Secondo appuntamento con lo spazio indiependente di racconti inediti, vestiamo ancora i panni di Shahrazād e vi sussurriamo storie per la sera come a un sultano a caccia di favole. Stavolta è il turno di Paolo Bergamaschi con il racconto Amnesia. Buona lettura.
Per inviare una proposta di racconto puoi scriverci a lindieracconti@gmail.com
Amnesia
Era un pomeriggio qualsiasi, gettato annoiato sul divano. Il telefono in una mano e la sigaretta spenta nell’altra. La cenere forse per terra, forse sul lenzuolo.
Scopro con mia sorpresa che la sinestesia è una malattia, ed esiste quindi veramente, patologicamente: ci sono persone che affermano effettivamente di vedere dei colori, delle fantasie iridate, quando sentono alcuni suoni; il terzino destro di una squadra di prima divisione inglese, oltre ad aver ricevuto il dono di un fisico atletico quasi fatto apposta per arare avanti e indietro la fascia, assieme al suo staff tecnico, ha avuto la brillante idea di ungersi il corpo con olio per bambini per essere letteralmente inafferrabile dagli avversari: non è troppo distante da quei guerrieri che prima di combattere si oliavano, certo era un rituale sacro, ma doveva sicuramente avere un tornaconto terreno in combattimento; due righe striminzite mi spiegano che nel Corno d’Africa è scoppiata un’ennesima guerra civile; domani alle ore 19:30 si svolgerà online un seminario- un webinar- sul femminismo militante, mentre un mio amico ha condiviso un simpaticissimo video delle sue vacanze.
Intanto il mio coinquilino è entrato nella stanza e mi mostra un meme sul suo telefono. Io rido e dopo un breve commento torno a ridere ancora più forte quando vedo salire sul mio schermo lo stesso meme. Evidentemente seguiamo le stesse pagine. Ormai non leggo più, il dito automaticamente continua a fare i grattini allo schermo, lo stuzzica. Al mio dito piace questo movimento: dal basso schiaccia e trascina verso l’alto, rilascia scende e ricomincia. È bello, è ripetitivo, deve piacergli da sempre, da sempre i pollici hanno la tendenza a rigirarsi da soli. Sembra un massaggio, una dolcezza da fare al gatto sotto al muso, e il telefono risponde, fa le fusa: a volte vibra. Mostra sempre immagini nuove, allo stimolo del dito corrisponde, da parte del telefono, la fuoriuscita continua di immagini, parole, video, dati. Come una slot machine. Come una sega infinita.
In più il mio telefono mi conosce, sa quali prodotti consigliarmi. A volte, addirittura, mi fa pensare a ciò che mi serve, mi instilla delle idee, dei bisogni. Non è un rapporto univoco, certo è la mia macchina, un mio strumento, ma io penso che il nostro rapporto sia molto più simile a quello di un re con i suoi ministri. Io sono il re, ovviamente, e mi servo di lui come desidero, e lui non sembra mai opporsi, eppure non posso non pensare che un giorno per invidia o brama di potere voglia prendere il mio posto facendomi fuori. Dagli amici mi guardi dio che dallo smartphone mi guardo io.
Per l’appunto, ecco che mi imbatto in una cosiddetta sponsorizzazione, cioè una pubblicità ad hoc- ad me– è una reclame di un ortodonzista per una sbiancatura dentale: ora che ci penso in questi giorni con gli amici ho parlato di dentisti e di denti bianchi. Visto? Meglio di una moglie, di una madre, di un analista il mio telefono ascolta, anche quando sta lì in disparte in silenzio, sembra ignorato e che ignori a sua volta, in realtà ascolta il suo re, per essere sempre pronto a servirlo. È un costante lavorio fatto di connessioni, input e output, cristalli e sfruttamento minorile, tutto rivolto alla mia cura. Chissà che team di tecnici deve esserci dietro per offrirmi un servizio del genere, e praticamente gratis.
Addirittura mi vengono offerte una serie di persone che potrei conoscere. Vediamo chi sono i concorrenti di oggi: ogni tanto incontro persone che conosco davvero nell’altra vita, quella al di qua. Il primo non ho idea di chi sia, abbiamo solo due amici in comune…il secondo ha un aspetto familiare. Certo la foto la riconosco: è mia! Non nel senso che io ho scattato quella foto, a volte succede, specialmente coi profili dei miei già-amici, ma non in questo caso. Qui sono Io nella foto, sì, è scattata a Parigi, quello è il mio cappotto, ce l’ho ancora. Sarei tentato di speculare su questa fantomatica apparizione, magari qualcuno ha usato le mie foto per creare un fake, però non avrebbe senso: anche il nome combacia, già, nome e cognome sono gli stessi riportati dai miei documenti: peccato mi avrebbe dato un piccolo piacere narcisistico, ne sarei stato lusingato, non mi è mai successa una cosa del genere, ad alcune persone che conosco sì; forse qualcuno mi ha fatto uno scherzo…
E invece sapevo benissimo perché mi ero imbattuto in me stesso online.
Qualche tempo fa accedendo a una nota piattaforma per la riproduzione musicale (anche lì sempre ben accolto con la musica che piace a me e con quella che potrebbe piacermi) mi sono accorto di aver dimenticato la password. Non sono solito ricordarmi le password, né tantomeno sono solito segnarmele da qualche parte, so che alcuni usano delle agendine, ma che differenza c’è? Perché dovrei usare gli antenati dei miei ministri all’avanguardia? d’altronde ormai i dispositivi le salvano di default nelle loro memorie digitali, esiste una specifica funzione per questo, basta solamente attivarla. Di solito quando devo accedere a uno dei miei account è il mio ministro stesso che inserisce la chiave d’accesso per me. Purtroppo, però, quella volta c’era appena stato un cambio di formazione al governo: avevo cambiato computer ed evidentemente il nuovo arrivato, ancora poco pratico nonostante le indicazioni e i dati lasciatigli con tanta professionalità dal suo predecessore, non era stato in grado di farmi accedere alle mie stanze. Questi dispositivi, questi programmi devono parlare tra di loro, o quantomeno comunicare, perché da quando quella volta sono stato respinto da uno dei miei strumenti in quanto non sono stato in grado di farmi riconoscere, anche gli altri hanno deciso di tenermi fuori. È stata una reazione a catena, evidentemente perdendo la password chiave il mio telefono, o meglio il mio entourage tecnologico ha deciso bene di cambiare la serratura a tutte le entrate. Ed io sono rimasto fuori casa come un marito fedifrago.
Così dopo essermi rassegnato al fatto che il mio telefono non mi avrebbe riconosciuto nemmeno se avessi inquadrato con la fotocamera le mie cicatrici d’infanzia, feci la scelta si tagliare il nodo e di crearmi un nuovo account, e sbloccarmi nuovamente l’accesso all’altro mondo.
Per questo, dunque, lo sconvolgimento si fermò alla superficie senza andare in profondità quando mi trovai davanti a quel profilo consigliato. Inoltrai la mia richiesta di amicizia a me stesso. Questa cosa mi provocò una leggera risata, maliziosa, quasi isterica. Poi tornare a scrollare placidamente.
Più tardi la sera tornai a pensare a quell’incontro. Mi aveva sorpreso, non posso negarlo, ma di una sorpresa tra il sarcastico e l’inquieto, di quelle che si associano al ritorno del rimosso. Eh sì. Io sapevo bene di aver creato un secondo profilo, eppure spesso me lo scordavo. Lo rimuovevo, appunto. Bisogna dire che in realtà i nostri dispositivi digitali hanno questa tendenza a mostrarci il nostro rimosso. Ricordo un amico che era quasi scoppiato in lacrime quando il suo ministro gli aveva forzatamente, e violentemente direi io, mostrato, senza chiedere il permesso e senza alcun preavviso, una foto-ricordo di lui al mare con il suo ragazzo di allora.
Come se ci rimettessero alla nostra coscienza: è tutto segnato, registrato, in forma di dati. Forse le nostre stesse coscienze sono fatte come questi enormi archivi di dati, forse meno precise, meno puntuali, forse ordinate secondo un algoritmo diverso registrano tutto ciò che ci passa sotto i sensi e ciò che viene elaborato dal pensiero per poi impilarlo in qualche remoto scaffale della memoria, da cui forse un giorno rivedrà la luce, o in cui invece abbraccerà l’oblio.
Mi addormentai pensando al fatto che un orologio rotto, perlomeno, segna l’ora giusta due volte al giorno, e uno smartphone rotto?
Poco dopo che chiusi gli occhi, o quantomeno a me sembrò che fosse passato poco tempo, il mio telefono vibro rapidamente e s’illuminò. Cercai di ignorare il disturbo posticipando all’indomani il colloquio col mio segretario, ma questo tornò a dimenarsi ed io cedetti. Una notifica campeggiava sullo schermo: la mia richiesta di amicizia era stata accettata. Senza pensarci due volte mandai subito un messaggio a quell’altro me stesso con cui non avevo contatti da ormai mesi. Nell’attesa, brevissima, che intercorse tra il mio messaggio e la sua risposta, aprii la sua immagine del profilo, avvicinai il volto allo schermo per guardarmi meglio fino quasi a toccarlo col naso, e realizzai quanto fossi elettrizzato all’idea dell’incontro, per quanto virtuale.
Mi rivolsi a lui con cortesia, in primo luogo ringraziai per avermi accettato come amico, e gli dissi quanto mi facesse piacere poter scambiare quattro chiacchiere con lui. Ero preoccupato che il tempo trascorso separati potesse aver creato un solco tra noi insuperabile, ma lui prontamente mi rincuorò del fatto che, sì, forse ci eravamo allontanati ma non abbastanza perché il filo che ci teneva uniti si rompesse. Mi scrisse che stava, tutto sommato bene, anche io, gli risposi, stavo tutto sommato bene. Entrambi eravamo molto occupati dai nostri lavori, ma riuscivamo comunque a ritagliarci il tempo per altre occupazioni, più oziose. Si congratulò con me quando seppe che avevo iniziato a prendere lezioni di recitazione, e aggiunse che da uno come me se lo aspettava, era solo questione di tempo. Rispolverammo vecchi ricordi di vacanze al mare e di infiniti pranzi in famiglia, poi la conversazione continuò scherzando sulla situazione politica attuale, sul calcio e, ovviamente, si virò sul caldo tema delle ragazze. Mi sentivo contento, nel mio letto, attaccato al telefono, e attaccato al filo di un’amicizia, se così posso chiamarla, che si stava, nottetempo, ritessendo. Ebbi come la sensazione di avere una borsa dell’acqua calda all’altezza del basso ventre da cui irradiava tutta una miscela di calore, tranquillità, e benessere. Poi non ricordo.
Il mattino aprii gli occhi al suono della sveglia, ed automaticamente lanciai il braccio alla, vana, ricerca di quietare il buongiorno del ministro. Il telefono però non era a portata di mano, e continuò a cantare fino a che non fui costretto ad alzarmi dal letto per raggiungerlo e metterlo a dormire, dandoci il cambio. Non appena misi piede fuori dalle coperte fui aggredito dal gelo mattutino, il contatto tra il freddo del pavimento e la pianta del piede, decisamente, mi riportò nel mondo della veglia.
Mi sedetti, abitudinariamente, sul cesso e mi affacciai sul mondo per mezzo del mio fedele ministro. Niente di nuovo, o di particolarmente fuori posto, se non il fatto che il numero dei miei amici era lo stesso del giorno prima. Sollevai un sopracciglio, ed aprii le chat: tutta la conversazione con l’altro me non c’era! Dovevo averla eliminata durante la notte, e aver revocato l’amicizia, ma era possibile? Non era molto più plausibile che fosse stato un sogno? D’altra parte, ripensandoci lucidamente, mai avrei potuto essere accettato da quel profilo, mai avrei potuto accettare la mia richiesta di amicizia, né tanto meno, e questo forse è ancora più allucinatorio, avrei potuto chattare con me stesso. Mai più, pensai, avrei potuto accedere a quel profilo: l’unica chiave di accesso era stata perduta. Metri cubi e metri cubi di dati, centinaia e centinaia di contatti, chat, foto, ricordi, informazioni utili e fuorvianti, post, canzoni, idee ed opinioni, mie, tutte mie, mi erano per sempre precluse. E non solo a me, il mio pensiero andò a tutti coloro che non avevano saputo del cambio di profilo, chissà quanti hanno scritto a quel me irrecuperabile, chissà chi si sarà sentito offeso dal silenzio, chi invece si sarà preoccupato. Chissà chi vedrà per la prima, e magari unica volta, quel profilo, sicuramente si farà un’idea di me che non corrisponde alla realtà, un’idea non aggiornata e parziale.
Il giorno prima non avevo riflettuto in questi termini. mi ritrovavo sdoppiato. Fui pervaso da un senso di inquietudine, volevo chiudere quel primo profilo ormai alla deriva, ma mi resi conto che anche questo era impossibile, per farlo avrei dovuto accedervi prima. Per dare inizio all’autodistruzione dovevo essere in pieno controllo del sistema, cioè soddisfare il requisito che se soddisfatto avrebbe reso superflua la decisione iniziale stessa.
Il resto del giorno lo passai girando meccanicamente per casa, come uno di quei robot piatti e circolari che spazzano al posto nostro.