Fotografie a cura di Alessia Naccarato
Prologo
Li osservo mentre arrivano. Sono duemila circa – si mormora -, ma forse di più. Arrivano da tutte le parti del reame per assistere ai tre giorni di Giostra dell’Ypsig, moltissimi anche da fuori, forestieri che parlano un altro idioma, ma che sembrano comunque in grado di intendersi alla perfezione. Brulicanti, invadono come pacifico esercito i mie vicoli e le mie piazze, colorati e festosi, armati di lunghi sorrisi ed affilate aspettative.
Non mi stupisco, sono settimane che mi preparo, come ogni estate, all’evento. Arazzi e stendardi segnaletici sono stati piazzati lungo le vie, locande e taverne hanno aperto le loro porte e sistemato i tavoli all’esterno e addirittura sono state piazzate sugli uscii di casa damigelle – seppur non più nel fiore dell’età – ad indicar strategicamente la via a chi si smarrisce. Nella piazza principale persino Messer Fiasconaro in lucente livrea attende accanto agli otri di Manna, pronto ad offrirne, spatola in mano.
Li aspettavo, sono pronto.
Giorno 1 – L’Approccio
Ventesimo anno, ventesima edizione, la più ricca di sempre per partecipanti. Cavalieri singoli, principesse guerriere o brigate combattenti, non ci sono regole di composizione né di scelta dell’arma: che siano chitarre elettriche, synth e drum-machine o pianoforte, tutto è ammesso. L’unico aureo comandamento, da me, è che a tenzone si viene una sola volta nella vita, una sola è l’occasione di essere acclamati e di sentire il proprio nome urlato dalla folla, nel pieno rispetto dell’Ypsi Once.
E dopo aver assistito alle prime schermaglie pomeridiane con protagonisti Georgia, Il Cielo di Bagdad e Birthh, il pubblico confluisce ansioso dentro Piazza Castello, il mio cuore, nel quale è stato eretto un palco enorme, sovrastato dal solo castello. Gli Oscar (gradita sorpresa) e The Vryll Society sono il giusto riscaldamento per una serata inesorabilmente all’insegna del rock più puro, e la conferma arriva dall’urlo di battaglia del primo fra i due headliner: “Hi, we’re Mudhoney and we play Rock ‘n’ Roll” e dalla performance encomiabile degli esperti The Vaccines.
Il fragore sale alto verso un cielo terso e stellato che mai è parso così basso e così a portata di mano, cornice perfetta per la folla che ondeggia in un’atmosfera carica e vibrante: le prime ore di festival sono il marchio di una soddisfazione che inizia a dipingersi sui volti di coloro che, ormai stanchi verso le 2.30 del mattino, si recano verso le rispettive tende o alloggi.
Giorno 2 – La Pugna
Se è vero che la riuscita di una manifestazione non può prescindere dalla capacità di affrontare e risolvere le inaspettate avversità che si presentano lungo il cammino, allora posso ritenermi doppiamente soddisfatto: per la rapidità con cui i miei bardi organizzatori avevano dapprima provveduto a tappare il buco creato dalla defezione dell’ultimo minuto dei Kiasmos, convocando in sostituzione i seppur inesperti Grandbrothers, ed in secondo luogo per la flessibilità nel riorganizzare le lineup, nel momento in cui si ripresenta la nostra nuvola nera, immancabile e puntuale talismano di ogni anno.
Fortuna vuole che la principale novità di Ypsigrock 2016, ossia l’inserimento di un quarto palco – Mr.Y, chiesetta sconsacrata dai bianchi intonaci – sia in grado di fornire riparo agli spettatori, mentre ascoltano deliziati le note del piano del monaco Federico Albanese, musica classica contaminata da una base elettronica soffice come neve.
Ma il castello chiama e pioggia o non pioggia è impossibile non rispondere: i Niagara, band torinese dalla nuova impronta fortemente dark, dimostrano ampiamente di meritare il palco grande, mentre sui LUH c’è qualche perplessità in più, non tanto per la potenza assordante dei volumi e la presenza scenica quanto forse per la coerenza armonica di ciò che producono live.
E’ un’attesa snervante lunga quasi un’ora quella che precede l’arrivo dei Crystal Castles e il pubblico si difende dall’acqua ormai scrosciante come può, chi bevendo, chi facendo bolle di sapone, chi fumando nervosamente: ma nessuno fugge, anzi, è un assieparsi graduale sempre più stretti alle transenne, fino alla tanto sospirata epifania del duo post-rave. Poi è solo un intimo, profondo e violento sospiro che esplode in un urlo interminabile, accompagnato da visioni frammentate di capelli rosa, scoppi di luce, gomiti, braccia al cielo e corpi bagnati avvinghiati. Un campo di battaglia. Tempo dopo scorgo i superstiti recarsi all’Ypsicamping per la chiosa finale firmata Capibara, non so con che energie.
Giorno 3 – La Presa
Fuori le mie mura, non distante, c’è il mare. Da sempre luogo ove trovare ristoro per corpi e menti, oggi più che mai è meta di veloci incursioni da parte di pellegrini che necessitano di pace e relax per recuperare le forze. C’è ancora tanto da vedere e da fare e loro lo sanno.
L’inizio di giornata, benedetta da un ritrovato sole, scolpisce subito un tassello di storia con le ballate desert-rock dei Giant Sand al loro tour finale e, di conseguenza, alla loro ultima apparizione in Italia. Sul palco di Mr.Y è il turno dei freschi ritmi tribal della giovane vincitrice del “contest novità” Yombe e del dream-pop dell’eterea LIM (che canta sullo sfondo di visual ipnotizzanti) e c’è appena il tempo per uno struscio rapido sulla via principale e per acquistare al volo una cassettina delle Tinals – serie limitata di riproduzioni grafiche di canzoni famose, in mostra al Festival – prima che la massa si raduni, attratta da quella gigantesca calamita che è il mio castello, per la terza volta.
Li scruto, nuovamente, prendere posto con ragionato disordine, chi in piedi già davanti, chi seduto sui gradoni laterali: aspettano l’epilogo, il meritato trofeo alla loro perseveranza. I Minor Victories sono un assaggio che ha già il gusto pieno di una portata principale: un supergruppo composto da elementi di Mogwai ed Editors, al cui post-rock suonato si aggiunge – ingrediente perfetto – la voce divina di Rachel Goswell, cantante degli Slowdive.
E sarebbe appunto già quasi sufficiente a saziarsi se sul palco non irrompessero quattro amazzoni inglesi, le Savages, capitanate da un’indemoniata Jehnny Beth che tra una camminata sopra il pubblico ed una struggente e potente Dream Baby Dream distrugge il palco e si prende la corona di forza. Miglior performer in circolazione, senza dubbio, al momento, e hype alle stelle.
Ed è infine un’altra donna, Elena Tonra dei Daughter, a chiudere il circolo, accarezzando il viso degli astanti con la sua voce magnetica e con le sue lacrime, in un finale di emozioni che lascia stravolti per il livello di intensità. Il castello è preso, le chiavi consegnate.
Epilogo
Li osservo, per l’ultima volta, mentre lentamente se ne vanno. Li ho accolti, protetti, nutriti per tre giorni interi, qualcuno anche per più tempo. Li ho coccolati, divertiti, emozionati. So bene che questo è un arrivederci, di certo non un abbandono. Fra un anno, li rivedrò: magari accompagnati da nuovi amici, o con una famiglia, o da soli, perché no. E io sarò pronto, sono qui, non mi muovo, non mi sono mai mosso. Io sono Castelbuono. Loro sono parte di me e, ora, io di loro.