Lo scorso autunno Cat Power ha omaggiato il suo eroe Bob Dylan con un concerto sul palco della Royal Albert Hall di Londra. Per chi non abbia potuto assistere al breve miracolo che si è consumato dal vivo, il disco Cat Power sings Dylan è la registrazione di quella serata. La cantautrice americana ripercorre canzone per canzone il live di Dylan del 1966 alla Free Trade Hall di Manchester, passato alla storia come Royal Albert Hall Concert per via di un bootleg. Durante il concerto Dylan passa dall’acustica all’elettrica attirandosi la contestazione dei duri e puri del folk. Il peccato suonava tra le corde della sua chitarra, la dannazione era alle sue spalle, a Newport come nella scelta di farsi accompagnare in tour dagli Hawks. Una voce dal pubblico gli urla, Giuda. Dylan non si lascia sconfiggere, alza i volumi come un profeta eretico del folk rock, sovrasta il pubblico e continua indifferente e anarcoide a suonare come vuole.
Quando a Cat Power chiedono di suonare alla Royal Albert Hall, lei risponde: solo se posso rifare quel concerto di Dylan. Qualche giorno prima del live si lascia andare all’agitazione in un’intervista al Guardian: il mio cuore batte forte, sono terrorizzata; rievocare la serata in cui il poeta beat ha sconquassato l’anima dei lealisti del folk è una sfida complicata, ma bisogna ringraziare chi ha deciso che accadesse. E chi lo ha registrato, affinché riaccadesse. La notte del concerto Cat Power è ispiratissima, butta la tensione nelle tasche e ci consegna un pezzo di cuore e viscere. Prende il concerto di Dylan e lo fa suo, trascina il pubblico in una dimensione intima, nel suo peculiare universo, una bambagia soffice e rauca di cotone e acciaio.
Non è la prima volta che Cat Power si misura con l’arte della cover. In album come Covers o Jukebox ha usato la voce come uno strumento di possessione, ha piegato le canzoni alla sua volontà, le ha indagate alla ricerca del punto ignoto in cui era possibile distenderle e reinterpretarle. Stavolta però c’era di mezzo il suo dio, e un senso sacrale di rispetto. Inoltre, tutto doveva essere fatto dal vivo. Quindici pezzi da suonare senza concedersi una resa o una fuga dal palco. Possiamo vedere Chan Marshall messa di fronte a tutti i suoi dèmoni. È sul palco e solo lì nel momento presente che deve dare tutto e tirare fuori il meglio. Forse la ragazza sarebbe scappata a metà set, ma la donna resta ferma, compie il miracolo fino a Like A Rolling Stone, e il suo dio la protegge.
Bob Dylan è da sempre un’ispirazione per Cat Power. Ha cominciato ad ascoltare i suoi dischi da ragazzina, è rimasta scossa dalle sue canzoni, si è lasciata rotolare come una pietra sulla strada, perfetta incarnazione della ragazza randagia di Like a Rolling Stone, la giovane Chan Marshall che sbanda solitaria alla ricerca di sé stessa tra le strade d’America, la ragazza del sud con il dono di una voce terrifica, anche lei come Dylan vuole suonare la chitarra, anche lei vuole cacciare i diavoli dal corpo attraverso la musica. Nella stagione all’inferno della sua giovinezza Chan vaga tra i locali di Atlanta finché non trova il suo posto sul palco. Sceglie di chiamarsi Cat Power per puro caso. Se il giovane Robert Zimmerman sceglie il suo nome evocando dall’oltre-mondo un indimenticato poeta gallese, Chan Marshall si affida all’istinto dal primo istante, come se presentisse la fiammata di pulsioni che contraddistinguerà la sua storia di musicista.
Si lascia dondolare verso New York con il suo talento abbagliante. Scrive le sue canzoni per urgenza, canta sui palchi, registra dischi, diserta concerti, si auto-boicotta, si abbandona alla fatalità dell’alcol, lancia invettive ai giornalisti che la accusano di instabilità mentale, si fa vezzeggiare da Karl Lagerfeld, e mentre tutto succede e niente succede, non dimentica Dylan. Il fantasma vagabondo è dietro le sue spalle a guidarla come un dio segugio. Per Dylan scrive una canzone, Song To Bobby. C’è dentro tutto quello che vorrebbe dirgli, ma quando lo incontra scappa in direzione contraria, perché è tanto meglio starsene alla larga dalle divinità. E perché la ragazza di Atlanta non ha mai perduto la commovente bellezza delle sue contraddizioni.
Il concerto con cui Cat Power ha omaggiato Bob Dylan lo scorso autunno, è dunque una bellissima chiusura del cerchio per la compositrice americana, che qualche anno fa cantava di voler essere la migliore, arrivare cioè a toccare i vertici del profeta, l’antieroe americano, l’original vagabond, il trapezista di versi e invettive con la chitarra a tracolla. Cat Power che canta Dylan è un atto di eroismo e terrorismo insieme: è una bellezza ascoltarla, per un momento riesce a scuotere il mesto canto di bombe del nostro tempo e rimettere in pace. La sua voce è favolosa, purezza e nebbia.
Il disco si apre con la pietrificante acustica di She Belongs To Me, e come per il live del 1966, si spezza in due parti, perché da Tell Me, Momma il ritmo cambia. Chan Marshall però non si spezza, la sua attitudine folk è funambolicamente rock quanto blues. È sempre fuggita via dalle chiusure restringenti dei generi, ne ha pagato il prezzo con la libertà. Ma chi altro potrebbe azzardarsi a reinterpretare un concerto degli anni Sessanta e uscirne indenne, chi altro potrebbe trovare un pubblico che si esalta nel sentire una Mr. Tambourine Man ascoltata già tremila volte, e che diventa magica riaffilata dalla voce al coltello di Chan Marshall.
Ascoltando il disco c’è il forte sospetto che quello che stava facendo Cat Power sul palco fosse rievocare fantasmi. I tempi andati. Certe canzoni che abbiamo amato e si sono incatenate alla terra. Il sortilegio ventriloquo e indefinito di un poeta delle strade. L’uccisione del Re e la sua celebrazione. Cat Power si carica la croce della sua passione addosso e canta raggiungendo vette che sono estranee a questo mondo. Sale sul palco con la felicità dell’incoscienza e l’ombra del fallimento come una corona d’alloro in testa, consapevole che non è facile cantare Bob Dylan. Che lui possiede le sue voci interiori e le trasmigra nelle sue cento voci cantate. Ma Chan Marshall non vuole imitare nessuno, pure lei ha le sue cento voci, pure lei conosce la tempesta di spine e il furore che spazza via le vertigini, per questo le riesce di cantare Visions of Johanna e Desolation Row senza rimpianti, donando anzi un tocco di personalità.
Cat Power canta a suo modo, incespica su Fourth Time Around, sale alle stelle su It’s All Over Now, Baby Blue, colpisce a secco su Ballad of a Thin Man, si disarticola nel cambio di ritmo, sembra si sia preparata tutta la vita per questo concerto, le ha cantate tutte in tutti i modi possibili, è stata la fatale eroina dei sottoscala e la fuorilegge del gospel, adesso può resistere sul palco e compiere la traversata. Il nuovo album di Cat Power è una discesa nel cuore di tenebra del folk rock, una disgraziata delizia che appena finisce si rimette daccapo che è un piacere. Per chi come me ha un’ossessione per Cat Power, Bob Dylan e un certo genere di suoni, è facile parlare. Ma anche se siete lontani da questi vecchi mondi, potreste scoprire un disco da cui è difficile staccarsi.