Letteratura

Cantico di noi, drogati | La Sanpa di Fabio Cantelli

«Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subito la tentazione, conosce ben poco la nostra epoca»

Ernst Jünger

Questa non è una storia unica. È una storia dentro a tante altre, che si moltiplica e rigenera, che ha conosciuto tanta polvere e pochissimi altari, la storia di un uomo – e di un ragazzo prima – la cui vita è cambiata innumerevoli volte, attraverso agnizioni continue, pronte a rivelarsi in virtù di una sensibilità e di una ricettività estrema verso il mondo di fuori, le stesse di quelle mimose pudiche che chiudono le proprie foglie al primo sentore di tatto esterno.

La storia di un ragazzino di tredici anni la cui prima metamorfosi avvenne guardando la copertina di un vinile – Aladdin Sane di David Bowie – in camera di sua sorella, un’esperienza che lo sconvolse perché non riusciva a capire se sulla cover di quell’LP ci fosse un uomo o una donna e che dall’incontro con l’androginia di Bowie vide esplodere la scintilla di un desiderio: quello dell’anomalia, del voler sentirsi anomalo.

Quella dello studente milanese del Manzoni che prendeva dieci in Filosofia e che trovò sulla sua strada una sorta di Beatrice infernale, Alida, che passava a prendere un altro ragazzo proprio sotto il liceo, un’adolescente Lauren Bacall che improvvisamente si interessò a lui, fino a una data indimenticabile: il 2 aprile 1980, una villa sul Lago di Lugano, Alida a prendergli la vena, a iniettargli la prima dose, quindi – insieme al fidanzato di lei – tutti e tre su un grande letto – “erano una coppia bisessuale. E questo aumentava in me il loro fascino: Bowie e droga vera” – come raccontato a Marco Missiroli per il Corriere della Sera.

Quella del ragazzo ormai tossicomane – non tossicodipendente, ci torneremo, sarà uno dei punti chiave – che ruba vestiti dalle boutique milanesi e che frequenta gli ambienti più sordidi della Milano da bere ma sempre con un atteggiamento da dandy cosmico tenendo sotto braccio un altro Bowie, quello di Scary Monsters.

Sgombriamo il campo da ogni possibile equivoco. Questo libro racconta sì – verrebbe da dire quasi incidentalmente – la storia di San Patrignano, ma è come se la raccontasse suo malgrado. Scritto durante gli ultimi mesi della permanenza di Cantelli a Sanpa – tra il dicembre del ’94 e l’agosto del ’95 – è a sua volta la ragione del ripudio della comunità nei confronti di Cantelli o, meglio ancora, la presa di coscienza di una frattura tra Cantelli e il fondatore di quella comunità, Vincenzo Muccioli.

Questa è la frontiera di fronte alla quale la droga non ha più effetto, per quanto assurdamente si aumenti la dose. Solo l’effetto tossico rimane. Addormenta, paralizza, annienta, lascia che il demone faccia la sua apparizione senza maschera. Sono questi i crepuscoli in cui Dimitri Karamazov sente suonare le campanelle della slitta. Potrebbero essere anche quelle dell’ambulanza.

Ernst Jünger

Avvicinamenti, droghe ed ebbrezza

Il motivo di quella frattura e di quel ripudio lo racconta lo stesso Cantelli: “Volevo spiegare al mondo che Sanpa non c’entrava nulla con quelle oscene o ridicole caricature […] Presto però mi resi conto che la scrittura mi conduceva là dove si viene a sapere quel che si sa solo dopo averlo scritto, e non è affatto detto che coincida con quello che si credeva di sapere. Ecco, per me quello è il luogo della letteratura, plaga dove ti vengono incontro fantasmi e figure mai viste né immaginate, dove la realtà coincide con quella che a prima vista pare una deformazione o un’allucinazione, mentre è una visione senza mediazioni e filtri della realtà medesima, un’epifania che la parola più che dire evoca, porta in presenza”.

E sono queste righe, affidate a un Proemio, quelle in cui si rivela la natura profondamente letteraria dell’opera.

Nel leggerne avidamente le pagine si resta colpiti – trovandone assoluta conferma – da qualcosa che era apparso cristallino già nelle immagini del documentario Netflix SanPa: Luci e Tenebre di San Patrignano. In quelle ore d’intervista in una stanza d’albergo di Rimini – e qui tra queste pagine – rimane impressa la forza morale, il senso – altissimo – di una ricerca della verità che appartiene – molto prima che a un’indagine e a un’osservazione sul mondo di fuori –  a uno sguardo indagatorio e inflessibile prima di tutto su sé stessi.

Un giovanissimo Fabio Cantelli Anibaldi

Fabio Cantelli Anibaldi ci conduce quasi per mano dentro gli anfratti meno accessibili del suo stesso essere: la sua non è solo la storia di una vita, quanto quella di un’anima, di una testa, di un cuore travolti da una voragine e che faranno di tutto per colmare quel vuoto. In lui le luci e le ombre sono compresenti, gli appartengono sia Myskin che Rogòžin, la follia in cristo del primo e la determinazione parossistica del secondo. A emergere è l’onestà dello sguardo, sulla propria esperienza di vita, sul proprio lungo e tormentato percorso, sulla comunità di San Patrignano e, dunque inevitabilmente, nel giudizio che si rende necessario e irrimandabile sulla figura del suo fondatore o padre padrone, Vincenzo Muccioli. Le riflessioni sulle ragioni alla base della sua vita prima, e della sua guarigione poi, si allargano in maniera profonda, letteraria – a tratti poetica – sulla condizione ontologica della tossicomania e in seconda battuta della sua gemella povera, la tossicodipendenza, per farsi visione capace di far convogliare questa esperienza già così larga e vasta, già così profonda, dentro la crisi dell’Occidente nichilista e consumistico.

Ecco allora che Sanpa – Madre Amorosa e Crudele (Edizioni Giunti) rifugge in maniera totale il pettegolezzo e la morbosità, giudica con fermezza ma non condanna, e si pone pagina dopo pagina quasi come il testo sacro di un mistico, di qualcuno la cui voce sa essere certamente autorevole per il cammino percorso, per le conseguenze – che come stimmate ne segnano il corpo e l’anima – ma anche perché narrato attraverso una voce, un linguaggio, una forma che vuole e sa essere letteraria, poetica, che sa trascendere l’esperienza in una forma di comunicazione che non guarda al saggio bensì alla saggezza.

Ho pagato sempre salatamente questo genere di vocazione, questa diabolica chiamata interiore. Il masochismo, d’altra parte, è un tratto essenziale della psicologia del tossicomane: egli potrebbe scegliere un’altra rotta, e invece non resiste alla tentazione di costeggiare l’isola delle sirene per ascoltarne il canto e subirne l’incanto, salvo che, a differenza di Ulisse, fattosi incatenare all’albero della nave, lui corre dalle sirene con la presunzione di controllare le proprie reazioni e col segreto proposito, segreto agli altri ma anche a se stesso, di godere facendosi male.

Cantelli arriva a San Patrignano il 15 ottobre del 1983 – “timoroso della sua salvezza come della sua morte […] attratto per la stessa ragione che mi spingeva ad allontanarmene: sospettavo che quell’esperienza mi avrebbe modificato per sempre”. Sarà l’inizio di una storia durata appunto dodici anni, contraddistinta da fughe – tante – e altrettante ricadute. In particolare Cantelli che pure era stato iniziato – come abbiamo visto – alla droga direttamente attraverso l’eroina, conosce in quegli anni quella cui guarderà come il più grande demone: la cocaina.  “Se tra l’eroina e l’io c’è continuità – questo ricomincia mentre quella inizia a svanire – il rapporto tra l’io e la cocaina” – scrive Cantelli – “è invece una collisione tra opposti, un rapporto in cui entra in gioco il tutto e il nulla […] un male geniale, capace di mascherarsi da bene sovrano e agire nel frattempo sui centri vitali, tanto da provocarti l’impressione, una volta caduta la maschera, di essere irrimediabilmente perduto, di non poterci fare più nulla. […] Allora è come se il mondo ti ghignasse attorno, come se ogni cosa si prendesse gioco della tua impotenza: una notte arrivai persino a chiamare la polizia per difendermi da immaginari aggressori, che sbirciai terrorizzato per ore dalla finestra, la schiena schiacciata contro il muro”.

Un intenso ritratto di Vincenzo Muccioli

Torna prepotente un immaginario dostoevskijano, quasi una lettura tossica delle allucinazioni demoniache di Ivan Karamazov nella notte febbrile e disperata che precede il suo gesto estremo. La stessa intelligenza, la stessa medesima cultura, sopra tutto, lo stesso assoluto e incolmabile bisogno d’amore.

La tossicomania è un sogno d’immortalità, ed è una condizione che rinvia profondamente all’infanzia. Con una differenza: da bambini non vogliamo essere immortali perché, semplicemente, lo siamo. Non ne sanno nulla, i bambini, della morte. Vivono il presente, dimorano nell’evento, ossia nell’eternità. Essi non sanno, sono.

È attentissimo nella sua analisi, Cantelli, a strappare la figura del tossicomane al semplice desiderio di morte o di autodistruzione, restituendogli il posto che la filosofia, la psicanalisi e la medicina hanno designato per lui nel corso dei secoli: quello di un’adolescenza perpetua dominata da un principio d’immortalità. Scavando una distanza, un solco, che è un abisso intellettivo tra la causa e gli effetti devastanti: “Perché il tossico – e questo è il nodo centrale della tossicomania, il suo affascinante mistero – il tossico ignora la sua autodistruzione. Nella sua sostanziale solitudine, egli non sa di distruggersi”.

Fabio Cantelli durante l’intervista per Netflix

E non deve colpire questo nostro costante rapporto con la materia letteraria perché non è solo deformazione nostra ma dello stesso Cantelli che – proprio a proposito della cocaina e citando Gottfried Benn – ne rileva, e ne rivela a noi lettori, “l’elemento faustiano, la sensazione di esserne posseduti in quanto depositari di un segreto e di un potere straordinari”. Sanpa è un libro che trasuda amore per la cultura in genere e la letteratura in particolare, dove Cantelli Anibaldi non lesina citazioni, riferimenti – mai banali e sempre acutamente centrati – a una miriade di autori – da Hölderlin a Jacques Vaché, da Georg Trakl a Carlo Michelstaedter, da Antonin Artaud a Guenon, da Nietzsche a René Daumal, da Cioran a Gurdjieff, da Jacques Rigaut a Mishima, da Georges Bataille a Simone Weil, da Tristan Tzara a Lautréamont, da Marinetti a Picabia, da Rilke a Céline – fino a una sua stessa affermazione che lascia impietriti:

“Dall’altro lato coltivai con passione un innamoramento, cioè l’unica condizione che oltre alla droga e alla letteratura permetta all’uomo di disarmare momentaneamente le proprie angosce”.

Allo stesso modo, con la consueta lucidità, Cantelli non lascia spazio a dubbi quando parlando del suo percorso di crescita sottolinea come stava “preparando il passaggio dalla rappresentazione del dolore al dolore autentico, dalla letteratura alla vita”.

Sta in questo passo, verso la fine del libro quando ormai anni di “pulizia” lasciano spazio per altro nella vita di Cantelli, che sta uno dei possibili centri di questo testo: e cioè che la storia di Cantelli, la storia di San Patrignano non è soltanto una storia di tossici e della comunità di recupero che provò – questo andrà sempre e comunque riconosciuto a Muccioli – a fare ciò in cui lo Stato era completamente assente, ma è una storia che riguarda tutti noi da vicino. Che la “mania” come la “dipendenza” sono tratti che riguardano la vita di ciascuno di noi e che lo sguardo così attento, profondo, analitico di Cantelli è uno sguardo prezioso perché capace di scendere a patti non soltanto con le sue debolezze, ma con le nostre.

Vincenzo Muccioli nella primissima comunità di San Patrignano

Un altro dato che colpisce nel leggere le parole di Cantelli è che molti dei riferimenti a San Patrignano sono quasi sospesi, solo lievemente accennati. Alcuni, evidentemente, perché ritenuti poco essenziali per il racconto – Walter Delogu, altra figura centrale del documentario Netflix, e padre della bravissima Andrea che, cresciuta a San Patrignano gli ha dedicato il suo primo romanzo – La Collina – è citato una sola volta – altri invece perché superflui: non bisogna dimenticare, infatti, che questo libro è la riedizione de La quiete sotto la pelle, uscito nel ’96, anno in cui tutti ancora sapevano. E allora citare l’omicidio Maranzano come, molti anni prima, il processo delle catene senza dare ulteriori spiegazioni, offre davvero la misura di cosa fosse diventata Sanpa tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta: un’entità imprescindibile, le cui sorti e i cui lati oscuri – che Cantelli non ignora – interessavano un pubblico amplissimo, divenendo, di fatto, elemento di continua e incessante discussione pubblica.

Del resto è proprio dall’omicidio Maranzano – avvenuto nel 1989 – che nasce l’esperienza di questo libro, perché è davanti all’inaspettato che Cantelli avverte, forse per la prima volta, la necessità di un’analisi che prescindesse la propria storia personale per confonderla – quasi avesse il dono della solubilità – nel meccanismo mostruoso di quello della comunità. Dentro a un rapporto che Cantelli non esita a definire come verticale – capace cioè di escludere la dimensione del presente e del contingente orizzontale perché dotato di una resistenza capace di sfidare l’oblio del tempo e che nel tempo, invece ti accompagna come altra ossessione – emerge la sua incredibile onestà intellettuale e – diciamolo pure – l’ala del turbine intelligente che ne contraddistingue la ricerca.

Uno dei ragazzi imprigionati nella comunità di San Patrignano

E allora è tutto all’interno di un rapporto tra la comunità e la società che la circonda che per Cantelli si consuma non solo il dramma personale di Sanpa – e ancora una volta insieme con essa quella di Muccioli – ma la tragedia ben più grave della storia del trattamento delle tossicodipendenze in Italia e nel resto di un mondo che a San Patrignano guardò a lungo come esperienza inequivocabilmente unica nel suo genere.

Questo è un passaggio fondamentale per capire cos’è stato il “metodo” San Patrignano. In un Occidente dove il sapere ha tanto più acuito negli uomini l’inquietudine e il senso d’impotenza quanto più si è occupato di catalogare e piegare la vita ai suoi fini, San Patrignano ha cercato semplicemente di ricongiungere il sapere alla sua originaria natura di evento e mostrare che il rapporto tra il sapere e la vita è come quello tra la forma e il contenuto, tra l’onda e il mare, e che la verità riguarda proprio il mistero di questo rapporto, l’esperienza che accade quando l’onda si riconosce attraverso il mare e il mare attraverso l’onda.

Cantelli apre i cassetti di ricordi che non sono nemmeno più i suoi ma quelli della generazione precedente di ospiti della comunità. Di una comunità affascinante quanto misteriosa che non disdegnava derive o centrature mistiche ed esoteriche che, secondo il giudizio di Cantelli, solo la personalità immensa del suo fondatore impedì di trasformarla in una vera setta come quella del reverendo Jones in Guyana o di Charlie Manson. Insiste su questo punto Cantelli, su un sistema terapeutico, di fatto, senza metodo, legato a nodo gordiano con le capacità umane di Muccioli con la sua incredibile empatia, una comune con tratti quasi hippie, non priva di una certa naïveté, culto armonico dentro l’oscurità dark e new wave dei primi anni ottanta.

Vincenzo Muccioli davanti ai giudici per il processo “delle catene”

È nel confronto con la norma borghese dell’esterno, con l’inevitabile – per molti aspetti – necessità di confronto con lo Stato, i suoi apparati e le sue leggi, che secondo Cantelli inizia il declino di San Patrignano, nel suo doversi omologare a uno Stato che, di fatto, non ha previsto una vera cura del tossico e che quindi non può capire la necessità anche estrema dei metodi.

Il “male”, in fin dei conti, opera e offende fintantoché non si sa tale: la consapevolezza di essere male lo disarma. Ma se è vero che la parte malata guarisce sapendosi tale, è altrettanto vero che ogni sapere traccia un limite, oltre il quale, fatalmente, si radica nell’ombra un altro male. È questo a rendere così ambigua, se riferita alla psiche, la parola “guarigione”: il fatto che la vita stessa sia una malattia dalla quale non si può, ma nemmeno si deve guarire, perché una totale guarigione, ossia una consapevolezza senza limiti, equivale alla negazione della vita, equivale alla morte. In fin dei conti è proprio quella porzione di male oscuro, quella zona minacciosa e ineliminabile a riconsegnarci a noi stessi, a salvarci.

Se, dunque, per Cantelli, i metodi coercitivi di Muccioli sono accettabili – del resto è durante una di quelle prigionie che Cantelli vive l’esperienza, anche qui, quasi mistica, di contatto con la sua tossicomania (chi vi scrive fa fatica ad accettarli, ma chi vi scrive non conosce il potere di seduzione di quell’abuso e di quella tossicomania per poter davvero esprimere un giudizio che non sia solo di principio libertario) non lo è naturalmente l’uccisione di Maranzano con la sua “aura sacrale che emana infallibilmente da tutte le situazioni di estrema violenza”. E per quanto Cantelli stesso sposerà in pieno i giudizi processuali – con un Muccioli venutone a conoscenza solo alcuni mesi dopo e, in ogni caso, estraneo ai fatti – il giudizio morale si fa certamente più critico e più sospeso nei confronti di un uomo immerso in veri e propri deliri di onnipotenza – già presenti in nuce nell’uomo e nell’impresa in cui ebbe a porsi – accresciuti da una sindrome di accerchiamento che – dal primo già citato processo – resero la comunità sempre più fragile perché ormai incapace e impossibilitata – dall’incontro col mondo – ad autogiustificarsi e autodeterminarsi; verso una crescita esponenziale che ne snaturò i principi fondativi, trasformandola in vera e propria azienda con un’efficacia sempre più facilmente raggiungibile e, pertanto, sempre meno reale e alla vanità – altro tratto distintivo del fondatore – cui lo esposero la centralità, la notorietà mediatica e politica della quale si trovò investito.

È proprio all’interno della difesa acritica di un mondo ormai nella sua parabola discendente, esattamente all’interno di un meccanismo cameratesco che non vuole più vedere la verità ormai nuda ed esposta, che nasce la frattura di Cantelli, è lì che grazie alla sua onestà e alla sua ricerca della verità che vengono gettati non più i semi narcotizzanti delle droghe ma quelli vivificanti della verità.

Natalia Berla, suicidatasi a San Patrignano

Nel tratteggiare le orbite della sua storia mai in linea retta ma fatta sempre di cadute e ritorni, Cantelli è molto attento a scavare nelle più reali profondità della tossicomania al punto tale da riconoscerla quando si riduce alla semplice dipendenza. “Per capire la tossicomania – scrive Cantelli – è necessario scendere alle radici dell’io, dove accadono eventi che vengono quasi sempre trattenuti nella rete interpretativa che abbiamo steso sul mondo per tenerlo a distanza, riducendolo di volta in volta in oggetto di sapere: oggetto storico, scientifico, giuridico, economico”.

Ma per noi che ci consideravamo di un’altra categoria, di una razza pregiata di tossici capaci di teorizzare la propria devianza, per noi che provavamo un gusto snobistico nel frequentare proprio gli ambienti più sordidi e che quando era stato necessario vendere libri e dischi per la droga c’eravamo sempre preoccupati di salvare il Tractatus di Wittgenstein o Remain In Light dei Talking Heads, per noi, così com’era diventata, la comunità non poteva davvero andare più bene.

Cantelli non fa sconti a sé stesso, al suo “sentimento di superiorità intellettuale, e nel conseguente uso della seduzione dialettica, dove si annidava il mio narcisismo, la mia irrisolta impasse adolescenziale”, sentimento che rimane in parte integro anche sfogliando queste pagine – almeno come desiderio di affabulazione. Ma è un’affabulazione capace di tenere insieme la fascinazione – che l’uomo è palesemente in grado di esercitare – con lo “squallore di alcune pensioni di Porta Genova o al clima torbido, levantino, delle docce dell’albergo diurno della Stazione Centrale”. Fortissime sono le immagini con cui descrive, riesuma alla memoria, consegnandole al lettore le tappe canoniche dello sradicamento da droga bruciate in una sua personale saison en enfer – “il furto, la questura, le perquisizioni, le botte dei poliziotti, la diserzione dal servizio militare, la prostituzione, le notti all’addiaccio con la remissività di chi lo considerava un inevitabile prezzo da pagare”.

L’utopia della comunità originaria, l’assoluta coincidenza tra parte e tutto, la fedeltà al principio ermetico che sancisce il rapporto tra l’alto e il basso e la loro specularità, si era venuta a infrangere contro le rocciose emergenze della vita pratica.

A segnare il passo e il destino di Cantelli è la stessa crisi di San Patrignano. Qui, intorno a questo tema – evidentemente cruciale – si snoda uno dei passaggi più interessanti del libro attraverso cui Cantelli pone l’attenzione – prima ancora che sull’omicidio Maranzano, e dunque sull’aspetto processuale e morale della questione Sanpa – sull’evoluzione della stessa comunità. Scrive: “Quando me ne andai, nell’estate del 1989, San Patrignano era una comunità di circa mille persone. Al mio ritorno, nella tarda primavera del ’91, le persone erano quasi raddoppiate […] questa trasformazione ebbe un duplice effetto: da un lato l’ospite poteva adattarsi più facilmente all’ambiente, dall’altro proprio questa maggiore accessibilità abbassava il livello del transfert nella terapia. Si stava “meglio”, in comunità, ma proprio perché si stava meglio si era meno comunità. In altre parole anche a San Patrignano era iniziato a esistere il “privato”, la dimensione nella quale ha trovato fondamento in Occidente l’individuo borghese”.

Vincenzo Muccioli insieme al segretario dei Socialisti, Bettino Craxi

 

Intuivo che l’inconscio della comunità fosse il mio stesso inconscio ed io avevo bisogno a quel punto di conoscere la mia origine.

San Patrignano era la madre psichica, madre che mi aveva partorito una seconda volta, e la profondità stessa del mio amore per lei m’imponeva di non accontentarmi di spiegazioni a buon mercato, di capire come, di là dalla tesi ufficiale della “scheggia impazzita”, plausibile ma tale da non poter placare la mia inquietudine, fosse potuto accadere nel suo grembo un fatto del genere.

L’evoluzione del senso stesso di San Patrignano, sempre meno fedele allo spirito originario – con la conseguenza della perdita del rapporto esclusivo e privilegiato con Muccioli a questo punto della storia ormai circondato da una serie d’intermediari scelti tra i fedelissimi sopravvissuti alla terapia e da personale qualificato e, in ogni caso agli occhi di Cantelli, incapaci o impossibilitati a replicare l’impatto emotivo e sciamanico del fondatore – e sempre più trasformata in una struttura di cura, mirata non più all’attenzione totalizzante verso la mania del tossico nell’interezza della sua persona ma soltanto alla rimozione rapida dei motivi pratici dietro la sua dipendenza consumistica, sono la molla che allontana Cantelli dalla madre per affrontare – potremmo dire – definitivamente – o quantomeno in maniera compiuta – il rapporto tra sé stesso e la comunità salvifica.

Ma a salvarlo, offrendogli una strada, un percorso, un cammino che lo condurrà fino al presente, sarà ancora questa sorta di etica che lo accompagna da sempre: quel rifuggire dalla tentazione di seguire acriticamente una delle due strade possibili, entrambe ontologicamente senza via di scampo, quella di abbracciare la fedeltà a Sanpa o passare la linea, andando verso i suoi detrattori. Cantelli fa capire che c’erano ragioni per scegliere l’una come l’altra strada, ragioni non solo superficiali ma in qualche modo personali e profonde rispetto a una comunità che dava tanto pretendendo, comunque, altrettanto in cambio. Ma che scegliere una delle due strade, un riparo dalla possibile tempesta rappresentava in ogni caso solo un male minore, lì dove affrontare il male a viso aperto con tutti i rischi che ne conseguivano – prendere distanza dalla figura materna – era però la sola fragilissima – ma non impossibile – speranza per crescere.

Muccioli con uno degli ospiti della comunità

È però fondamentale sottolineare che la frattura nella storia di San Patrignano è per Cantelli non solo il prodotto di uno scontro, per certi versi inevitabile, tra l’utopia degli inizi e la necessità di un compromesso con la società e la politica, ma rappresenta in maniera inscindibile la proiezione nella sua creatura della scissione della personalità di Muccioli su vasta scala, scisso com’era, infatti, tra gli aspetti empatici e sciamanici e l’ambizione politica e aziendalista. Una scissione, un’incorreggibilità dell’uomo che – va sottolineato – Cantelli non giudica mai in maniera severa, affascinato dal suo salvatore, da qualità umane certamente indubbie e fuori dall’ordinario eppure condannate a un certo punto – dominate – da una costante spinta all’azione che da un certo momento in poi non farà altro che metterlo in un angolo dove non potrà che ripetere una serie di errori che esporranno il fianco della comunità alle critiche più facili e più feroci.

“Tecnica” significa che nell’età del nichilismo forma e sostanza coincidono, e che ogni possibile senso, ogni possibile verità, non possono più essere separati dalle loro forme, dai modi nei quali si esprimono. Significava quindi, in ultima analisi, che una trasformazione formale di San Patrignano avrebbe portato a un cambiamento sostanziale della comunità.

L’ultima lotta di Muccioli contro l’Aids, malattia della quale ha sempre taciuto, a differenza di Cantelli che racconta nelle pagine la sua sieropositività, diventa così lo specchio certamente tragico di una lotta ormai impossibile. E ha ragione Cantelli quando scrive che la ricerca di Muccioli di nascondere la verità rispetto all’omicidio Maranzano erano, sì, il tentativo di salvare la comunità dagli attacchi esterni che avrebbero potuto mettere in discussione la sua stessa esistenza ma che, altresì, erano tentativi di un uomo ormai non più in grado di comprendere che quel futuro che voleva preservare era già stato ampiamente corrotto e che lo stesso omicidio era il frutto – deviato quanto si voglia – di un sistema che aveva già tradito lo spirito originario, compromettendo per sempre l’avvenire di quelle idee.

Con l’addomesticamento dell’animale San Patrignano sembrava esserci stato un reciproco adeguamento: da un lato la società, ossia il nuovo tossicodipendente di massa che entra ed esce con maggior facilità dalla droga, che non è mai sino in fondo tossicomane ma che proprio per questo non riesce nemmeno a non esserlo più del tutto, e dall’altro la comunità, che da grembo che influisce traumaticamente e sottilmente sulla psiche, provocando transfert prodigiosi e smontando resistenze, era adesso luogo pubblico che “offre un servizio” senza sconvolgere più così radicalmente l’identità del drogato.

Eccolo allora, infine il punto centrale: l’esperienza storica di San Patrignano, il suo lascito – se così possiamo chiamarlo – sta tutto nell’evoluzione dalla tossicomania alla tossicodipendenza. Negli anni di condivisione di quel progetto da parte di Cantelli, la stessa droga aveva mutato forma passando da uno stato della propria coscienza che implicava “un’attiva partecipazione dell’invasamento maniacale, nella comunione con il dio droga” lasciando spazio da un esercito di “invasati” la cui mancanza della sostanza era, citando Antonin Artaud “genitale e predestinata” ai tanti – ai troppi, forse – che nella droga non vedono più certo un dio bensì “un tiranno insieme benevolo e spietato […] per le quali la droga era senz’altro meno dolorosa perché meno esaltante, e che erano quindi in grado di allontanarsene con minor trauma”.

Vincenzo Muccioli con i coniugi Moratti, principali finanziatori della comunità

Ecco allora che Cantelmi in questa evoluzione legge lo stesso passaggio sociologico che “quarant’anni fa aveva visto l’Occidente impegnato a negare ideologicamente la follia cancellando di fatto, col pretesto di “liberarlo”, anche il malato di mente”.

Un’osservazione importante perché come la rimozione della follia ha condannato la malattia mentale ai margini della società – avendo perso l’occasione non certo di continuare nella barbarie dei manicomi ma di porre la follia al centro di un discorso ancora una volta sociale e politico – così “Se l’eroina, gli allucinogeni, le amfetamine, la cocaina fossero legalizzati e naufragassero definitivamente nel mare magnum della stupidità consumistica, la droga cesserebbe automaticamente di essere quello che è: uno straordinario indicatore del disagio e dell’orrore della nostra civiltà. E io, in quella lontana San Patrignano, avevo creduto che qualche significativo cambiamento – nell’arte, nella poesia, nella letteratura, nella cultura in genere – potesse derivare proprio dalle persone che hanno attraversato il deserto della tossicomania, facendo pienamente e dolorosamente esperienza della frammentarietà dell’io, ossia della verità profonda del nostro tempo”.

Fabio Cantelli Anibaldi ai tempi della sua permanenza a San Patrignano

Ecco che la massima colpa commessa da Muccioli e San Patrignano sta proprio nel non essere riusciti a evolversi, a ripensarsi, ad accettare le proprie colpe e le proprie strutture evolutive per, invece, “slittare nell’abiezione, protetto dal lasciapassare del fanatismo, dall’ottusa, granitica convinzione che gli strumenti notturni del male, se utilizzati da mani candide, se soggiogati ai loro gesti luminosi, avrebbero miracolosamente perso la loro natura distruttiva, e docili come il lupo di fronte a Francesco si sarebbero lasciati guidare a obiettivi opposti a quelli per i quali erano stati creati”.

Va assolutamente sottolineato come – nonostante il tema trattato – questa sorta di memoir, di diario personale che si fa quasi saggio filosofico – scorre leggerissimo per intrinsechi meriti letterari che gli conferiscono un’assoluta leggibilità ma anche per inedite capacità umoristiche come nel sesto capitolo – quello che precede non il finale ma “un finale” a lasciare ancora una volta spazio a differenti interpretazioni – intitolato non a caso “Quadri comici di una disperazione” nel quale Cantelli ha la capacità di rievocare il suo sguardo sul momento più critico della storia di San Patrignano con assoluta leggerezza e ironia forse in virtù proprio di quel principio di distacco che stava nascendo dentro di sé, quello di essere un pianeta in fuga dal sistema tolemaico della comunità per riappropriarsi, finalmente, di un percorso che fosse soltanto suo. Due sono in particolare i bersagli della sua ironica levità: Laura, giornalista di grido dei tempi e Cataldo, ispettore di Polizia, in fondo due facce di una stessa medaglia, quella di un certo interesse smaccato, di una sorta di persecuzione mediatica prima ancora della lecita macchina della magistratura che si abbatté in quei giorni su un sistema al collasso, con Muccioli sempre più in un angolo e sfuggente e i suoi “luogotenenti” rappresentati “in una continua oscillazione metaforica tra milizia e sentimento, tra un esercito e una famiglia sempre sul punto di degradarsi in manipolo mercenario e in cosca mafiosa, noi […] ministri di quel regime in disgrazia”.

Lui, essendo riuscito laddove tutti avevano fallito – debellare le tue pulsioni di morte – era anche l’unico in grado di svuotarti all’istante di ogni capacità di reazione, di toglierti la spina della corrente vitale, di disanimarti. Sino a infonderti la tremenda sensazione di non valere nulla, di dipendere, nel bene e nel male, totalmente da lui.

Ed è forse in queste righe che si concentra tutta la spirale e il messaggio conclusivo dell’esperienza di San Patrignano quel “grazie e nonostante” che Cantelli ripete alla fine del documentario. Un meccanismo dove la salvezza era certamente possibile – è stata possibile, non va mai dimenticato – ma troppo spesso solo a costo di stringere un patto faustiano in salsa romagnola che implicava una fedeltà e una sottomissione alle regole della comunità anche al di fuori di ogni possibile meccanismo terapeutico, fino a sconfinare nello stesso proprio ambito di libertà di pensiero.

Lì dove, Cantelli sembra ricordarci, invece, che non esiste salvezza che non passi per la conoscenza e la riappropriazione di sé.

Non è una frase retorica ma Vincenzo io ce l’ho sempre con me, quello che io sono lo sono anche grazie a Vincenzo e anche grazie a San Patrignano. Anche se mi tocca riconoscere nonostante Vincenzo e nonostante San Patrignano.