna di questo nome. Reduce dal bellissimo film d’animazione Anomalisa, Charlie Kaufman ha scritto e diretto uno straordinario racconto della mente dove più in assoluto traspare il cuore di un autore che da sempre ha fatto dell’autoanalisi il motore mobile del suo cinema. Con una prima immagine molto cinematografica degli abiti rosso sgargiante della protagonista (la clamorosa Jessie Buckley), veniamo introdotti all’universo mentale di una donna in procinto di porre fine alla sua relazione con il fidanzato Jake (Jesse Plemons). Complice anche la reiterazione della frase che dà il titolo al film, la prima mezz’ora sembra proseguire su quel percorso, evidenziando i punti di scotto e i disagi all’interno della vita di coppia; poi Kaufman inizia a ramificare l’impalcatura sui temi del tempo e delle ambizioni infrante attraverso una fitta rete di dialoghi. Il lungo viaggio in macchina dei protagonisti è scandita da una bufera che crea un’atmosfera inquietante, da horror, con un sound design di lusso.
Il sentore di “minaccia” viene caricato ancora di più una volta che Jake e fidanzata giungono a casa dei genitori di lui (rispettivamente Toni Colette e David Thewlis). Sto pensando di finirla qui non è un horror come in tanti sono stati frettolosi a etichettarlo, ma tutto nelle scelte registiche di Kaufman è studiato per generare disagio, dal dècor shininghiano al tono lynchiano dei dialoghi su arte ed esistenzialismo. Il “nido genitoriale” è un micro-mondo sospeso e alienato al cui contatto lo spettatore inizia a veder sgretolate le proprie aspettative in relazione del film, non si ha più certezza sul confine di realtà e menzogna e ci si smarrisce in un labirinto di specchi e sovrapposizioni. In parallelo a tutto ciò scorre la piccola vicenda personale di un anziano bidello che, se si conosce un minimo il percorso artistico che ha condotto Kaufman dalla sceneggiatura per Il ladro di orchidee a questo film, lascia intuire dove voglia andare a parare l’intero discorso. Ovviamente senza giocare davvero a carte scoperte.
Il taglio in 4:3 delle inquadrature insaporisce la claustrofobia filmica mano a mano che il plot si avvia alla sua onirica chiusura, alla presa d’atto di sé e alla resa dei conti con un passato di errori e inettitudine. Come il romanzo di Ian Reid da cui è tratto, Sto pensando di finirla qui parla con i sottintesi e i dettagli, non sceglie mai soluzioni didascaliche e facili per sbrogliare la matassa, scambia i ruoli ma alla fine fa tornare tutto a una sola visione. O quasi, visto che i vari depistaggi narrativi, pur non toccando la follia cerebrale di Tenet, sicuramente non mancheranno di dividere il pubblico, che in buona parte preferirà la bellezza perlopiù nelle spettacolari interpretazioni o nel peculiare tocco registico.
Un gran bel film, intelligente e forse addirittura un po’ arrogante, che richiede una non indifferente dose di attenzione; un viaggio molto esasperante che fa sbandare di continuo le umane percezioni. Perché perdere la bussola nel bel mezzo del mistero non è stato mai tanto bello ed emozionante come in questo caso.