ATTENZIONE AGLI SPOILER
Ora possiamo dire che avevamo avuto il sentore che il finale di Game Of Thrones non avrebbe incontrato tutte le nostre preferenze già agli inizi di quest’ultima stagione. Confidavamo piuttosto nella narrazione, abbastanza coerente e coinvolgente, che fosse capace di accompagnarci per mano nell’accettare qualsiasi soluzione o escamotage possibili. In fondo nel corso di questi anni eravamo già riusciti ad accettare draghi, resurrezioni, estranei, re della notte, corvi a tre occhi (sic) e quel po’ di atmosfere da soap opera messe lì tanto per accontentare ogni tipo di fan della serie. Andavamo avanti perché quel piccolo mondo era a suo modo visionario, e la lotta per il potere incarnata nel trono di spade risultava intrigante, s’incontravano dialoghi brillanti e personaggi trasversali, intrighi dai toni shakespeariani, strategie politiche e casate in guerra che solleticavano un’umana curiosità (e parallelismi con i giorni presenti). Invece tutto sembra essere andato perduto sotto una coltre di Dracarys.
Anche se nessuno avrebbe davvero desiderato il lieto fine à la walt-disney (incarnato nella coppia Jon e Dan al trono insieme, o un loro erede), l’ultima stagione di Game Of Thrones sembra aver spinto troppo nei suoi effetti speciali hollywoodiani – talvolta così insistenti da togliere spazio a scene più intriganti e che probabilmente avrebbero donato uno spessore narrativo maggiore alla stagione, una verticalità alla storia. Certo, siamo impressionati dal grande lavoro messo in piedi dalla troupe e dal gruppo di persone che hanno lavorato alla realizzazione di questi episodi: hanno ricostruito King’s Landing daccapo sul modello di una città croata, hanno lavorato come veri e propri artigiani dietro le quinte e alla post-produzione; ma siamo così sicuri che togliere un po’ di spazio alle scene di follia dracaryana o a qualche altro effetto sparigliato, per dare un attimo di respiro e peso ad altri momenti (come il cosa si sono detti – per esempio – Sansa e Tyrion quando lei gli rivela la vera identità di Jon Snow) non avrebbe solleticato di più l’intrigo di una serie che in fondo ha sempre giocato anche con quello? Tutto lo spazio riservato al non detto e al sottinteso lascia invece infiniti fraintendimenti alla narrazione. Siamo persino autorizzati a pensare che quel finale sia tutto un intrigo, un complotto messo in piedi da Sansa Stark (in stile Littlefinger) per raggiungere l’indipendenza del Nord e liberarsi in un sol colpo di Jon e Daenerys? Chi lo sa. Nessuno ce lo ha voluto dire.
Forse avremmo dovuto fidarci più semplicemente di Emilia Clarke quando qualche tempo fa alla domanda dei giornalisti sull’ultimo capitolo di Game Of Thrones d’istinto è scoppiata a ridere. Del resto il destino riservato al suo personaggio è forse il più tragico, e l’attrice non ha fatto mistero di aver reagito alla lettura del finale con quel po’ di sorpresa che l’ha portata a passeggiare erraticamente per Londra in un girovagare di riflessioni, e chi non avrebbe fatto la stessa cosa. Daenerys Targaryen, Nata dalla tempesta, la prima del suo nome, regina degli Andali, dei Rhoynar e dei Primi Uomini, signora dei Sette Regni, protettrice del Regno, principessa di Roccia del Drago, khaleesi del Grande Mare d’Erba, la Non-bruciata, Madre dei Draghi, regina di Meereen, Distruttrice di catene, uccisa per mano dell’amato nipote Jon Snow, aka Aegon Targaryen. Nel corso della nostra vita a tutti noi sarà capitato di ritrovarsi ad avere momenti inspiegabili alla Jon Snow, ci è capitato di fare alcune cose che non sono del tutto chiare, che non capiamo totalmente ma ci assecondiamo comunque a fare (tutto questo ammasso di animati sentimenti contrastanti è stato ridefinito dal serial anche come “duty”). Per tutto il corso dell’ottava e ultima stagione Jon Snow continua a fare cose, e anche volendo ammettere che siamo davanti all’incarnarzione perfetta dell’i-know-nothing, è difficile comprendere come uno spirito dalla natura socratica si abbandoni a un regicidio e un conseguente esilio al Nord (pagando il prezzo tutto da solo) dopo un accorato appello a condividere uno scomodo trono da parte della donna che dice di amare (la stessa donna che si è appena macchiata di una strage di innocenti, okay). Ammenoché: a) versione ufficiale: il vero autore dietro tutto, George R. R. Martin, non abbia dato istruzioni precise agli sceneggiatori su come dove andare quel finale, ma loro non abbiano avuto granché tempo per svilupparlo per bene e con una certa profondità, e se la sono cavata con un appendice e una breve scena (ampio spazio verrà dato alla rivalsa del drago che incendia il trono, ma neanche un frammento per gli attimi immediatamente successivi, quando presumibilmente Jon viene arrestato piuttosto che ucciso, e chiuso in prigione); b) Jon non sia stato semplicemente usato come un burattino da Tyrion in combutta con Sansa (ipotesi forse più affascinante ma che sta solo al nostro intimo sforzo e tentativo di ricomposizione della trama e divagazione).
Del resto avevamo sospettato che Daenerys Stormborn non avrebbe concluso la sua epopea e scalata al trono con la vittoria già dagli indizi sparigliati a inizio di stagione, probabilmente solo perché siamo ancora capaci di riconoscere certe indicazioni di sceneggiatura che non per un vero e proprio percorso del personaggio. Chi ci rivela più palesemente le intenzioni degli sceneggiatori è Sansa Stark, che in preda a una speciale rivelazione divina ci invita a diffidare per tutta la stagione di Daenerys, persino nei momenti in cui non ne avrebbe alcuna ragione (ovvero quando impiega tutte le armi a sua disposizione per salvare Grande Inverno e l’intero regno), preannunciando di fatto il passaggio verso il lato oscuro della Mad Queen. In realtà tutta l’ottava stagione sembra uno spinto e animato sforzo nel riconfigurare il personaggio di Daenerys, anche senza scendere troppo nei particolari (– ha già sterminato, però), quasi che a tratti pare siano gli stessi sceneggiatori a usare una certa benevolenza nei suoi confronti, con il risultato che però non sia del tutto chiaro in che frazione di secondo e perché la Regina dei Draghi decida di dare alle fiamme un’intera città con i suoi innocenti anche dopo aver già vinto la guerra e conquistato di fatto l’agognato trono. Che poi quel trono finisca distrutto resta probabilmente l’immagine della migliore metafora di una corsa al potere che rende accecati e che doveva essere nelle intenzioni di Martin: così il gioco del trono finisce con la distruzione di quel trono. La successiva elezione di Bran Stark come re non è una vera e propria consacrazione ma una reggenza; e intanto al Nord si va verso la tradizione di una nuova incoronazione, tra istinti da Brexit e revanscismi.
Finale dolceamaro come ci avevano premesso a inizio stagione? Per i Targaryen dobbiamo supporre che la loro storia sia di fatto estinta con quest’ultimo capitolo, con la morte di Daenerys, l’esilio di Jon Snow e il suo voto a non fare figli (resta un drago a svolazzare in compagnia di un corpo – presumibilmente morto – in giro per i cieli del continente, e chi lo sa). Per gli Stark tutto sembra più dolce che amaro: un Re dei Sei Regni, un Nord indipendente e una nuova corona, un’Arya Stark che dopo aver ucciso il Re della Notte si conferma la più saggia di famiglia e decide di avventurarsi altrove stando alla larga da tutti. Per i Lannister è davvero tutto dolceamaro. L’unico personaggio che è riuscito a mantenere il trono di spade accanto a sé o per sé per tutte le otto stagioni è Cersei: la fatalità del suo destino era però chiara sin dall’inizio, trattandosi dell’antagonista principale non è una sorpresa averla vista soccombere e morire come in tutte le storie di antagonismi, dove il ruolo del cattivo dichiarato porta segnata con sé la sua tragica fine. Sarebbe stato ingiusto non regalarle almeno la fedeltà finale di Jamie Lannister nel momento dell’addio, anzi sembra che addirittura Tyrion torni a ripensare con vaga nostalgia alla sua famiglia nella parabola finale della vicenda. E in realtà l’intero arco di Game Of Thrones è legato a doppio filo a una storia di famiglie e casate che acquistano e perdono potere a turno, si combattono, si tradiscono, si amano e si detestano; anche se ogni intrigo sembra necessario per la scalata al singolare dei personaggi, una scalata che spesso prescinde anche dall’appartenenza famigliare o dalle alleanze. È l’effetto di un’ambientazione dove è molto facile morire (più facile che ai giorni nostri, eccetto per chi risorge) e non vale la pena di affezionarsi, meglio contare su una sana dose di calcolo e razionalità per sopravvivere (es: se Margaery Tyrell si è messa in testa di diventare regina non ci mette molto a passare dalla lotta contro i Lannister a sposarne uno; tutte cose che Sansa imparerà in queste stagioni per arrivare alla sua Nordexit personale).
Nel finale di Got siamo tentati di vedere la vittoria della lunga parabola degli Stark, del resto se tutto era cominciato a Grande Inverno non poteva che finire lì in modo circolare, con i buoni a fare i buoni nonostante tutto l’eventualmente marcio di mezzo. In realtà il trono dei Targaryen è andato distrutto, segnando la fine di una lunga dinastia di sangue e fiamme, dove Jon Snow è ritornato tra i vivi solo per mettere fine al trono e a una lunga marcia al potere che non risparmia la “sua Regina” (- sì, le battute affidate a Jon Snow erano ingiustamente povere in questa serie; così come la sorte di Cersei in eterna attesa di morire alla finestra).
Game of Thrones non ha mai avuto la pretesa di essere qualcosa di diverso da quello che è, ovvero un prodotto di intrattenimento di massa ben congegnato per essere seriale. Quando ci congediamo da una serie, o più in generale da una storia, siamo abituati a fare i conti anche con il finale (non sempre è necessario), e al fondo resta un po’ di amarezza: non per l’epilogo in sé (ogni epilogo è comunque un epilogo), ma per quella sensazione amara che sia stato messo tutto in accelerazione verso il finale, che sia stato usato il tasto con cui si mandano avanti i secondi (per essere più tecnici si potrebbe usare il verbo “arronzare”). In fondo ogni epopea merita un finale che riesca nel tentativo di dare un senso o un significato. Se non tutti gli spettatori sono riusciti a penetrare in quel sostrato di senso forse si tratta di un’occasione persa, e dopo aver atteso due anni per l’ultima stagione ci sarebbe stata bene un po’ più di cura alla trama piuttosto che alla regia delle grandi battaglie. Resterà comunque l’epica della battaglia contro gli Estranei, che si è consacrata quasi come un vero e proprio pre-finale di tutte le puntate della serie. È probabile che proprio renderla così epica non abbia fatto granché bene al resto degli episodi, dopo il salto di Arya Stark che dal nulla trafigge il Re della Notte (e la sua armata) era difficile non avvertire la tensione che portava a credere che tutto fosse un po’ già finito. Un inizio di commiato che poi ha accelerato il suo ritmo fino all’ultima puntata, dove la grande conquistatrice si è arresa sotto il contraccolpo di un banale crollo di nervi. O forse qualcos’altro, chi lo sa. In fondo il cuore del messaggio è qui: I Know Nothing.