I fratelli Rob, Linnon ed Enro Winstons salutano il 2016 portando in dono al panorama musicale italiano il loro sorprendente progetto, un varco aperto su universi sonori che appartengono ad altri luoghi e generazioni, offrendoci un psichedelico tour in quella dimensione contaminata, asimmetrica e mutevole che caratterizzava il progressive rock della Canterbury Scene tra gli anni ’60 e ’70 (dai Gong ai Soft Machine ai Wilde Flowers). Più sorprendente ancora è che a costituire il trio Winstons e a firmare l’album non siano altri che gli italianissimi Lino Gitto, Roberto dell’Era (Afterhours) ed Enrico Gabrielli (Calibro 35, Mariposa).
Dieci tracce (il cui cantato è, nella maggior parte dei casi, in inglese) a tracciare un percorso che sta in bilico tra ricerca filologica e divertissement fra tre amici che s’incontrano sul terreno della comune passione per un genere e una scena. L’etichetta AMS – label che dal 2006 fa del progressive rock il proprio manifesto – sforna una produzione apparentemente destinata a un mercato di nicchia, che strizza l’occhio agli amatori e che s’introduce come un cavallo di Troia nel contemporaneo indie nazionale, un album che senza dubbio si configura come prodotto di natura bizzarra, il cui lancio disorienta e stuzzica pubblico e critica e spinge i più audaci ad augurarsi una maggiore eterogeneità nel futuro delle produzioni Made in Italy.
Sontuoso incipit è Nicotine Freak tutta declinata in minore con paesaggi sonori che danno vita a un acquerello i cui colori sono quelli dell’organo, dei cluster vocali, dei fiati accennati, per poi farsi più nitidi e decisi sull’onda del basso distorto. Diprodoton (sia qui che altrove continuerà a farsi sentire il debito nei confronti di Wyatt, omaggio peraltro esplicitato nei ringraziamenti), secondo capitolo di questa saga caratterizzata da un umore altalenante e da una considerevole ricchezza negli arrangiamenti, ha testo firmato dall’artista giapponese Gun Kawamura, autore anche della surreale e poco confortante immagine di copertina e della parole della camaleontica Number Number (di una tensione elegantemente sostenuta nell’iterazione ciclica delle progressioni melodiche).
Dichiarazioni d’intenti e riferimenti vengono disseminati lungo tutto questo lavoro: casomai l’esotismo, le atmosfere jazzy, le alterazioni, le stesse strutture dei brani – derive rumoriste comprese – non dicessero abbastanza sul fervido periodo con cui qui ci si confronta, Viaggio nel suono a tre dimensioni si apre con la réclame della fonovaligia. Le sperimentazioni di un tempo vengono messe sotto vetro, si esplicita l’operazione di recupero, s’ironizza sulla stessa. Allo stesso tempo si esibisce con fierezza un’anima musicale profondamente impregnata della verve compositiva di chi, quarant’anni or sono, sulla rottura dei canoni ci ha costruito una carriera artistica.
A trascinarci nel vivo dell’album sono brani come Play With The Rebels, che ci riporta ai Beatles più “sghembi” e impertinenti, She’s My Face, che odora vistosamente di Doors e in qualche passaggio ci fa pensare al Tim Buckley del primo periodo, oppure Dancing In A Park With A Gun, viaggio stralunato e paradossale, introdotta da una strofa orecchiabile che lascia spazio a un episodio teso a destabilizzare il mood del brano per poi chiudersi circolarmente. La galoppata di A Reason For A Goodbye scorre velocemente, merito delle dinamiche ben costruite, mentre Tarmac è momento sospeso, riflessivo, quasi recitativo.
E mentre l’ultima traccia scivola via – lasciando dietro di sé un senso di sospensione e rarefazione – e si ha da tempo superato lo shock iniziale di associare all’era digitale qualcosa che era profondamente radicato in quella del supporto analogico, “The Winstons” proclama se stesso come appetibile oggetto di ulteriori e numerosi ascolti. Coniugando con sapienza originalità nella composizione e ossequio ai maestri del genere, ci lascia in eredità uno scomodo quesito: quanto di ciò che oggi viene – più o meno sbrigativamente – classificato come post-rock, non avesse già semi, radici e germogli in molte delle sperimentazioni progressive e psichedeliche compiute tra quei formidabili ’60 e ’70.