a cura di Martina Bonetti
La scorsa domenica se n’è andato nella sua casa di Lubiana l’artista e icona internazionale Ulay, all’anagrafe Frank Uwe Laysiepen, uno dei pilastri della performance art. Spesso ingiustamente ricordato solo come compagno della più celebre Marina Abramović, ha intrapreso sia prima che dopo la loro relazione professionale e sentimentale, un percorso artistico non meno geniale. Per fuggire dagli incubi di una Germania postbellica spaccata in due e dai retaggi di una famiglia nazista, negli anni 60 Ulay fa di Amsterdam la sua nuova casa, servendosi della fotografia come mezzo per la sperimentazione. Scatta polaroid di sé stesso con metà viso al naturale, da uomo, e metà viso truccato, da donna. Provoca, si traveste, entra in contatto con senzatetto, tossici e mentalmente disturbati. Si tatua per asportare la zona tatuata ed esporre la propria pelle appesa al muro con lettere indelebili. Un’indagine sul corpo umano in tutte le sue accezioni e in tutto il suo potenziale, che lo eleva a mezzo di comunicazione più potente che esista.
È a partire da questa intima ricerca sull’identità e sulla fisicità che si ritrova sulla stessa lunghezza d’onda di un’altra sperimentatrice come Marina Abramović, conosciuta nel 1976 e mai più lasciata. I due hanno inizialmente dubbi su come riuscire a fondere due personalità tanto forti in un’unica entità artistica, ma l’intesa è tale da fare di loro una delle coppie più rivoluzionarie di sempre. Comprano un furgone che diventa la loro casa per tre anni, mentre girano l’Europa esibendosi in performances di body art provocatorie e scioccanti, volutamente disturbanti, per mettere a disagio un pubblico che volevano scuotere dal conformismo. Una collaborazione di enorme successo e quasi simbiotica, che si spegne con la loro storia d’amore, dopo 12 intensissimi anni.
Non finisce qui l’eccezionale produzione artistica di Ulay, che riprende quel percorso a singolo binario abbandonato anni prima. Ricomincia a sperimentare con la fotografia, affrontando temi come l’emarginazione e il nazionalismo (Berlin Afterimages), e andare ancora più a fondo dentro sé stesso. Così quando nel 2012 gli viene diagnosticato un cancro, decide di dedicare un anno, che poteva essere il suo ultimo in vita, con una troupe a ripercorrere i luoghi e a rincontrare le persone che avevano segnato la sua esistenza: Project Cancer. Un uomo vulcanico che lentamente si spegne, una fiamma che un tempo ardeva senza paura ora si è consumata.
Quello che resta l’aspetto più nobile ed esemplare di questa mente fuori dagli schemi è che nonostante gli anni, il successo, il denaro e la malattia, non ha mai abbandonato la sua etica. Non l’ha mai monetizzata, messa da parte o posta al servizio dell’utile. Perché con grande determinazione non ha permesso all’art system di catturarlo, come tanti altri artisti, rimanendo filosoficamente fedele a quell’accezione di creatività più pura che non ha niente a che vedere con il valore di mercato. Come amava dire: “L’estetica senza etica è cosmetica“.