Era agosto, piovigginava in modo fastidioso e aspettavo un Negroni.
Mi trovavo a Ivrea per il festival letterario della città, era pomeriggio e sedevo al tavolo di un bar con due persone di cui mi fido molto, specie se si parla di letteratura. D’un tratto, chiacchierando, è venuto fuori il nome di Nicola Lagioia. Il suo nuovo romanzo, di cui avevo già sentito parlare a più riprese, uscirà tra qualche settimana, mi dicono, ed è una vera bomba. Di quelle che fanno esplodere ogni cosa nel raggio di chilometri, che tirano via le fondamenta, che distruggono senza misericordia. Dinnanzi a una descrizione tanto accalorata, pure se qui ampiamente manipolata, mi sono detto che era di questo che avevo bisogno, di un romanzo cattivo, duro, onesto. Checché se ne dica, la letteratura italiana gode di ottima salute. Entrare in libreria significa trovarsi davanti il ciarpame di influencer e divinità del web, è vero, ma basta scartabellare, e manco troppo a fondo, per trovare vere e proprie perle. Il problema è che di libri capaci di scorticare, laceranti e pericolosi, non ce ne sono moltissimi. È per questo che quando mi hanno parlato del nuovo romanzo di Nicola Lagioia ho visto la luce. Ed è per questo che quando l’ho avuto tra le mani le aspettative erano molto, molto alte.
La città dei vivi (Einaudi 2020), però, queste aspettative non le ha affatto deluse.
Marzo 2016, Roma. In un appartamento come tanti, Marco Prato e Manuel Foffo, sotto effetto di droga e alcol, torturano e ammazzano Luca Varani, ventitreenne che i propri aguzzini li conosceva appena. È uno dei fatti di cronaca più atroci e tristemente celebri degli ultimi anni. È un delitto di cui si è parlato molto e in molti modi diversi, trovandosi un posto nella memoria collettiva italiana. È una delle pagine più oscure della vita della Capitale. L’omicidio Varani, con il tempo, è diventato questo e molto altro ancora. Oggi è anche letteratura. Scandagliando, con perizia e acume psicologico, le profondità di vicende e tipi umani fragili e insieme capaci di atrocità efferate, Lagioia ci porta con sé in un viaggio allucinato e insidioso nel cuore del male più abietto. Psichedelico e allo stesso tempo oscuro, solido e allo stesso tempo fluido, La città dei vivi è uno dei romanzi più interessanti del panorama letterario contemporaneo.
In foto: copertina La città dei vivi; ritratto di Nicola Lagioia nello scatto di Chiara Pasqualini
Qual era la tua intenzione con questo romanzo?
Nessuna. Semplicemente, leggendo della vicenda, ho intuito, nel modo nebuloso in cui si avvertono le cose e le persone e le situazioni poco chiare ma attraenti, che qualcosa lì mi apparteneva. Era come se parlasse alla mia parte più profonda, c’era un che di magmatico in quella storia.
C’era una sorta di trasporto emotivo, quindi.
Sì, soprattutto nella prima fase.
Che fase?
La costruzione di questo libro può essere divisa in due momenti, entrambi molto importanti, che sono andati in parallelo – pure se a un certo punto si sono sovrapposti tra loro. Due fasi, insomma. Una di raccolta dei documenti, una di scrittura. La più immersiva, emotivamente più coinvolgente, è stata la prima. Ho letto i fascicoli, incontrato chi era direttamente coinvolto nel caso, scavato nella vita degli aguzzini. Mi ci sono infilato, nella vicenda, e più andavo avanti più saliva la temperatura emotiva.
Qualche esempio?
Quando ho incontrato i genitori di Luca Varani, quando ho visto per la prima volta Manuel Foffo alla sbarra o nei periodi in cui ci siamo scritti, quando sono andato in giro per la città per parlare con gli amici di Varani o con la famiglia Foffo o ancora con i giornalisti che stavano seguendo il caso. Quelli sono stati momenti in cui mettere una distanza tra me e quanto era successo era difficile.
La fase della scrittura è stata più semplice, invece?
Il momento della scrittura, successivo, è stato diverso. Ero solo, non dovevo confrontarmi come avevo fatto fino ad allora, e, emotivamente, sono riuscito ad allontanarmi un po’ dalle vicende; in certi casi solo a distanza ci è possibile capire se in una determinata situazione ci siamo sprofondati dentro.
E ci eri sprofondato dentro?
Per alcuni aspetti, direi di sì.
La materia del tuo romanzo è difficile, altrettanto difficile dev’essere stato averci a che fare in modo così diretto. Ci sei riuscito, a scendere a patti con la materia narrata?
Che intendi per scendere a patti?
Io, ad esempio, quando scrivo sento la necessità di comprendere, scendere a patti, con ciò che sto raccontando e credo che se avessi deciso di scrivere di un argomento come questo, per me sarebbe stato difficile accettare che cose del genere possano accadere.
Succedono dai tempi di Caino e Abele cose così, sono parte della nostra storia. Se si tratta di scendere a patti con il fatto che l’istinto di prevaricazione sia connaturato in noi e che si possa scatenare in maniera devastante, crudele, terribile, questo lo sapevo già. Il fatto è che secondo me non si tratta di scendere a patti con il peggio dell’umano, ma con il concetto che il peggio scaturisca dall’umano.
Come a dire che il male venga, nasca, effettivamente da noi, dalle persone?
Noi di solito tendiamo a relegare chi è coinvolto in questi fatti, sia le vittime sia i carnefici, nel novero delle creature fantastiche: i carnefici sono i mostri, le vittime i santi e non appartengono all’umano; come fosse tutta roba che non ha niente a che fare con noi. Questo è ciò che siamo portati a pensare, ma io credo che si debba scendere a patti con il contrario, con il fatto che di gente capace di macchiarsi di delitti atroci ce ne sia e che, pur potendo commettere azioni così terribili, sia in grado, allo stesso tempo, di provare sentimenti buoni, d’amore.
Perché credi che succeda? Perché credi che ci sia questa tendenza alla categorizzazione?
Una delle ragioni penso risieda nel fatto che il discorso pubblico tenda a separarle, queste persone dal resto. Punta al non umano, il discorso pubblico, e vuole che le persone siano divise in modo netto tra chi ha ragione e chi ha torto. Che qualcuno riconosca ai carnefici un’umanità, a Totò Riina che abbia amato i suoi figli, ad esempio, non riduce le colpe – e qui vorrei tranquillizzare chi teme che questo tipo di operazione possa incrinare il concetto di giustizia. Però la categorizzazione, a cui siamo portati in modo naturale, fa sì che si dividano le persone in gruppi dai confini netti, precisi.
La colpa è umana.
Esatto. Una persona può essere carica delle proprie colpe e capace di provare sentimenti buoni – Riina, per tornare all’esempio di prima, è giusto che stia in galera, ma ciò non toglie che possa aver provato sentimenti d’amore per i figli o per una donna. Voglio dire, cosa accadrebbe se il nostro miglior amico ammazzasse una persona? Continueremmo a volergli bene? Il fatto che abbia commesso un omicidio lo rende colpevole, ma non elimina l’affetto che potrebbe aver provato nei nostri confronti.
Qual è il ruolo della letteratura, in tal senso?
La letteratura rimette al centro della scena questa dualità, e con essa il sentimento del tragico che noi, nonostante il nostro destino sia quello di viverli, gli eventi tragici, cerchiamo di rifuggire in qualunque modo. È l’irrimediabilità che temiamo, l’irreversibilità, ma far finta che le tragedie accadano sempre agli altri, o peggio che non accadano, significa spogliarsi di una parte fondamentale di noi stessi. In quest’ottica la letteratura serve a fare il contropelo al reale, com’erano soliti dire filosofi e artisti.
Foto di Chiara Pasqualini
Foffo e Prato erano persone normali, quindi. Allora da dov’è arrivata la forza di fare ciò che hanno fatto? Qual è il nocciolo della loro furia devastatrice?
La loro debolezza. Una domanda che mi sono fatto spesso è: in un altro contesto avrebbero fatto ciò che hanno fatto? Se Foffo e Prato non si fossero conosciuti, si sarebbero trasformati in assassini? Non lo so, ma non credo. Se Adolf Eichmann non fosse nato nella Germania di inizio Novecento non sarebbe stato Eichmann. Sarebbe stato un impiegato, un assicuratore, uno scrittore, chi lo sa? Ma cosa porta Eichmann a uccidere milioni di persone? E cosa porta Foffo e Prato a trasformarsi in creature primitive e a uccidere Varani? Ecco, credo che a questa domanda si possa rispondere sia guardando alla loro debolezza, sia all’influenza che hanno avuto l’uno sull’altro. Un’altra cosa che mi ha colpito è stata la reazione di Foffo e Prato a quanto era successo. Nonostante i due confessino l’omicidio, non riescono a ricondurlo a un atto di libero arbitrio, parlano come se nei momenti dell’assassinio siano stati soverchiati da forze superiori che agivano indipendentemente dalla loro volontà. Loro lì c’erano, ma in retrospettiva non ci si riconoscevano.
Crisi d’identità?
Crisi dell’uomo moderno, direi. La società si fonda su una catena costituita prima dal libero arbitrio, poi dall’assunzione di responsabilità e infine dalla maturazione del senso di colpa. È il sistema su cui si basa Delitto e castigo ed è qualcosa che a tratti nel Novecento, con Kafka, ad esempio, ha traballato. Foffo e Prato lo radono proprio al suolo, questo sistema. Nel momento in cui non riconoscono in sé stessi il potere della libera scelta, come può maturare una colpa? Se il primo elemento di questa catena viene meno, tutto poi finisce in malora.
Ma credi che davvero non abbiano avuto potere di scelta?
Secondo me si sono trovati in una posizione in cui scegliere era impossibile, sì, ma solo perché prima, nei giorni e nelle settimane e nei mesi precedenti, hanno lavorato talmente male su loro stessi e sulle loro identità, che erano già fragilissime, da arrivare a fare ciò che hanno fatto, ad ammazzare Varani.
Quindi la colpa dove sta?
Credo che la loro colpa non risieda nel non essere riusciti fermarsi, ma nel fatto stesso di aver messo in moto le azioni che hanno portato all’assassinio. Foffo e Prato erano come dei ragazzi che, senza il brevetto da pilota, si sono messi alla guida di un aereo. Naturale che si siano schiantati. Però non direi che la colpa sta nel non essere riusciti a riportare a terra l’areo, ma nell’essercisi messi alla guida.
Però ho avuto l’impressione che Prato, a volte, lo sapesse, in che direzione stesse procedendo.
La coppia Foffo – Prato era retta da un sistema, assolutamente comune, incubo – succubo, cioè c’erano un manipolato e un manipolatore. Come spesso succede, però, i ruoli non rimanevano fissi, piuttosto penso che se li scambiassero. Prato era un manipolatore, questo è indubbio, ma ciò non significa che l’uno con l’altro non avessero messo in atto una sorta di contagio psichico. Si fomentavano, si tiravano fuori il peggio a vicenda. Indipendentemente da chi giocasse a fare il manipolato e chi il manipolatore nell’evocare le forze di cui abbiamo parlato, la spirale che li trascina via aveva chiaramente a che fare con entrambi.
Non c’era un più forte?
Quando cominciò il processo, molti, me compreso, partivano dall’assunto che Prato fosse il più forte, che Foffo fosse un succube; credevamo che Prato fosse più consapevole, brillante, intelligente. Ma era davvero così? Il dubbio mi venne nel momento in cui uno degli avvocati disse: “sicuri fosse Prato il più forte? In fondo qui l’unico rimasto vivo e Manuel Foffo”. Di certo c’è che erano complementari, i due. Foffo era ombroso, taciturno, introverso, Prato era sopra le righe, istrionico, capace di entrare nelle vite degli altri. Ciò che li ha accomunati fin da subito, però, credo siano state le incomprensioni famigliari, i problemi relazionali con i genitori.
Credi che la famiglia abbia avuto un ruolo importante nella formazione della loro identità?
Certo, ma è sempre così. Tutti abbiamo avuto incomprensioni famigliari, traumi infantili, profonde ferite giovanili. Il nostro compito verso noi stessi e verso gli altri è in qualche modo suturarle, queste ferite. Rafforzarci. Non aver lavorato su questa debolezza è stata la loro colpa iniziale.
A proposito di famiglia. Quelle degli assassini si sentono vittime, per certi aspetti, del dolore inflitto loro dai figli. Pensi siamo tutti il risultato dei traumi altrui?
Ognuno di noi ha un proprio potere di determinazione. Ognuno è stato segnato dagli altri, dai traumi, dalle questioni famigliari. Ognuno ha dovuto emanciparsi dalla famiglia. Ognuno ha dovuto elaborare dei dispiaceri. Non per questo ci siamo trasformati in assassini. Subire dei condizionamenti, e questo capita a tutti per il solo fatto di essere vivi, non è una scusa per far credere al mondo che ci sia stato tolto il potere di autodeterminazione. La colpa di Foffo e Prato sta nel non essere riusciti a imporsi su questi condizionamenti. Se bastasse aver subito dei traumi per eliminare il libero arbitrio, allora ne saremmo tutti sprovvisti.
Foto di Alessia Naccarato – Salone OFF 2018
Umberto Saba ha giustamente detto che siamo figli di un fratricidio. Io, però, mi dico che siamo innanzitutto figli di un abbandono – Romolo e Remo, d’altronde, sono stati allattati dalla lupa. Si avverte un senso di abbandono generale, credo, dinnanzi alle esistenze di Varani, Foffo e Prato. Pensi ci sia una colpa generazionale – come se le precedenti a quella dei tre protagonisti delle vicende abbiano inconsapevolmente influito sulla loro diseducazione emotiva?
Sul concetto di abbandono obietterei, mi sembra una parola troppo grossa per riferirsi al trattamento della vecchia generazione nei confronti della nuova. E, d’altra parte, l’idea che le vecchie generazioni abbiano abbandonato le nuove è storia che si ripete. C’è poi da considerare che Foffo e Prato erano sui trenta, e a trent’anni ormai si è uomini; sebbene in Italia si voglia essere giovani fino a cinquanta per poi diventare improvvisamente vecchi, anziani e inutili. Se questo abbandono avviene, e parliamo di abbandono emotivo, suppongo, perché un figlio non si sente abbastanza riconosciuto o rispettato dai propri genitori, è il figlio che deve fare in modo di emanciparsi. Nel passaggio verso l’età adulta, superata la linea d’ombra, c’è anche un’assunzione di responsabilità di noi stessi di cui dobbiamo necessariamente farci carico.
Questo senso di abbandono l’ho avvertito molto anche nelle pagine che parlavano di Roma. La sua immensità, la sua vastità spaziale e temporale, pensi che in qualche modo ci faccia sentire piccoli, sperduti? Pensi che il senso d’impotenza che per forza di cose dà una metropoli influisca sulla vita dei romani?
Roma è una città duplice. Ti fa sentire abbandonato ma anche libero e ciò che perdi da una parte lo trovi dall’altra. A volte, passeggiando per Roma, mi pervade un senso di libertà assoluto e bellissimo, ma altre questa libertà rischia di diventare tossica. Il fatto è che ad andarle troppo appresso ci si può sentire svincolati dai propri obblighi. Roma l’ho sempre vista sia come una città sfasciata, mi pareva rendesse difficile realizzare i sogni, sia come una città che non fa mai sentire soli. A Roma l’incontro casuale è facile, ma al tempo stesso l’organizzazione di un progetto è complicata; come muoversi in una palude piena di persone come te: si chiacchiera e si sta assieme, ma è complicato andare avanti.
Secondo te tendiamo all’autodistruzione?
È una domanda troppo vasta perché io possa rispondere. Ci vorrebbe un’altra intervista. Sicuramente la specie umana, nell’epoca dell’antropocene – l’epoca geologica durante la quale i cambiamenti sono dovuti all’uomo -, parrebbe essere fuori controllo; basta pensare ai cambiamenti climatici e a quanto poco stiamo facendo. Quindi, se quello che mi chiedi è se una specie può tendere all’autodistruzione, la risposta, credo, è che il rischio evidentemente c’è.
Riuscirai facilmente a tornare alla narrativa di finzione?
Non so. Per me ogni libro è una nuova esperienza conoscitiva, e non so mai cosa farò prima di iniziare. L’importante per me è dare voce all’urgenza che sento dentro.
Hai guardato nell’abisso. Cos’hai visto?
Ho visto la solitudine colpevole. E ho visto molte altre cose. Di nuovo, però: è una domanda troppo vasta perché io possa rispondere.