Sanguigna è il romanzo di esordio della scrittrice e drammaturga ecuadoriana Gabriela Ponce. Pubblicato da Cencellada Edizioni con la traduzione di Sara Papini, Sanguigna racconta la crisi di una donna appena separata, le sue avventure, le sue esperienze emozionali ed erotiche. Il corpo è il centro della narrazione. La scrittura sanguina e si fa selvaggia e visionaria. Romanzo molto apprezzato in patria, elogiato dalla conterranea Mónica Ojeda, leggere Gabriela Ponce è un’esperienza sensoriale. Bisogna leggere Sanguigna gettandosi sulle parole con tutto il corpo.
Oggi esploriamo le terre ecuadoriane, e penetriamo nella storia e nella scrittura di Gabriela Ponce. Qui sotto trovate un breve estratto di Sanguigna.
Arrivammo alla riva e mi spogliai, coprendomi il petto con le mani e piangendo per qualcosa di talmente grave da riuscire a malapena a essere pensato, qualcosa di talmente grave da diventare neutro, non era né immobile né in movimento ed era sempre esistito. Questo dolore mi precede, pensai. E quel pensiero fu immediatamente seguito da un altro: sono le donne, ma l’immagine del neutro si impose di nuovo. Non era uomo o donna, non ero nemmeno io. Questo dolore è un mostro, pensai. Di nuovo cercai di nominarlo, ma tornò la ripetizione ossessiva. Questo dolore mi precede, di nuovo, come un mantra, questo dolore mi precede, e intanto che cercavo di pensare all’origine di quel male per raggiungere un po’ di calma, apparve l’immagine di un nucleo che si crepava, come una pietruzza quando tocca il centro di un’onda che, proprio in quel momento, si formò nel fiume, e di cui non conoscevo la provenienza. María mi afferrò la mano e mi portò nell’acqua ghiacciata, mi pulì il moccio e le lacrime che sgocciolavano lungo il mio corpo nudo e che uscivano dai buchi, mi inginocchiai reggendomi a una pietra, e le mani di María afferrarono il sapone e cominciarono dalla schiena mentre pronunciava parole che erano come un canto lontano e continuò accarezzandomi le natiche con un pezzo di sapone o con la sua mano, forse era la sua mano con una foglia o forse era soltanto la sua mano con il fango. Proseguì lungo le cosce e si fermò ed entrambe vedemmo il sangue e allora mi sfiorò appena i peli pubici e continuò sul seno, spostando con dolcezza la mia mano toccò i capezzoli e poi il collo, continuò sui capelli, i miei capelli lunghi aggrovigliati alle sue dita, che liberavano foglie in essi intrappolati. Io, piangendo più forte e afferrandomi la vulva, lei, dicendo strane paroline, il sangue come un affluente anch’esso lontano che dipingeva l’acqua, le pietre e le foglie umide. Mi abbracciò e ci immergemmo in acqua, io, toccando i suoi capelli ondulati, lei, stringendomi il fianco, io, sentendo le sue natiche sode, posando le mie braccia sulla sua schiena, facendo ruotare i nostri corpi nell’acqua, mentre il mio sangue si calmava e io con esso, mentre ogni cosa si riuniva lontano dal pensiero. Immenso il cielo. Quello che i corpi fanno insieme quando si toccano, quando le dita scivolano nei buchi e accarezzano lentamente le consistenze pieghettate e fragili, i volumi e le macchie, umettano lentamente le parti più rosse con i polpastrelli bianchi. Il piacere del tatto. L’acqua che entra dai miei buchi insieme a quelle dita per addolcire i miei organi. Quello stesso pomeriggio, dopo una delle terapie collettive del ritiro, tornammo al fiume, questa volta più lontano dal campeggio, dove l’affluente diventava cascata. Tornammo con un francese che era di una bellezza silenziosa concentrata negli occhi. Quando la bellezza è silenziosa, quando non si manifesta, ma anzi passa il tempo a celarsi, la luminosità si intrufola dai bordi e ti getta scintillii leggeri ma fulminanti; a me fa girare la testa e quando accade, mi scatena una risata nervosa.