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Io sono solo, loro sono tutti | Il sottosuolo di Massimo Pericolo

Se si volesse usare un cliché caro alla critica letteraria, allora parlando dei lavori di Massimo Pericolo si potrebbe dire che essi contraddicono l’assunto crociano che la vita e l’opera dell’artista siano due discorsi separati e quindi non analizzabili l’uno in funzione dell’altro. Nel caso di Alessandro Vanetti, invece, siamo davanti all’autobiografismo più sincero, caratteristica comunque alla base del rap. Pericolo è comunque eclatante in quanto nei suoi testi vi sono poche tracce di sovrastrutture, citazionismi, giochi linguistici: la sua poetica ruota intorno a quei pochi elementi che caratterizzano la sua esperienza: la povertà, la provincia, le difficoltà nelle relazioni, la giustizia, il rapporto con i genitori. Scialla Semper è stato costruito intorno a queste aree tematiche e il suo secondo lavoro, Solo Tutto, non fa eccezione, tranne che per un aspetto, messo subito a nudo con grande onestà in Casa Nuova: il fatto, ovvero, che Vanetti, o perlomeno il suo tenore di vita, non sia più lo stesso, perché ora ha qualche prospettiva. O meglio, lui sarà sempre di casa in strada ma la strada è riuscito a portarla in una casa, dopo anni passati a girare senza una meta fissa dormendo dove capitava.

Gran parte di Solo Tutto è il tentativo di Vanetti di raccontare questo passaggio che lo ha portato ad allontanare dalla sua vita le situazioni che costituivano l’ossatura della narrazione di Scialla Semper; un allontanamento però, e questo è importante, di tipo materiale nella realtà (e nella narrazione del disco), di tipo temporale nella scrittura: quei fatti si sono spostati un po’ più in là nella memoria e quindi magari il loro ricordo tende a confondersi (Airforce, ad esempio), ma la sua attitudine, la sua visione delle cose, segnata profondamente, rimane la stessa. E’ in questo spazio di frattura (materiale e temporale, ripetiamo) che possono entrare quindi le parodie, qualche gioco con i tic linguistici tipici del rap (si pensi a Bang Bang e Solo Sex, ad esempio). Solo Tutto è quindi il secondo capitolo dell’autobiografia di un personaggio che fa i conti con una condizione materiale differente, pur avendo cambiato poco o nulla della sua personale filosofia, e che inizia a considerare un lessico diverso, inizia a esercitare un certo distacco sulla lingua classica del rap e a piegarla con finalità nuove, aggiungendo generi letterari classici ma per lui ancora sconosciuti, in modo da interpretare con altre parole una realtà che è comunque quella personalissima di Brebbia. Insomma, è il disco che la creatura di Frankenstein farebbe uscire una volta fuori dal laboratorio.

Le tematiche della distanza, del cambiare vita senza cambiarla veramente, del fare fatica a gestire una condizione nuova, potrebbero essere analizzate secondo le categorie poste dall’antropologo René Girard nel suo Menzogna romantica e verità romanzesca. Se si volesse sospendere l’incredulità, e considerare i testi di Pericolo come la sua autobiografia, quindi come un racconto letterario in sostanza, alcuni dei passi del saggio di Girard (in cui vengono tirati in causa Il rosso e il nero, Don Chisciotte, Memorie del Sottosuolo tra gli altri) svelano dei paralleli interessanti con i testi di Solo Tutto. È un’operazione, questa, che lascia il tempo che trova, ma interessante nelle affinità tra alcune righe provenienti da contesti così diversi (il libro a cui facciamo riferimento è del 1961).

La chiave di Menzogna romantica e verità romanzesca è il concetto di desiderio triangolare. In poche parole, il percorso dei protagonisti di molti romanzi moderni (da Don Chisciotte fino ai primi del ‘900) è scandito da qualche desiderio più o meno irraggiungibile. Quale che sia l’oggetto del desiderio (spoiler: non è mai l’oggetto in sé ma un determinato tenore di vita di cui l’oggetto -o la persona- è solo il simbolo), il desiderare stesso non è mai indipendente. Ovvero, il protagonista dei romanzi moderni non desidera mai qualcosa o qualcuno di per sé, ma solo perché prova una fascinazione (che può sfociare nell’invidia o nell’odio) verso un cosiddetto mediatore, ovvero una figura che vive un certo tipo di vita, verso la quale il protagonista si sente attratto. Per capirci, i cavalieri dei libri che leggeva Don Chisciotte, o le eroine dei romanzi di Madame Bovary, ma anche personaggi reali come il Bergotte per il narratore della Recherche. Il meccanismo che muove i personaggi romanzeschi è quindi di tipo imitativo: si desidera un tenore di vita esemplificato da un mediatore, il quale può essere più o meno distante nel tempo o nello spazio (o nella finzione), ma ci si illude che questo desiderio sia indipendente, connaturato a sé stessi. Nelle parole di Girard, “tutti gli eroi rinunciano alla più fondamentale prerogativa individuale, quella di desiderare secondo la propria scelta” (“non c’è una scelta se i bisogni te li impongono” in Sabbie d’oro potrebbe essere letta in quest’ottica). Questa è la menzogna romantica (cioè delle opere letterarie romantiche), mentre la verità romanzesca è quella delle narrazioni che mettono in luce questo triangolo, svelando le dinamiche imitative alla base del desiderio.

Ora, non ci vuole molto a capire che in generale, nel rap, è centrale il tòpos di possedere prodotti che siano sinonimo di uno stile di vita altrimenti (prima) precluso ai protagonisti stessi. Questa dinamica di tipo imitativo non è mai stata granché presente nei testi di Pericolo. Se il desiderio triangolare come lo abbiamo descritto sopra può essere una chiave di lettura interessante per la narrativa alla started from the bottom now we here, il testo di Casa Nuova segna una rottura con questo tipo di dinamica. “E spacco come, cazzo / cercavo un esempio ma spacco come nessun altro” potrebbe allora essere interpretata come la frase di un personaggio che prende coscienza del fatto che il suo desiderio (di emanciparsi attraverso il rap) non ha (più?) mediatori. Allo stesso modo, due simboli materiali del desiderio mediato (non solo, ma in questo caso nel discorso del rap), ovvero moda e droga, vengono rifiutati dal protagonista, che così facendo riesce a comprare finalmente una casa. Questa rinuncia al desiderio mediato (cioè al desiderio tout court) potrebbe essere la chiave di lettura della frattura tra identità e posa, laddove la posa è quella di immedesimarsi nei simboli e nei cliché discorsivi di un individuo che fa successo incarnando i simulacri del desiderio mediato (“La cosa peggiore di esser famoso è che vogliono che ti comporti come non lo fossi”, ma anche “Volete il rap rappo / volete me ecco”). Nel momento in cui rinuncia al desiderio mediato, il protagonista ottiene un vantaggio materiale ma allo stesso tempo precipita in una indeterminatezza linguistica ancora prima che etica: a quali modelli fare riferimento allora? A quali mediatori ispirarsi?

La risposta narrativa di Pericolo è perentoria: solamente a sé stesso e alla propria storia. Si verifica allora quello che Girard individua come “invertire la corrente del desiderio, deviarla dall’altro verso l’io”, accennando a Zarathustra ma anche al Kirillov de I demoni. Questa tensione verso sé stessi, che viene suggerita da Venerus in Casa Nuova (il suo “devi sapere chi sei tu” è la stessa cosa di “devi comprendere chi sei quando non sai chi essere” in Sabbie d’oro) è quanto di più faticoso da sostenere, poiché frutto dello sforzo di curvare il desiderio imitativo verso il soggetto. Il risultato di tale sforzo è si la conquista di una certa indipendenza e integrità, ma al prezzo dell’assenza di mediatori. Si legge così “Perché volevo fare a modo mio senza fregarvi e adesso sanguino” in Cazzo Culo; altro esempio di contrasto è la riga “Domani mi alzo presto però mi scazzo a letto”, dove ancora si vede questo strappo tra la vita nuova (di Polo Nord) e la difficoltà di riempirla.

L’orgoglio di avercela fatta da solo (“Ma ho fatto quello che mi pare / ce la posso fare da me” in Brebbia 2012), di aver svoltato con il rap (“Giudico la strada per dove mi ha portato / mi pento soltanto di quello che non ho fatto” in 100K, o “Che ho fatto quel che ho fatto perché l’ho fatto io” in Debiti) sembra ricalcare Girard quando dice che “l’orgoglio non è più una tendenza naturale dell’uomo, ma la più alta, la più austera di tutte le vocazioni”. Una volta però arrivato all’irriducibilità, all’orgoglio di aver compiuto una strada personalissima, notiamo quello che Tommaso Naccari nella Paper Boi del 27 Marzo chiama “sad bragging”. Frutto della consapevolezza, aggiungiamo noi, che l’assenza di mediatori può risolversi nel particolarismo assoluto, nella difficoltà di riempire la cosiddetta casa nuova. Nelle parole del protagonista delle Memorie del sottosuolo, quindi, “io sono solo e loro sono tutti” (ed è interessante notare come le due parole che danno il titolo al disco siano presenti entrambe in questa frase). Sempre nelle parole di Girard, “l’eroe vuole esprimere l’orgoglio e la sofferenza di essere unico, si crede sul punto di abbracciare la particolarità assoluta, ma finisce in un principio di applicazione universale, sbocca in una formula quasi algebrica nella sua anonimità”. Allora una conseguenza potrebbe anche essere il senso di colpa, per essere l’unico ad aver compiuto questo percorso (tematica su cui è basata Debiti).

Per comprendere la difficoltà di questa strada allora, occorre confrontarla con la vita di prima, una vita di eccessi lucidamente raccontata in tutte le canzoni di Pericolo, riassunta in Solo Tutto dalla triade alcol, droga e puttane. Con Girard, “l’alcol, gli stupefacenti, il dolore fisico molto intenso, gli abusi erotici possono distruggere o temperare il desiderio. L’eroe giunge allora a uno stato di abbruttimento lucido che costituisce l’ultima delle pose romantiche. […] Ma l’eroe pretende di compiere nell’indifferenza, per puro capriccio e quasi senza avvedersene, tutto ciò che gli altri compiono per desiderio”. Questa consapevolezza dolorosa dell’essere usciti dal non-desiderio (o piuttosto, dall’illusione di non desiderare) puntando piuttosto su sé stessi, si può leggere nei versi “Tu fai la vita che vogliono gli altri / cosa si prova?” in Debiti.

La fatica di uscire dalla strada, lo sforzo di uscire dalle dinamiche del desiderio mediato per approdare a una condizione di unicità, la quale è fonte di orgoglio ma anche di mancanza di paradigmi cui fare riferimento (“Vedo che la verità è soltanto un bluff / la vera verità è che non ce n’è” in Bugie), tutti questi passaggi del personaggio-Massimo Pericolo nelle canzoni (che abbiamo visto coincidere sostanzialmente con Alessandro Vanetti), sono evidenziate nell’altro grande tema del disco, ovvero il rapporto con le donne. Chiave dei testi di Solo Tutto è la mancanza che il protagonista prova per un personaggio femminile. Due pezzi espliciti in tal senso sono Sai solo scopare e Stupido. A questa mancanza sono contrapposti pezzi invece ambientati più lontano nel tempo (nella vita vecchia, verrebbe da dire), come Air Force e Troia. La mancanza di modelli imitativi nel contesto di una relazione viene d’altra parte spiegata dallo stesso Vanetti in un post su Instagram precedente all’uscita del disco, in cui scrive “non ho avuto esempi di relazioni durature e sane […] Nel disco c’è anche questo, l’amore, l’argomento su cui sono più confuso nella vita e nella musica. Porca puttana”. Si prenda come esempio la dinamica raccontata in Stupido: “Se ti voglio come un pazzo è colpa nostra/ mi hai dato sempre tutto, scusa se ti odio un po’ / ma se ti scopa un altro, è meglio che non so perché non può / menerei il mondo e non sopporto / che se fossi stato stronzo fino in fondo mi vorresti il doppio”. Questa doppia dialettica del concedersi e del ritrarsi, unita a quella della gelosia, ricalca Girard quando scrive: “ogni desiderio che si manifesta può suscitare o accrescere il desiderio di un rivale. Occorre dunque dissimulare il desiderio per impadronirsi dell’oggetto”.

La manifestazione del desiderio è fonte di sofferenza, mentre l’ascesi è in funzione del desiderio poiché lo amplifica ed è finalizzata alla sua soddisfazione. Il negarsi in quanto oggetto del desiderio provoca odio e gelosia nei confronti del desiderante. Il Massimo pericolo che “quest’anno ho perso quella che mi amava” (in G) e che “mi manchi troppo per scopare” (sempre in Stupido), è l’eroe che subisce il sottrarsi del corpo del mediatore, oggetto del suo desiderio, e rimpiange di non essersi sottratto a sua volta, quando anche lui era mediatore reciproco. Nella mancanza verso la figura femminile si svelano quindi ancora le dinamiche del desiderio triangolare: si diventa mediatori l’uno per l’altro, l’ascesi è funzionale al desiderio, nel momento in cui uno dei due mediatori viene a mancare, subentrano l’odio e la gelosia. Il “ti adoro stronza” rivolto al mediatore ormai scomparso può allora fare il paio con l’affermazione di Girard secondo cui “ogni persona che ci fa soffrire può essere da noi ricondotta a una divinità della quale è solo un riflesso frammentario e l’infimo grado, divinità (Idea) la cui contemplazione ci dà subito gioia in cambio della sofferenza che avevamo”. Questa gioia non è nient’altro che la memoria. La storia raccontata in Air Force, soprattutto, è un racconto costruito sulla propria memoria, mettendo insieme “momenti di vita diversi o accaduti in modo leggermente differente”.

Una volta compiuto il passo doloroso di rinunciare ai mediatori, nella dispersione del linguaggio che ne consegue (che è direttamente collegata alla dispersione dei modelli e quindi dell’identità), la memoria assume una dimensione salvifica. D’altronde molta della discografia di Massimo Pericolo finora è fondata proprio sulla memoria di esperienze passate, più o meno lontane del tempo. In particolare, accanto alla memoria di un passato dal quale sta faticosamente uscendo rinunciando (anche) al desiderio mediato, troviamo in Solo Tutto (ma anche in Scialla Semper) la memoria affettiva, la quale, secondo Girard, “ritrova lo slancio verso il sacro, e tale slancio è puro godimento poiché non è più infranto dal mediatore”. Tralasciando l’uso del concetto di sacro, che non è di casa in questo disco, la cosa che balza l’occhio è, ancora, irrimediabilmente, il lavoro per liberarsi di un mediatore, che sia la droga, la moda, una ragazza, una certa narrativa. Un lavoro che ha come conseguenza la confusione, la difficoltà di riconoscersi, l’angoscia, ma ha come controparte il liberarsi, appunto, della memoria affettiva, una memoria distante, magari non “la salvezza dello scrittore” come dice Girard parlando di Proust, magari non sufficiente a riempire questo soggetto che è il mediatore di sé stesso, ma che comunque permette di raccontare una metamorfosi in atto, uno sviluppo, uno sforzo votato, parafrasando Sabbie d’oro, a essere capace di scegliere per sé, cercando di non farsi imporre i bisogni dagli altri.