Chi ha amato la musica dei National poteva sospettare che prima o poi il gruppo americano sarebbe arrivato a una fase di affaticamento di certe possibilità creative. Il tormentato e scuro indie rock di inizio carriera negli anni si è fatto più ammiccante, e il suono così distintivo e contaminante dei loro album portava con sé il rischio di mutazione in caricatura. Ciò nonostante, negli anni dieci i National sono stati bravi a tenersi alla larga dalla tentazione di abusare del proprio suono, non si sono spinti all’eccesso, a superare il confine del compromesso tra inquieto alternative rock, sofisticato cantautorato, cupe ballate e ricerca di nuovi territori espansivi. Sleep Well Beast è stato radicale: malinconicamente apocalittico e sperimentale. I’m Easy To Find ha provato invece la via confessionale con il supporto di voci e collaborazioni raffinate. Anche quando non mettevano d’accordo tutti – e non lo facevano mai – i National hanno mantenuto la capacità di non appiattirsi e restare aperti alle intemperie.
Quest’anno, con l’uscita di due album a distanza di pochi mesi, i National potrebbero essere incappati in un criptico loop. First Two Pages of Frankenstein è venuto fuori la scorsa primavera, Laugh Track è una sorta di estensione, e si presenta – sin dalla copertina – come il controcanto a colori di Frankenstein: una collezione di canzoni che in un primo momento erano state scartate. Berninger e compagni si sono trovati davanti al dilemma della ripetizione, ma tra un disco e l’altro hanno lasciato passare un tempo minimo rischiando l’eccesso e peccando di una sovrabbondanza di materiale. È difficile mantenere l’ispirazione con tante canzoni. Persino la scrittura di Matt Berninger, che conserva negli anni la sua splendida voce, sembra avere perduto un po’ della sua naturale ispirazione.
Berninger è uno dei più originali e annoiati cantori di disagio del ventunesimo, stavolta si era aggrappato all’evocazione romantica di Mary Shelley e del suo capolavoro, ma là dove la scrittrice inglese è stata visionaria e imprevedibile, Berninger appare meno indomito e un po’ stanco. Il suono-Dessner, che abbiamo imparato a riconoscere come una contaminazione in tanti progetti musicali degli ultimi anni, è più deciso e pieno: sovrasta il caos e rende appannati i beat. Anche le numerose collaborazioni, da Phoebe Bridgers a Bon Iver, non aggiungono cambi di parabola.
I National sono dei fuoriclasse. In un modo o nell’altro ai loro dischi si torna sempre. I loro concerti sono selvaggi rituali purificatori, con un Berninger in versione animale grezzo e ubriaco. Da loro ci si aspetta di più di un rifugio sotto la calda coperta di Linus, qualcosa di più di una rassicurazione. Canti assoluti, azzardi, melodie nuove da imparare a canticchiare. Una Smoke Detector che dura in eterno e si replica di possibilità e aperture. Forse, lasciando invecchiare un attimo di più i pezzi di Laugh Track in cantina, o durante i live, avremmo goduto di più del loro respiro.
Non è abbastanza per parlare di canto del cigno di uno dei gruppi più generosi e fatali degli ultimi due decenni: varcata una certa soglia d’ascolto, il suono National tende a diventare ripetizione, e questo può essere un vantaggio o un’insidia. Quando sono stati folli, azzardati, sperimentali, quando hanno dato valore al silenzio e non hanno avuto paura della reazione del pubblico, quando sono stati sinceramente tormentati e spericolati nel fuggire via dal recinto, i National hanno dimostrato di sapere come si fa a non essere ripetitivi. First Two Pages of Frankenstein e Laugh Track non sono assolutamente cattivi album, ma in certi momenti toccano quella corda della ripetizione che rende faticoso l’ascolto.