Una strategia suicida, vero e proprio trionfo del berlusconismo
Andrebbe ascoltato più e più volte, e con estrema attenzione, il discorso con cui Concita De Gregorio mette a nudo la folle strategia di quella parte del gruppo dirigente del Partito Democratico, che ha come obiettivo dichiarato l’alleanza elettorale col cosiddetto Terzo Polo. Secondo la giornalista ― che dirigeva ancora l’Unità, all’epoca del colloquio in cui le venne espressamente prospettato quanto segue ― il piano esposto da questo importante dirigente del Pd è così sintetizzabile: perdere le regionali in Lazio, in modo tale da rafforzare la posizione di Fini (a cui si poteva ascrivere la candidatura, poi, risultata vincente), inducendolo così ad accelerare la definitiva rottura con Berlusconi, preludio alla nascita del nuovo soggetto politico centrista in collaborazione con Casini e della futura e vincente alleanza tra questo “Terzo Polo” e il Partito democratico. Ma il dettaglio più sgradevole della vicenda è la motivazione con cui questo personaggio argomentava a favore della sicura riuscita di un progetto che definire azzardato è dire poco: come far digerire alla sinistra del Pd l’accordo elettorale con gli ex alleati di Berlusconi e l’ulteriore slittamento verso destra del partito? Presto detto: sarà la crisi economica ad agevolare questo passaggio politico.
Già solo tutto questo dovrebbe essere sufficiente a permettere l’avvio di una seria riflessione su cosa sarà realmente il Pd del dopo Berlusconi. Gestire per un po’ la cosa pubblica insieme a lui (N.B. il governo Monti, senza i voti dei berlusconiani, di fatto, non ha una maggioranza parlamentare) e poi presentarsi alle elezioni in coalizione con i suoi alleati di sempre? Questo è il futuro? Questa è l’alternativa al berlusconismo?
Se, poi, a questo ‘sommo’ saggio di ‘alta’ strategia politica, andiamo a sommare le altre questioni che la De Gregorio tocca nel predetto intervento, lo scenario politico per gli anni a venire si fa decisamente cupo. Riassumendo in poche battute la ‘sagacia’ di quella parte della dirigenza del Pd che stiamo qui criticando, il quadro che ne viene fuori è grosso modo questo: i referendum? Inutile sostenerli. Non passeranno mai! Le proteste dei lettori? Irrilevanti, tanto poi quelli che protestano alla fine nemmeno ci vanno a votare! Le manifestazioni studentesche? Uno scialbo rituale stagionale: nulla di serio!
In definitiva, tutto quello che di politicamente rilevante c’è stato in Italia, dal punto di vista della partecipazione democratica ― dal No B-day del cosiddetto popolo viola, alla manifestazione delle donne (quella del “Se non ora, quando?”) ― per il Pd poteva anche non esserci. Anzi, fosse dipeso da questa oziosa dirigenza, probabilmente, nulla di tutto questo vi sarebbe mai stato: probabilità che diventa quasi certezza matematica, riguardo ai referendum.
Come il lettore più attento avrà senz’altro notato, abbiamo volutamente circoscritto questi spunti critici non al Partito democratico in quanto tale, ma a quella parte della sua dirigenza che si colloca su posizioni che sono in linea con quanto riportato dall’ex direttrice del quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
Nelle righe che seguono, dunque, una volta verificata la coerenza e la verosimiglianza dei profili critici fin qui evidenziati, si proverà a trarre le conseguenze logiche di una siffatta strategia e, soprattutto, si cercherà di mostrare le principali ragioni per le quali sarebbe auspicabile una inversione di rotta.
Prima di procedere, però, è doveroso un breve accenno alla situazione emergenziale che ha determinato le dimissioni da capo dell’esecutivo di Silvio Berlusconi e la nascita del super-governo di tecnici, presieduto da Mario Monti. Un governo che, al momento, praticamente, ha la fiducia dell’intero Parlamento. Un esecutivo, che, insomma, è letteralmente di unità nazionale, se si considerano le ben note mire autonomiste di quella che oggi è l’unica forza di opposizione parlamentare: la Lega Nord.
Ora, nel rinviare l’analisi di merito sull’operato del nuovo esecutivo al momento in cui questo sarà delineato formalmente (e, soprattutto, a quando si saranno stabilmente dispiegati gli effetti dei provvedimenti varati), sul metodo qualcosa si può e si deve dire subito, con molta chiarezza.
Innanzi tutto vogliamo ben sperare che questa impressionante maggioranza che rasenta l’unanimità non venga usata per apportare modifiche alla Costituzione repubblicana: sarebbe davvero un grave vulnus democratico se il cosiddetto “parlamento dei nominati” ― quello che ha una composizione che è frutto di una legge elettorale che passerà alla storia con la definizione di “Porcata” affibbiatagli dal suo stesso relatore ― dovesse decidere, a fine legislatura, di sfruttare la situazione emergenziale per apportare dei cambiamenti alla Legge Fondamentale; cambiamenti che, una volta approvati con maggioranza dei due terzi, non sarebbe nemmeno possibile sottoporre a referendum confermativo. Se davvero è necessario apportare delle modifiche alla Costituzione della Repubblica ― e chi scrive non pensa che questo sia il momento storico per affrontare un discorso del genere ― o il processo si realizza in un parlamento in cui tutte le istanze politiche espresse dalla comunità nazionale hanno una propria rappresentanza, proporzionata al consenso registrato nelle urne; oppure se (come oggi) il parlamento è eletto con un sistema che sovrastima le maggioranze relative ed esclude le proposte politiche che non hanno ottenuto alle elezioni un consenso reputato sufficiente, la modifica deve essere approvata senza far ricorso a quella maggioranza qualificata che impedirebbe la richiesta di referendum confermativo, a fronte di un eventuale diffuso malcontento popolare su uno o più aspetti della riforma costituzionale. Questo ci sembra un aspetto tutt’altro che trascurabile e del tutto indipendente dalla questione economica che è alla base dell’emergenza da affrontare e risolvere in tempi stringenti. Di conseguenza, l’auspicio è che la modifica dell’art. 81 Cost. e la conseguente “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale” rappresentino un caso eccezionale e non l’inizio di una vasta opera di riscrittura del patto costituente.L’altra questione di metodo, poi, è invece squisitamente economica. Anche qui è bene essere molto chiari e netti: questa idea, veicolata ossessivamente dai grandi media, che c’è un unico modo per affrontare e risolvere il rischio economico che il nostro Paese deve affrontare a causa di una manovra speculativa senza precedenti, che ― a quanto pare ― è in grado di mettere in ginocchio la terza economia d’Europa e una delle economie più avanzate di tutto il pianeta, è semplicemente ridicola. Un processo di risanamento del bilancio pubblico, che sia anche in grado di garantire una crescita economica, può essere realizzato in diverse maniere. Se l’obiettivo è il risanamento e i vincoli comunitari (oltre che le contingenze economiche) ce lo impongono, nessuno può imporre invece la negazione di un margine di scelta politica, più o meno ampio, su tempi e modi di quest’opera di risanamento. In concreto: un Paese ricco, come è ricca l’Italia, può risanare il proprio bilancio non solo riducendo le spese, ma anche incrementando le entrate. Può farlo. Senza nemmeno aumentare le tasse, se solo si riuscisse a recuperare strutturalmente una quota rilevante di quegli almeno 250 miliardi di imponibile evaso annualmente dai contribuenti infedeli. Può farlo, inoltre, rimodulando il prelievo fiscale. Come? Andando ad agire, ad esempio, su quel 10% di cittadini che detengono quasi la metà della ricchezza del Paese. Può farlo, infine: aggredendo la rendita: non solo quella finanziaria, ma anche quella immobiliare, ovvero quei circa 1700 miliardi di euro di patrimonio di seconde, terze e ennesime case che verosimilmente vanno periodicamente a incrementare gli accumuli patrimoniali di quel famoso 10% più ricco ed in cui, probabilmente, si va a concretizzare anche buona parte di quella quota annuale di imponibile evaso, che, evidentemente, non si trasforma in investimenti produttivi, stante la sostanziatale stagnazione che affligge l’Italia da ormai troppi anni.
Fatte queste dovute precisazioni, possiamo dunque addentrarci nel merito della dichiarata riflessione e verificare, quindi, “se”, “come” e “perché” la strategia, diciamo così, centrista, del Partito democratico è una strategia suicida e per quali motivi essa rappresenta, in realtà, un vero e proprio trionfo di quelle stesse logiche berlusconiane, che larga parte dell’elettorato effettivo e potenziale del Pd ha combattuto e osteggiato in questi anni.
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Va detto subito che ciò che rende plausibile una deriva centrista del Pd, nei termini posti dalla De Gregorio, è proprio la storia di questo partito. Un soggetto politico che nasce dalla fusione di due partiti eredi della tradizione politica comunista e democristiana: i Democratici di Sinistra (già Partito Democratico della Sinistra) e la Margherita (nata dalla confluenza del Partito Popolare Italiano e di altri soggetti centristi in un partito unico). Una fusione, questa, che ha come scopo dichiarato la prospettiva di avere, nell’Italia del tardo berlusconismo, un nuovo partito che possa essere in grado di continuare a rappresentare il proprio elettorato di riferimento, ma anche di riuscire ad attrarre gli elettori più moderati dello schieramento che per quasi quindici anni ha sostenuto la singolare parabola politica dell’imprenditore ‘prestato’ alla politica.
Vedremo meglio in seguito quali sono i tratti salienti del berlusconismo e gli effetti che questa pluriennale esperienza ha prodotto nel sistema politico italiano.
Qui ci interessa ragionare sulla strategia ispiratrice del Pd, come partito di centrosinistra che punta a vincere le contese elettorali strappando elettori allo schieramento avverso. Si capisce benissimo che uno scenario del genere presuppone un quadro politico che è più bipartitico che bipolare. Si sa benissimo (o si dovrebbe sapere), però, che nell’Italia repubblicana non c’è mai stato il bipartitismo e solo a partire dagli anni Novanta del secolo scorso si è sviluppato il cosiddetto bipolarismo dell’alternanza. Un fenomeno politico che ha sempre visto da una parte Berlusconi (e i suoi alleati) e dall’altra “i comunisti”, l’appellativo di comodo con cui l’impero mediatico etichettava i suoi avversari, veicolando e agevolando la propaganda del proprietario dell’impero (lo stesso Berlusconi, chiaramente).
Dal 1994 a tutt’oggi, il centrodestra italiano è sempre stato guidato da Silvio Berlusconi e in ogni tornata elettorale ha sempre avuto lui come candidato premier (sebbene l’Italia sia ancora formalmente una Repubblica parlamentare, dove dunque il capo del governo ― checché se ne dica ― è espressione di una maggioranza parlamentare e, quindi, non è eletto direttamente dal popolo).
Berlusconi ha vinto tutte le volte in cui è riuscito a tenere assieme quell’eterogeneo schieramento di centrodestra che va dall’autonomista Lega Nord ai democristiani più tradizionalisti, passando per gli eredi del post-fascismo, per i liberali dichiarati e per i socialisti craxiani. Il centrosinistra ha vinto invece nel 1996 e nel 2006. In entrambe le occasioni gli elettori premiarono una coalizione di partiti guidata da Romano Prodi. Ma le condizioni e le sorti dei due governi del professore furono molto diverse.
Nel 1996, la vittoria del centrosinistra fu agevolata dal concorso di due peculiare circostanze: un accordo tecnico più che politico con Rifondazione comunista (il cosiddetto patto di desistenza: una sorta di intesa per non ostacolarsi a vicenda) e la scelta ― successivamente non più reiterata ― della Lega Nord di non allearsi col centrodestra berlusconiano.
Le elezioni del 2006, sul piano strategico, rappresentano invece il punto di svolta della storia del centrosinistra italiano nella cosiddetta Seconda Repubblica. Il governo Berlusconi uscente aveva chiuso la legislatura precedente cambiando la legge elettorale. Molto di quello che è successo negli ultimi anni è legato più o meno direttamente all’approvazione del cosiddetto Porcellum del leghista Calderoli, con tanto di liste bloccate e senza preferenze, nonché di premi di maggioranza e di soglie di sbarramento variabili. La prima reazione dei partiti fu quella di unirsi in due grandi coalizioni di segno opposto: Berlusconi, nella sua, oltre agli alleati ormai storici ― in rigoroso ordine alfabetico: Bossi (Lega Nord), Casini (Unione di Centro) e Fini (Alleanza nazionale) ― decise di tirarvi dentro persino i neofascisti dichiarati (e vedremo tra un po’ che questo non fu un dettaglio irrilevante); Prodi venne scelto con una consultazione molto partecipata, sul modello delle primarie USA, per guidare uno schieramento politico che andava dai liberali di Dini ai comunisti che, nel frattempo, si erano già divisi in due mini partiti (uno più movimentista e l’altro più filo-governativo).
Prodi vinse le elezioni di un soffio, ma fu la più classica delle vittorie di Pirro. L’Italia politica del 2006 appariva nettamente spaccata in due: poco più di 19 milioni di elettori a sostegno di Prodi, poco meno di 19 milioni di voti a sostegno Berlusconi, i dati registrati alla Camera (laddove votano tutti i nostri connazionali maggiorenni). Ciò nonostante, proprio grazie al Porcellum, Prodi, partendo dai 340 seggi della Camera, avrebbe ugualmente goduto di una solida maggioranza parlamentare, per provare ad attuare il previsto programma, se solo al Senato non ci fosse stato un risultato peggiore. L’ingovernabilità del Senato del Prodi bis, insomma, quella maggioranza che si reggeva solo grazie al voto dei senatori a vita, non fu solo il frutto avvelenato di una brutta legge elettorale: al Senato, nel 2006, Prodi non riuscì ad avere un consenso maggioritario. In altre parole, se Prodi alla Camera era risuscito a spuntarla per una manciata di voti (circa due decine di migliaia), al Senato, era Berlusconi che, nel complesso, aveva raccolto più voti: non molti di più, certo! Ma comunque decisamente al di sopra delle due decine di migliaia su cui si fondava la vittoria di Prodi nel ramo del parlamento aperto al voto di tutti.
Certo, come accennavamo poco sopra, senza gli oltre quattrocentomila voti dei neofascisti dichiarati, Berlusconi non sarebbe riuscito ad azzoppare sul nascere il secondo governo Prodi, ma tant’è: i numeri sono numeri e al Senato non erano numeri favorevoli al centrosinistra. Ed è questo il reale motivo della rapida conclusione di quella esperienza di governo: non il tradimento dei comunisti ― tra l’altro furono tre centristi (Dini, Fisichella e Mastella) a far venire meno la fiducia, nel momento decisivo ― ma un risultato elettorale negativo.
Un risultato elettorale negativo che, poi, si conferma (e, anzi, si rafforza) anche a seguito della prima svolta centrista del neonato Partito democratico: quella, datata 2008, del “voto utile” e del “partito a vocazione maggioritaria” che punta tutto su Walter Veltroni e sulla sua idea di rompere con la cosiddetta sinistra “radicale” (a suo dire “inaffidabile”), per parlare ai moderati dello schieramento avverso e convincerli a sostenere il suo nuovo progetto politico.Questo è uno dei passaggi più critici: la lettura dei risultati elettorali. Nel 2006, Prodi riuscì a far sì che la fusione tra Ds e Margherita a cui lavorava già da tempo, trovasse una prima realizzazione, nel ripresentarsi uniti ― come alle Europee del 2004 ― con una lista unica, sotto il segno dell’Ulivo. L’Ulivo di Prodi, dunque, ottenne circa dodici milioni voti (in percentuale sui voti validamente espressi: il 31,3%): grosso modo gli stessi voti che il Pd di Veltroni ha registrato, due anni dopo, vantando però nella grancassa mediatica una straordinaria vittoria, che aveva permesso al nuovo soggetto politico di raggiungere (e di superare di misura) il 33%.
In realtà, se si considera che nelle liste del Pd di Veltroni erano stati ‘ospitati’ anche i candidati radicali ― che potevano contare su un milione di preferenze registrate dalla Rosa nel pugno nel 2006 e su circa 750mila voti alle europee del 2009 ― si capisce subito che, già il parlare di una sostanziale conferma dei voti ottenuti dall’Ulivo nel 2006 è un’affermazione assai generosa. E invece nella vulgata mediatica si è raccontato (e ancora oggi spesso si racconta) di un successo che è a dir poco paradossale: da un lato, perché non si capisce perché un sedicente partito a vocazione maggioritaria dovrebbe esultare per un risultato che, anche in termini percentuali, è parecchio al di sotto della maggioranza assoluta; dall’altro, perché ― anche volendo stimare in un inconcepibile zero assoluto, l’apporto di Pannella, Bonino e dei loro elettori ― il Pd di Veltroni cresce di due punti in percentuale rispetto all’Ulivo soltanto perché nel 2008 è aumentata l’astensione.
La strategia centrista, dunque, nell’immediato non ha prodotto alcun incremento reale nei consensi registrati dalle urne. La supposta capacità di attrazione del voto moderato non c’è stata. Soprattutto, se non fosse ancora sufficientemente chiaro l’esito disastroso della svolta centrista del 2008, mentre l’Unione di Prodi due anni prima aveva ottenuto una vittoria risicata, il Pd di Veltroni (quello “a vocazione maggioritaria”, ma anche no), alleato di Di Pietro e con la partecipazione nelle proprie liste di una delegazione radicale, perde le elezioni con un distacco di oltre tre milioni di voti (Berlusconi supera i diciassette milioni di voti, mentre la mini coalizione-noncoalizione di Veltroni nemmeno riesce ad arrivare a quattordici milioni di preferenze), pari a poco meno di dieci punti, in percentuale (Berlusconi presidente: quasi al 47%; Veltroni presidente: 37,5% circa).
Nonostante questa evidente sconfitta elettorale, Veltroni scelse di continuare a puntare dritto al centro, iniziando a corteggiare apertamente l’Udc. Qui è doveroso sottolineare che anche sommando i poco più di due milioni di voti del partito di Casini a quelli di Veltroni, nel 2008, la sconfitta sarebbe stata egualmente inevitabile. Tuttavia Veltroni continuava a sostenere che, per il futuro, bisognasse puntare a un’alleanza stabile con l’Udc. Nelle successive tornate elettorali, però, il Pd, localmente, fece registrare dei risultati imbarazzanti che spinsero Veltroni a dimettersi da segretario.
Anche a fronte di un risultato alquanto deprimente alle Europee del 2009 (il partito “a vocazione maggioritaria”, non riusciva a raccogliere nemmeno otto milioni di voti, su un corpo elettorale di cinquanta milioni di aventi diritto), nella nuova segreteria cominciano infine a registrarsi dei primi timidi accenni a un cambio di strategia e si introduce nel pubblico dibattito l’idea di far nascere un Nuovo Ulivo.
In verità, non si è mai capito bene se il cosiddetto Nuovo Ulivo dovesse essere un patto elettorale tra Pd e forze della sinistra, o se il progetto strategico di nuove alleanze dovesse mirare a coinvolgere anche l’Udc.
Di certo, è notoria l’avversione di Casini per Vendola e Di Pietro (i due principali esponenti delle forze politiche collocabili a sinistra del Pd).
Di certo, è evidente che più il Pd si sposta al centro, più una parte del suo elettorato ― verosimilmente quella più di sinistra ― rinuncia a seguirlo.Con il che si comprende meglio il senso di quel perverso ragionamento del dirigente piddino, di cui ci ha dato notizia la De Gregorio: se il nostro elettorato di riferimento non capisce i disegni degli strateghi di partito, sarà la situazione emergenziale generata dall’aggravarsi della crisi economica a indurre ognuno dei nostri potenziali elettori a più miti consigli.
Detta così sembra quasi un ricatto. E se non è proprio un ricatto, senz’altro non è un discorso squisitamente democratico.
Dopo aver verificato, numeri alla mano, perché l’ossessione centrista di parte del gruppo dirigente del Pd, da un punto di vista strategico, costituisce un suicidio politico, bisogna comprendere bene in che senso il perseguimento convinto di questo tipo di obiettivo finisca col rappresentare un vero e proprio trionfo del berlusconismo. Vanno, pertanto, brevemente accennati i tratti salienti di un fenomeno che, fin qui, abbiamo più volte nominato, senza però mai poi provare a darne una qualche minima definizione.
Ora che, finalmente, Silvio Berlusconi sembra essersi adagiato sul tratto discendente della sua parabola politica, insomma, è possibile dire una parola di chiarezza su questa sciagurata fase storica? L’uso violento dell’apparato mediatico che lui direttamente (nelle televisioni e negli altri media di famiglia) o indirettamente (nei media controllati grazie al suo potere di pressione politica o finanziaria) ha avuto modo di orientare, la propaganda ossessiva a base di slogan ad alto impatto emozionale, l’occultamento e il sovvertimento della realtà fattuale, sono tutti elementi che vogliamo provare a lasciarci definitivamente alle spalle, oppure no?
Le vicende che abbiamo fin qui descritto, purtroppo, danno un pessimo segnale in proposito: Berlusconi ha realizzato per anni le sue finalità prioritarie ― in estrema sintesi: la neutralizzazione delle inchieste giudiziarie che direttamente lo coinvolgevano; la salvaguardia del suo impero economico ― innescando nel suo elettorato dei meccanismi psicologici, per cui il voto al suo schieramento doveva apparire come qualcosa di ineluttabile, a prescindere poi da ogni verifica di merito sull’operato del suo governo. Il piatto forte delle sue campagne elettorali, in fondo, è sempre stato questo: “la paura di”. Se non volete “A”, dovete votare B. Laddove B. è stata la costante che ha dominato la scena politica italiana, per un ventennio (o giù di lì), mentre “A” era una variabile di comodo: la dittatura comunista; l’invasione islamica; il partito delle tasse (o anche quello “dell’invidia e dell’odio”); etc.
Ebbene: il partito veltroniano “a vocazione maggioritaria”, quello che ha provato a convincere l’ipotetico berlusconiano moderato a preferire la serietà del nuovo soggetto politico al proprio vecchio referente elettorale, non è un partito che a parole diceva di ripudiare l’antiberlusconismo e nei fatti, poi, attraverso la cosiddetta strategia del voto utile, cercava invece di costringere l’elettore di sinistra a continuare a votare “come ha sempre votato”, per evitare che poi vincesse nuovamente Berlusconi?
E, di fronte al fallimento di questa strategia basata sulla doppiezza e sulla mistificazione, il progetto ancor più smaccatamente centrista, denunciato dalla De Gregorio (l’idea di sfruttare la crisi economica per far digerire all’elettorato di sinistra un’eventuale accordo elettorale con gli ex alleati di Berlusconi: il cosiddetto Terzo Polo), non è una ulteriore applicazione di questo meccanismo psicologico?
Lo stesso governo Monti, di fatto, oggi, nasce grazie a una massiccia dose di propaganda mediatica di questo tipo: “se non vuoi che l’Italia fallisca devi accettare il cambio di governo senza passaggio elettorale”. ‘Qualcuno’, addirittura, è arrivato a parlare espressamente di “sospensione della democrazia”. E qui il problema è che ― come già si è accennato in precedenza ― se è vero che la nostra è pur sempre una Repubblica parlamentare (e che dunque in caso di dimissioni del governo uscito vincitore dalle urne, il Presidente della Repubblica può sempre verificare se il Parlamento è disposto a dare la sua fiducia a un nuovo esecutivo), va anche detto che le modifiche significative prodotte dalla legge elettorale altrimenti nota come “Porcata” non consentono certo di avere un Parlamento che sia perfettamente rappresentativo delle diverse opzioni politiche presenti nel Paese; un parlamento, peraltro, in cui vi sono diversi esponenti che non brillano certo per autonomia politica e per dirittura morale.
Ma, ancor più che sul terreno delle pratiche politiche, è su quello dei contenuti programmatici che si può evidenziare chiaramente quanto il berlusconismo abbia condizionato e stia condizionando l’azione del Partito democratico.
Si pensi a quello che è il vero e proprio nervo scoperto di questa fase storica della politica italiana: le politiche del lavoro. Questo è il settore nel quale è più evidente che mai, quanto siano azzeccate le parole, scritte da Peppino Caldarola, in uno dei suoi articoli più recenti:
«Il berlusconismo, ecco la conclusione, con la sua martellante campagna anticomunista, è riuscito a provocare il più gran rigetto culturale della sinistra che si sia mai prodotto in Italia spingendola all’occultamento di sé»
Come altro potrebbe spiegarsi, infatti, quella subordinazione mentale che spinge il nuovo che avanza nel Pd, il sindaco di Firenze, Matto Renzi, a rilasciare dichiarazioni del genere:
«Sto con Marchionne. La Fiat fa un investimento sul proprio futuro e per la prima volta non chiede i soldi allo Stato e agli italiani»
Ma all’incapacità evidente di candidarsi a rappresentare politicamente gli interessi della classe operaia, va purtroppo sommata anche la debolissima posizione che il Pd assume riguardo alla questione del precariato esistenziale.
Qui il punto politico che bisogna sollevare con forza è l’illegalità sostanziale che ammorba larga fascia dei settori produttivi di questo Paese.Perché non si ha il coraggio di dire apertamente che l’introduzione di forme contrattuali più flessibili, iniziata col pacchetto Treu e dilagata con la legge 30 del 2003 (inopinatamente intestata a Marco Biagi, vittima di un focolaio terroristico del tutto fuori dal tempo e da ogni logica), non ha affatto prodotto ― come si auspicava ― una regolarizzazione di quella significativa massa di rapporti di lavoro, svolti in nero, per sottrarsi a un regime contrattuale considerato troppo rigido? Perché non si riesce a dire che il contratto di stage formativo, così come quello di collaborazione a vario titolo, ed ogni altra misura analoga escogitata per evitare di regolarizzare un’assunzione che dovrebbe essere a tempo indeterminato, nella sostanza, non differiscono dal lavoro irregolare sic et simpliciter? Perché non si riesce, insomma, a far capire che il datore di lavoro che impone al lavoratore questo tipo di pratiche non è diverso dall’imprenditore che elude o evade il fisco, essendo in ogni caso il tutto finalizzato a incrementare in maniera irregolare i propri margini di profitto?
Sono questi gli aspetti che tangibilmente mostrano cosa significhi avere come principale partito del centrosinistra un soggetto politico che, nella migliore delle ipotesi, cerca di conciliare gli interessi dell’impresa con quelli dei lavoratori, quando non si ha invece la netta sensazione che siano invece solo gli interessi delle imprese, quelli che il partito reputi davvero rilevanti (come testimonia appunto lo scivolone di Renzi, citato poc’anzi).
Sono queste le ragioni per cui è più che mai auspicabile che quell’inversione di tendenza che gli elettori sono riusciti a imporre ai dirigenti di partito, a Milano, a Napoli e soprattutto in occasione dei referendum per l’acqua bene comune e contro il ritorno al nucleare da fissione (oltre che per cancellare l’ennesima legge ad personam che Berlusconi si era fatto per evitare il giudizio dei tribunali), riesca a realizzarsi anche alle prossime elezioni politiche.
Elezioni politiche che, sia chiaro: prima ci saranno e meglio sarà, per il futuro del nostro Paese.