Mi presento vicino al Teatro Massimo verso le otto e mezza. Di Massimo, in realtà, il teatro ha ben poco, però è una venue quantomeno decente per un evento simile, con l’unico difetto evidente quello degli altoparlanti, di cui in seguito risentirà. Mi fanno andare in galleria, lala, dico io, pero’ avrei preferito trovarmeli di fronte, vicini, i musicisti. Una collega mi ha consigliato, in preparazione di questo concerto, di drogarmi. Mi rendero’ conto che aveva ragione.
Il palco, settato con tre pc, due synth, chitarra, basso, pianoforte e tre maxischermi, crea una scenografia suggestiva, inizio a pensare di essere non solo nel posto giusto per buona musica, ma anche in quello sbagliato per via del fatto che non ho la piu’ pallida idea di come tali strumenti musicali e scenici possano venire usati. La platea e’ semivuota, a causa sia della mancanza di sensibilità e necessità musicali da parte dei locali sia del genio degli organizzatori i quali, sebbene, va detto, sappiano scegliersi gli artisti, non sanno scegliere granché le date, fissando altri due concerti in Centro Italia a Bologna e a Roma – e nessuna al Sud – mettendo i biglietti quasi al prezzo di un prato dai Coldplay.
Lo spettacolo che David Sylvian, ex Japan, Christian Fennesz, chitarrista austriaco famoso in ambito elettronico e Stephan Mathieu, vate dell’elettroacustica tedesca, mettono in piedi consiste di improvvisazione, ed e’ principalmente nato dal bisogno di Sylvian di piangere la morte di un amico, il Pulitzer Franz Wright, attraverso delle registrazioni delle sue poesie, accompagnate da immagini audiovisive, intermezzi improvvisati basati vagamente su una composizione, The Kilowatt Hour, appunto, scritta da Sylvian lo scorso Agosto.
La scelta dei pezzi permette di individuare un filo logico, il degenerare del tumore di Wright e il suo ultimo addio alla vita, mentre i maxischermi raffigurano cinque lune, cerchi e soffuse atmosfere orizzontali; il tutto crea in me un senso di inquietudine spessa, agitazione e ansia, ma la catarsi e’ dietro l’angolo. La presenza scenica dei tre musicisti e’ quasi nulla, ma e’ assolutamente calcolata: se ne stanno nell’ombra, non parlano, mai, nulla e’ sottolineato con la voce se non Wright, il quarto componente del progetto, il grande assente, del quale pero’, spiace dirlo, la voce ci giunge distorta da una cattiva acustica e, ovviamente, in inglese, con grande disperazione del pubblico di casa che non riesce a capire molto, mentre io devo sforzarmi parecchio. La cosa terribile e’ che sotto questa voce i synth, invadenti e fastidiosi ma anche in splendida forma, attaccano la tappezzeria alla suite. Una tappezzeria rumoristica giallognola, verdina e grigio smog.
Lo ammetto, dopo di questo mi faccio cogliere dall’abbiocco: e’ frustrante non capire quello di cui si sta parlando, ancor piu’ di quanto lo e’ non capire cosa si stia ascoltando. Sto li’, inerme, mi faccio travolgere dalla marea e trasportare, ma mi stanco anche, mi annoio, a volte le atmosfere si fanno o troppo rarefatte o troppo pregne, e si vede quanto questo progetto, seppur geniale, sia lievemente raffazzonato. Il finale pero’ e’ stato interessante, molto interessante.
Potenti arrivano i synth di Mathieu. La chitarra sottolinea i passaggi più drammatici. Pianoforte gocciolante di Sylvian. E all’improvviso, archi. Regalano la pace finale, la speranza nel mondo che non c’e’, il mondo che, dice Wright, e’ oltre lo specchio. “If you liked being born, you will enjoy dying” sono le parole finali del poeta. Un finalone, fa riflettere, e in una notte freddina di fine estate, con la pancia vuota (ho saltato la cena), anche io inizio un po’ a pensare alla morte, ma non in senso eccessivamente negativo.
Ascolta musica di merda, forse perche' e' troppo giovane, e si prende troppo sul serio. Ha la tendenza a creare grossi sistemoni ideologici di stampo hegeliano per spiegare il reale, non riuscendoci ovviamente.
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