Letteratura

Il mondo di Fran Lebowitz

È dagli anni ’70 che Fran Lebowitz non cambia una virgola del suo aspetto, dai capelli ai capi che indossa, dettaglio che le garantisce una riconoscibilità talmente singolare da fare quasi paura. A cercarla su Google, del resto, le sue foto sembrano solo diverse angolazioni della stessa immagine; cambia l’età, certo, ma Fran è Fran: capello nero e vaporoso a trapezio, occhiali da vista tartarugati negli ultimi anni, giacca di sartoria britannica (Anderson & Shepard per la precisione, come racconta lei stessa in un articolo per il Financial Times), camicia bianca, jeans Levi’s 501 e stivali da cowboy.

La gente a volte mi dice “Indossi la stessa cosa dal 1972”, ma in realtà no, è solo un’altra giacca blu scuro. Anche se in effetti indosso lo stesso paio di jeans.

E non ci sarebbe proprio nulla da eccepire se vogliamo essere fiscali: le giacche sono effettivamente capi differenti. Ma come se non fosse abbastanza, non è questo stile inconfondibile e ripetitivo a caratterizzarla, ma la sua essenza, racchiusa in una parlantina veloce e in un mare infinito di opinioni.

Fran Lebowitz è una icona di New York, cosa già di per sé straordinaria, praticamente inscindibile dalla città in cui ha scelto di vivere nel lontano 1970, partendo da Morristown, New Jersey. Ha diciannove anni, abbandona la famiglia e si adatta così velocemente alla Grande Mela e al suo spirito rivoluzionario di allora, che dalla pulizia di appartamenti, poi vendita di cinture e, ancora, tassista, si ritrova a scrivere per Interview di Andy Warhol. Nel magazine Lebowitz, poco più che ventenne, scrive una colonna di approfondimento culturale, I cover the Waterfront, con una ironia e una capacità di guardare il mondo tale che a ventisette anni sarà già autrice di un primo saggio, Metropolitan Life (1978), che raccoglie proprio questi suoi primi lavori. Nel 1981 arriverà Social Studies e poi, tecnicamente, potremmo dire che basta, la carriera di Fran Lebowitz come scrittrice finisce qui, a parte un contratto firmato per un romanzo, Exterior signs of wealth, che però non ha mai concluso, ma che ha venduto come la storia di “ricchi che vogliono diventare artisti e artisti che vogliono diventare ricchi“. Insomma, sulla carta funziona, però Lebowitz ha il blocco dello scrittore dal 1994 circa, forse anche di più; nei suoi incontri pubblici dice che è talmente lenta a scrivere che potrebbe usare il suo stesso sangue come inchiostro e non farsi male. Il suo blocco dello scrittore, writer’s blockade come lo chiama lei stessa, non le impedisce, però, di essere Fran Lebowitz: inconfondibile, intelligente, immortale. In Italia diventa una figura riconoscibile grazie a Pretend it’s a city, miniserie in sette puntate girata dall’amico Martin Scorsese che a lei aveva già dedicato Public Speaking nel 2010, un documentario HBO. In entrambe Scorsese lascia che a parlare sia lei, Fran, facendola camminare per le strade di New York, il suo habitat naturale, e lasciando che tocchi tutto lo scibile umano nelle sue conversazioni, perché, sia chiaro, lei ha una opinione su tutto e questa opinione non piacerà. In apertura di Public Speaking, per esempio, Lebowitz dice:

Mi piace parlare in pubblico, è ciò che ho sempre voluto nella vita: gente che chiede la mia opinione. […] e in questa situazione alla gente non è consentito interrompere, non è una conversazione. Ecco quello che mi piace.

E al suo pubblico, completamente trasversale per età e background, piace sentirla conversare su tutto e alla fine di ogni evento ha uno spazio per le domande e la interroga come fosse un oracolo, dalla politica al femminismo, passando per i libri e la letteratura. Nei documentari di Scorsese, Lebowitz cammina come un folletto elegante per la città, parla, scherza, prende in giro, incontra gente, conversa al tavolo di un pub e, tra una frase e l’altra, insegna la vita così come l’ha intesa lei in tutti questi anni nella scena culturale statunitense più attiva degli ultimi quarant’anni.

 

Dopo il successo di Pretend it’s a city, Lebowitz è arrivata finalmente anche nelle librerie italiane, per la prima volta, con un volume Bompiani, “La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire” a cura di Giulio D’Antona. Il volume raccoglie una serie variegata di scritti di Lebowitz, dal 1974 al 1994 circa, e a chiudere una intervista di D’Antona del 2021 in cui, è palese, si capisce che l’autrice non cambia mai, nemmeno la pandemia sembra fiaccare il suo spirito d’osservazione e la capacità assoluta di analizzare la società americana senza esitazioni e con la stessa arguzia di sempre. Lebowitz è spietata come New York. Di lei Toni Morrison, scrittrice e Nobel per la letteratura nel 1993, su grande amica, dice:

“Sembra che tu abbia quasi sempre ragione, ma anche che tu non sia mai imparziale” […]. “È vero,” ha risposto lei. “Ho sempre ragione perché non sono mai imparziale.

Lebowitz nasce con New York e con la città evolve, burbera e diretta, restia ai cambiamenti, soprattutto quelli tecnologici (non possiede un computer né un telefono cellulare, figurarsi un tablet, ma ci tiene anche a specificare che nemmeno il microonde è ben accetto in casa sua), bloccata per quanto riguarda la scrittura, ma, come scrive D’Antona:

Da quando ha smesso di scrivere, Lebowitz ha parlato: soprattutto alle folle, ma anche a chiunque altro le chiedesse un’opinione. Sa rispondere praticamente a qualsiasi domanda.

Non è certo roba da poco.
Il libro Bompiani è un’opera omnia sui generis perché sui generis è la sua autrice: lambisce l’essenza di Lebowitz e la traduce per un pubblico italiano che sta imparando a conoscerla ora. Si comincia con la descrizione della giornata tipo dell’autrice, un capolavoro di caos ed eccentricità in cui lettrici e lettori fortunati potrebbero anche riconoscersi, per poi trattare sport moderni come il “New York Decathlon”, opinioni non richieste, ma per questo necessarie, sui cani di New York, sui bambini, che Lebowitz sorprendentemente ama, ma non per la ragione che si potrebbe ipotizzare. Si prosegue in un crescendo di comicità e incredulità. “Ha davvero scritto questo?” si arriva a pensare più di una volta durante la lettura, e la risposta è ogni volta sì, l’ha scritto davvero e fa molto ridere. Ma se gli articoli di Lebowitz sono vere e proprie finestre sul passato di un momento culturale e socioeconomico che non c’è più, l’irripetibile New York degli anni ’70 e ’80, è l’intervista finale e l’analisi di D’Antona a essere il contributo più prezioso, quello in cui emerge una Lebowitz sempre lucida, si diceva, ma anche fragile, costretta dalla pandemia ad acquistare i libri su Amazon tramite l’account di un caro amico.

E non fa niente se nei suoi scritti, negli incontri pubblici (da poco ritornati live) e in ogni intervista che ha rilasciato negli ultimi trent’anni ha burberamente ricordato che non è necessario che tutte le persone seguano la propria vocazione artistica, mettendo molte persone davanti a una realtà cocente e difficile da digerire, a Fran Lebowitz comunque si dà ascolto, in qualche modo.

Il vero talento artistico è una dote che hanno in pochissimi. Di conseguenza, sforzarsi peggiorando la situazione è tanto disdicevole quando inutile. Se sentite l’urgenza cocente di scrivere o dipingere, limitatevi semplicemente a mangiare qualcosa di dolce: vedrete che la sensazione svanirà. La storia della vostra vita non è materiale per un buon libro. Non ci provate nemmeno.

Ok Fran, faremo come ci suggerisci tu. Ma non c’è da stupirsi, del resto lei non è tenera nemmeno con la sua di scrittura, definendola un “ergastolo”, una “attività molesta”, tanto che poi lei stessa l’ha abbandonata. Ma Lebowitz di scrittura ne sa, conosce i libri e li venera, così come ha conosciuto e venerato icone del suo tempo, da James Baldwin a Dorothy Parker, passando per l’umorista James Thurber e l’amicizia con l’amatissima Toni Morrison, scomparsa nel 2019. Per una Fran Lebowitz experience immersiva e totale manca solo l’ultimo tassello, quello della tv, che ha navigato con grande soddisfazione e gusto.

Mi piaceva molto essere in tv perché mi faceva sentire più americana […] essere in tv era la cosa più americana che potessi fare.

dice di sé, ed è proprio in virtù di questa frase detta durante una intervista pubblica alla Sidney Opera House, prima della pandemia, che si spiegano i quasi vent’anni di ospitate dall’amico David Letterman nel suo Late show, ma anche le apparizioni come giudice nella serie tv Law & Order tra il 2001 e il 2007. Non c’è cosa più da Fran Lebowitz di questa.

Ma chi è, allora, Fran Lebowitz? Perché dovremmo tenere conto delle sue centinaia di migliaia di opinioni? Lo spiega, in parte, il saggio Bompiani: un trattato filosofico del Lebowitz pensiero proveniente direttamente da un altro pianeta e un’altra epoca. Ma qui sta la grandezza di Fran: scrivere, quarant’anni fa, di una contemporaneità, mai di un futuro, eppure dimostrarsi lungimirante anche nel nostro presente.

[…] ahimè, non governo sul mondo intero e questa, temo, è la storia della mia vita: sempre madrina, mai Dio.