“Il significato del racconto è radicalmente musicale. Spesso ho dovuto riscrivere un paragrafo perché il suono era sbagliato.” (L. Michaels)
Potendo, li avrei salvati è la prima raccolta dei racconti di Leonard Michaels in lingua italiana. Conosciamo il nome di Michaels come lo scrittore del breve romanzo Sylvia; o il controverso autore del Club degli uomini; solo adesso arrivano i suoi racconti tradotti da Luca Briasco e Roberto Serrai per Racconti Edizioni, che ha inseguito a lungo il progetto prima di portarlo a compimento. Un’edizione completa delle raccolte di racconti di Michaels in italiano. Da Going Places del 1969, alle sette storie del ciclo di Nachman. Potendo, li avrei salvati prende il nome dalla raccolta del 1975 – I Would Have Saved Them If I Could – ed è un richiamo per i lettori di prosa breve.
Leonard Michaels non è conosciuto come Raymond Carver o Flannery O’Connor, ma tra i narratori nordamericani di racconti si è conquistato un suo gruppetto di seguaci. Me lo immagino ancora giovane come una specie di outsider errante che si aggira magro e alticcio in un Greenwich Village scosso da visioni beat. Michaels sta appoggiato in disparte, troppo preso dalla ricerca di una voce per sintonizzarsi sull’Urlo dissacrante che si abbatte all’epoca sulle strade d’America. Intuisce che i tempi stanno per cambiare al ritmo di rivoltose chitarre suonate da ardenti mordaci troubadour, cammina svagato, ascolta jazz, sente la prosa jam scivolare sotto le dita, scrive e si inerpica sopra i cespi della frase letale smussata da ogni tentazione di superfluo. Solo allora il giovane scrittore chiude il quaderno, al mattino lo riapre – e per anni continua a rileggere e riscrivere.
Quella di Leonard Michaels per la parola è una forma di compulsione. Che Lenny Michaels scriva racconti per devozione alla scrittura è una cosa che sentiamo immediatamente. È uno scrittore letterario, guidato dall’ossessione di mettere parole su carta a un ritmo musicale. Il suo approccio può essere lirico. Non è un beat tutto cuore istinto e lunghi periodi, ma un incastonatore di frasi.
“Lavorava a livello di frase, come un poeta”, diceva di lui Wendy Lesser.
A volte Michaels è predatorio, si getta sul racconto con tutto l’io, scrive per catturare immagini, come nel roboante shot Negli anni Cinquanta, dove mette insieme una carrellata urbana di scatti e frasi, tra incontri con ragazze, serate a spasso con Kerouac, detective che fanno lezioncine sullo stile di vita americano, e pensieri vaganti. Negli anni Cinquanta è uno dei suoi racconti più selvaggi.
“Mi piacevano gli emarginati perché mi sembravano originali e aristocratici, persone che erano costrette a vivere per un ideale, o avevano scelto di farlo. La gente normale mi sembrava fondamentalmente poco seria.”
Leonard Michaels è molte cose insieme. Il neonato newyorkese figlio di immigrati polacchi, il bambino che parlava solo yiddish, lo spericolato ragazzaccio che sentiva l’interferenza di una doppia lingua nel cervello, l’uomo che ha passato la vita a scrivere e insegnare letteratura e critica a Berkeley, l’accurato annotatore di parole, il saggista, l’audace lettore di Wallace Stevens, il ritirato delle valli italiane. O lo scrittore americano più notevole che sia apparso sulla scena negli ultimi anni, come diceva Susan Sontag.
Da scrittore può essere strabordante nella sua nevrotica autoanalisi di narratore – come in Raccontafavole, bugiardi e noiosi.
“A un racconto ci lavoravo finché non mi sentivo obbligato a smettere e leggerlo ad alta voce. La mia amica ascoltava e poi diceva: «Sono così imbarazzata per te». Strappavo il racconto. Ne scrivevo un altro, finché non mi sentivo obbligato a smettere e leggerlo ad alta voce. La mia nuova amica ascoltava, ma non diceva né che era bello, né che era brutto, e nemmeno che era così così. Strappavo il racconto.”
Non mette a freno la fantasia, il vagheggiamento, la sperimentazione.
Nella raccolta I Would Have Saved Them If I Could, Michaels gioca con il postmoderno: ci sono racconti e annotazioni sull’assassinio di Trockij, su Lord Byron, su Karl Marx che passeggia fumando sigarette, per un effetto di “straniamento controllato” che Michaels stesso faceva risalire al maestro Borges. Lo scrittore ebreo-americano è più o meno un realista. La sua formazione morale gli impedisce di espugnare la realtà di un significato. Avverte il peso della storia del Novecento, delle origini europee, dei fantasmi del totalitarismo. Michaels può essere straniante, giocoso, irriverente, frammentario, raramente si concede l’irrealtà, ma come Kafka era a suo modo un realista, Michaels può forzare la realtà verso momenti di surrealtà.
Le sue narrazioni possono partire da insignificanti dettagli per arrivare alla rivelazione.
“Quando mio zio Moe è morto d’infarto sul colpo, sono diventato un esperto del sistema delle metropolitane. Con dieci centesimi arrivavo fino al Queens, tornavo indietro a razzo verso Coney Island, poi cambiavo direzione puntando sul George Washington Bridge – oltre il quale si stagliava l’oscurità.” – Assassini
Assassini, uno dei suoi racconti più conosciuti, racconta la strampalata avventura di un gruppo di ragazzini che si arrampicano su un tetto per spiare un rabbino che scopa con la moglie. La rivelazione del titolo arriverà nel corso della lettura. Nel racconto c’è Phillip Liebowitz, l’alter ego sbandato dello scrittore, che compare già in Going Places, e ricorre nei racconti successivi.
In effetti Leonard Michaels mette in gioco sé stesso nella scrittura, mostra il suo corpo, la sua natura, le sue compulsioni. Il modo in cui scrivo di me è personale, o non è niente – pare abbia detto una volta. Ci sono una moltitudine di io nei suoi racconti. Probabilmente è il suo modo di essere lirico. Di aggrapparsi alla carne della parola. Lo show, don’t tell della ricerca narrativa.
Pane nero, burro e cipolle, è una piccola sezione di scritto dentro una più vasta sezione di scritti, che mostra il talento di Michaels nel mostrare le cose.
“Fuma un’altra sigaretta. Prenditi il tempo che vuoi. Tuo padre grida nel sonno, ma lui è nato in Europa. Per un ragazzo nato in America non c’è niente di cui preoccuparsi. Anche se mangi mezza dozzina di bialy, con cipolla e caffè, dormirai come un bambino.”
Ma la perla nascosta sono le storie di Nachman alla fine della raccolta, forse la parte più matura e scura del cuore antiromantico di Leonard Michaels. Le avventure del matematico Nachman raccontano le storie di un uomo consumato, che durante una conferenza a Cracovia si mette alla ricerca delle sue origini ebree polacche in compagnia di una guida, e in California si gode il lento quotidiano annichilimento, tra una corsa dei cavalli e incontri accidentali con colleghi e conoscenti. C’è qualcosa di amaro e sinistro nei racconti di Nachman. Sezioni di frasi entusiasmanti.
“La limousine li stava aspettando. Salirono a bordo e l’auto si staccò dal marciapiede e partì, a una velocità quasi sognante. Nachman sentì l’impulso di sporgersi dal sedile di fronte a sé per guardare in faccia l’autista. Ma come avrebbe reagito se non ci fosse stata nessuna faccia, e solamente un’altra nuca?”
Si possono leggere i racconti di Potendo, li avrei salvati cronologicamente, o vagabondando tra i periodi e le raccolte di Michaels, tracciare una direzione o una deviazione, non c’è una regola per leggere storie che hanno la materia di pezzi sommersi estratti dalle macerie – tutti i racconti sono un po’ di questa pasta, e in quelli di Michaels ci sono luminose brevità. In una collezione così varia ognuno potrà trovarci dentro la brevità che cerca.