È difficile immaginare un luogo migliore in cui trascorrere la notte di San Lorenzo che non sia qui, all’Indiegeno. L’atmosfera è raccolta quanto basta, il pubblico seduto sulle gradinate antiche del Teatro Greco di Tindari e, a fare da sfondo agli artisti – Daniele Celona, Cassandra Raffaele, Giovanni Truppi e Afterhours – il mare siciliano che si distingue a malapena dal cielo vitreo.
GIOVANNI TRUPPI
Il cantante napoletano, reduce dal terzo album, si presenta accompagnato da un classico trio chitarra-basso-batteria. Dopo Il mondo è come te lo metti in testa e l’instant-classic Superman, Truppi si butta al pianoforte per Stai andando bene Giovanni, spoken word che si appoggia all’andatura marziale della batteria per poi collassare in una ballata per piano e voce, in uno strano mix tra le armonie Morriconiane dei Baustelle e l’ostentata semplicità di Calcutta. Segue Nessuno, uno sghembo boogie per pianoforte che ricorda l’Elton John di metà anni ’70. Il pilota è vivo assume un sapore quasi prog, con tutti gli strumenti all’unisono, diventando poi un classico rock in 4/4, armonicamente già sentito (Rino Gaetano?). La stessa sensazione di deja vu la trasmettono I pirati (Space oddity?) e La domenica (lo Springteen di Pink Cadillac), che chiude il concerto.
Dell’esibizione di Truppi rimane la sensazione che tanto vagare attraverso i generi e le ritmiche non aiuti a valorizzarne i testi, efficaci e suggestivi, che ricordano l’efficace autoreferenzialità dell’ultimissimo Sun Kil Moon. Se da un lato si apprezza l’impegno nell’evitare gli arrangiamenti tipici di un certo cantautorato (di nuovo, sorge spontaneo il paragone con Calcutta), il risultato finale non riesce a soddisfare completamente, pur facendo davvero ben sperare per i prossimi dischi.
AFTERHOURS
È quasi mezzanotte, il palco mantato di rosso, le luci basse, le stelle cadenti sul Teatro di Tindari: Manuel Agnelli sale sul palco, da solo. E, a ben rifletterci, è proprio la solitudine, esistenziale, necessaria, a volte salvifica, ciò che accomuna chi affronta la scomparsa del proprio genitore a chi invece sta affrontando la propria battaglia con la malattia: strumento per ripensare la propria immagine, il proprio io, in relazione a chi li ha generati, per i primi; inevitabile passaggio per chi nel profondo sa che, al di là dell’empatia, è circondato da un mondo, in fin dei conti, sano, in cui ha ricevuto l’indesiderata parte dell’eccezione. Queste due tematiche, malattia e morte, ed il loro intersecarsi all’interno di quella che è l’esperienza del tumore, sono infatti al centro dell’ultimo lavoro degli Afterhours, Folfiri o Folfox.
“Avevamo un patto io e te, ma poi ti si è spento dentro” canta, accompagnato soltanto dall’acustica, Agnelli, che, nel frattempo, viene raggiunto, lentamente, dagli altri musicisti; ed è come se, con i loro strumenti, gli stiano dando il loro supporto, quel sostegno necessario a ritornare a vivere. Da questa energia ritrovata, che non calerà fino alla fine della serata, ripartono gli Afterhours: si susseguono, una dietro l’altra Il mio popolo si fa, sempre da Folfiri o Folfox, Ballata per la mia piccola iena, in cui Xabier Irondo sfoggia una particolarissima chitarra lap-steel, e Varanasi Baby, mai così aggressiva, grazie al drumming quasi D’N’B di Fabio Rondanini che domina la scena. I volumi, molto alti, così come il muro di tre chitarre elettriche che accompagna la maggior parte dei brani, sembrano penalizzare la voce di Agnelli, che spesso scompare nel mix, e il violino di D’Erasmo, che finisce per alternarsi tra tastiere e percussioni. A tenere il tutto ancorato a terra ci pensa il solito Dellera, che adatta il proprio stile, generalmente chitarristico, al contesto, giocando di sottrazione, scomparendo e riapparendo in Padania. Dopo Né pani né pesci, tratta dall’ultimo disco, con un break a base di synth un po’ kitsch (quasi à la Herbie Hancock periodo Rock-it), e Male di miele, la band si lancia in una lunga jam strumentale in cui svetta il basso enorme e distorto di Dellera, nello stile di Bootsy Collins, per poi lasciare nuovamente il palco al solo Agnelli, seduto al piano.
È questo il momento centrale del concerto: L’odore della giacca di mio padre. “So navigare nel panico solo e sì, lo so, che lui resta dentro di me. Sì, lo so, che tu resti dentro di me”. Poche parole per trasmettere la sensazione dei giorni che si susseguono, identici, nella malattia, fatti di ripetizione (“Tuo padre nel suo letto, tu guardi la tv”), silenzi (“E ti chiedi se hai risposto ai suoi occhi con i tuoi”) e, di nuovo, solitudine e speranza da cui ripartire. Come già all’inizio della serata, i momenti più meditativi del concerto sembrano avere una funzione quasi psicoterapeutica, spingendo i musicisti a fondo solo perché riportino a galla nuove energie: è così che seguono, come un’unica cascata di rumore, Il sangue di Giuda, Bungee jumping, guidata da un basso pulsante e quasi metronomico, e La sottile linea bianca, dove il falsetto di Agnelli viene valorizzato dalle armonie vocali di Dellera e D’Erasmo. Dopo Costruire per distruggere, da Padania, album che stasera si conferma essere sempre più un corpo a sé stante, per atmosfere, suoni e tematiche trattate, all’interno della discografia della band lombarda, la sezione principale del concerto si conclude con Se io fossi il giudice, in cui finalmente il violino di D’Erasmo trova lo spazio che merita nel mix.
Per il primo bis, Agnelli sale sul palco senza chitarra, roteando il microfono e fendendo l’aria di calci, come un Roger Daltrey postmoderno, che invece di attaccare, anche un po’ retoricamente, il mondo che lo circonda, arriva a mettere in dubbio persino la propria identità, in La verità che ricordavo. “Ho scritto questa canzone perché sentivo che il pop mi aveva ucciso l’anima”, così il cantante annuncia Pop (una canzone pop), ed il pensiero non può che andare all’estenuante dibattito che ha accompagnato la sua decisione di partecipare alla prossima edizione di X-Factor, in qualità di giudice. Polemiche incredibilmente simili, nei toni, nelle accuse, e nei volti di chi le pronunciava, a quelle che seguirono la pubblicazione di Non è per sempre nel ’99 – troppo orecchiabile e compromesso con le sonorità del pop, si diceva – così come l’annuncio, nel 2009, che sì, proprio loro, gli Afterhours, si sarebbero esibiti al Sanremo di Paolo Bonolis.
Il concerto si conclude con Quello che non c’è, che parte jazzata prima di esplodere definitivamente, e Bye bye Bombay, preceduta da una lunga improvvisazione collettiva, la seconda della serata: un approccio che, anche a giudicare dalla genesi del loro ultimo album, sembra guidare il processo creativo e, per quanto possibile, l’approccio al live della nuova incarnazione della band. Si volesse trovare un difetto all’esibizione degli Afterhours, è che, sebbene non apparissero così energici e aggressivi da anni, ciò accade a discapito di quella coerenza narrativa che rendeva così potente l’ultimo tour teatrale (di cui vi avevamo raccontato la data veronese) e che si sarebbe ben prestata ad un album concettuale come Folfiri o Folfox. Una scelta probabilmente dettata dal contesto che generalmente accompagna le esibizioni estive, in cui sia il pubblico che le location non sembrano chiedere altro che di poter scollegare la mente in overdrive. Chissà che non ci sia il modo di ripensare la scaletta in un’eventuale branca invernale del tour, in luoghi più intimi che permettano di assorbire Folfiri o Folfox in tutta la sua complessità emotiva. Ce ne sarebbe un gran bisogno.